Maria Giuseppina Buonanno, Oggi 2/12/2015, 2 dicembre 2015
DIAMANTI DI CENERI
Non sgranate gli occhi. Sì, è così: il corpo di una persona defunta può trasformarsi in un gioiello, in diamante. Pensieri e gesti per esorcizzare, sono naturali. Ma la diamantificazione esiste davvero. In sostanza, dalle ceneri della persona morta viene estratto il carbonio che, pressato e sottoposto a temperature elevate, è poi trasformato in diamante.
Il processo viene eseguito da un’azienda svizzera, Algordanza, nata nel 2004 nel cantone dei Grigioni.
«Certo, è sintetico, ma ha le caratteristiche fisiche, chimiche e ottiche di un diamante naturale», spiega Christina Sponza, di Algordanza Italia, che ha sede a Roma dal 2009. E fotografa così il fenomeno: «Ne produciamo mille all’anno. Le maggiori richieste arrivano dalla Germania, dai Paesi di lingua tedesca e dal Giappone. In Italia c’è una media di 10 diamantificazioni all’anno. E sono soprattutto le donne a chiederle».
Tra queste, c’è Linda: 39 anni, sorriso quieto e bagliori di dolore nel ricordo del marito Sandro, avvocato, morto a 46 anni nell’estate 2014 per un linfoma raro, dopo un calvario di ricoveri, interventi, cure. Linda vive in provincia di Arezzo, è impiegata nell’azienda edile di famiglia e si occupa anche di catering. Porta un anello, che non toglie mai, con due gioielli incastonati. «Uno è il diamante che mi ha regalato Sandro. L’altro, di tonalità blu, rappresenta mio marito. Quando Sandro è mancato, ho pensato che non volevo lasciarlo da solo in un cimitero, dietro una lapide fredda. L’ho fatto cremare e ho portato le sue ceneri a casa. Poi ho richiesto il passaporto mortuario e con un’amica ho portato l’urna con le ceneri in Svizzera. Là, ho scelto forma e grandezza del diamante».
Linda ricorda e intanto risponde al figlio, un bel tipetto di quasi 12 anni che ha avuto da un precedente matrimonio.
«Capisco chi è perplesso di fronte a questa metamorfosi di una persona defunta. Anche all’interno della mia famiglia, all’inizio, ci sono stati dubbi. Da parte di mio padre, per esempio. Mio figlio, invece, che era molto legato a Sandro, è stato d’accordo con la mia scelta di trasformare le sue ceneri in diamante. Anche i fratelli di mio marito non si sono opposti», ricorda Linda.
«Io ho sempre sentito forte il desiderio di essere vicina a Sandro. Anche quando avevo l’urna con le sue ceneri a casa, mi capitava di metterla sul mio letto, di tenerla accanto quando guardavo la televisione», spiega col sorriso che porta con sé dolori e forza, inseguita e trovata. E nuovi amori appaiono lontani. «Ora non sono pronta. Sandro fa parte della mia storia. Chiunque altro arriverà, dovrà accettarla», dice.
E spiega che non è quel diamante a riportarla nel dramma della malattia e della morte. «No, non è l’anello. Sono i ricordi. Rivedo spesso quello che ho vissuto con lui. Mi dico: questo giorno eravamo qua, l’altro in ospedale… Sandro ha sempre avuto la speranza di farcela, non si è arreso, neanche quando ci hanno telefonato da Milano per dirci, sbrigativamente, che restavano solo le cure palliative. Oggi mi capita di aprire l’armadio per rivedere i suoi abiti. Li ho conservati tutti. A volte infilo la testa nei suoi vestiti e piango. Per mesi non ho mangiato, né dormito. Eppure ho dovuto trovare la forza». Le parole di Linda riflettono immagini.
Annamaria cerca luce
Ha scelto la diamantificazione anche Annamaria, 64 anni, milanese, dirigente scolastico in pensione. «Mio marito, che ha lavorato fino all’ultimo nel campo della formazione, è mancato un anno e mezzo fa, a 66 anni, in seguito a una lunga malattia», racconta. Anche lei, dopo la cremazione, ha portato le ceneri in Svizzera, unica sede dove avviene questo processo di trasformazione. «Dopo sei mesi mi hanno consegnato il diamante. Quando l’ho visto, il primo pensiero è stato: “che bello”. L’ho fatto montare su una catenina che porto sempre al collo. In questo modo mi sembra di continuare ad avere, in modo simbolico, mio marito accanto. Non c’è distacco. Non c’è decomposizione, ma un modo per perpetuare la bellezza. Anche le mie figlie sono state d’accordo con la mia scelta», dice Annamaria.
Portare al collo il suo particolare gioiello non la turba. Non la impressiona. «L’unica impressione è positiva. L’immagine del sepolcro, anche in letteratura, rimanda alla terra fredda, come nella poesia Pianto antico di Carducci. Con la diamantificazione, invece, prevale la luce. Io vi ho trovato una dimensione consolante, quasi un elemento riparatore e conciliatore con la fine della vita», dice Annamaria, che si definisce cattolica e al cimitero ha voluto una targa con la foto del marito.
la via dello psichiatra
«Per superare un lutto, è preferibile un percorso di elaborazione per portare dentro di sé il ricordo della persona cara che si è perduta. In questo modo la si fa rivivere stabilendo una relazione. Questa strada è più equilibrante, rispetto alla proiezione della persona scomparsa su un oggetto», dice lo psichiatra Vittorino Andreoli. «Il tentativo di vincere il distacco “mostrando”, esprime anche un certo senso del macabro: trasformo le ceneri dell’amato in gioiello e mi adorno. Quindi mi imbelletto della morte. Qui non siamo vicini all’elaborazione del lutto. L’elaborazione è un processo mentale privato, non ha bisogno di mostrare niente», analizza lo psichiatra. E ricorda: «Anche Giovanna la Pazza si portava dietro la cassa da morto col corpo del marito, Filippo il Bello».
Al tempo di Giovanna, regina di Castiglia, nel Cinquecento, non esisteva la diamantificazione.
«Le macchine che realizzano il diamante, uno per volta, simulano in laboratorio quello che la natura fa in milioni di anni. I costi variano in base alla misura, che va da 0,3 a 1 carato, e oscillano dai 4 ai 20 mila euro», dice Christina Sponza. E aggiunge: «Da poco è mancata mia nonna Tina. E anche lei, che non voleva finire sottoterra, diventerà un diamante».