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 2015  dicembre 02 Mercoledì calendario

INTERVISTA A PIETRO VALSECCHI

Pietro Valsecchi ha una casa bellissima, una moglie bellissima, un cane bellissimo che sa farsi dare il cibo – buonissimo – dal tavolo (un’opera d’arte che incorpora una fetta di quercia secolare di Versailles) emettendo suoni gutturali commoventi quindi efficaci, un’ansia cronica («Non pensa anche lei che in certe stagioni bisogna mettersi una magliettina sotto? E che la doccia vada fatta non dopo, ma prima di cena?»), una forma di sesto senso sulle persone («Però a volte prendo delle cantonate»), ma più di ogni altra cosa ha un fiuto da tartufo e una passione autentica per le storie, cose che si srotolano nel tempo e nello spazio, che lui sa visualizzare come fossero sogni e ai cui dettagli si appassiona. Storie in Tv (andate a cercare nei titoli di coda di una fiction di qualità, di un film per la Tv degli ultimi anni e troverete il marchio Taodue di cui è socia anche Camilla Nesbitt, sua moglie), storie al cinema (il 3 dicembre esce Chiamatemi Francesco, il film sul Papa di Daniele Luchetti, il 1° gennaio Quo Vado?, l’ultimo Checco Zalone) e ora anche storie sulla carta.
«Insomma ho scritto un libro. Anzi no, ne ho scritti tre, questo è il primo».
Prima famiglia, così si intitola, è la storia della famiglia Palermo, emigranti siciliani a New York alle prese con la fatica di tirare avanti e di essere, appunto, migranti italiani, quindi disprezzati. Come ci si affranca da questo giogo? Ogni fratello Palermo (Frank, Sal, Tony e Nina) sceglie la sua strada: chi il bene, chi il male e chi il cinema. E così la storia si sdoppia: da una parte la vita della famiglia Palermo e dall’altra Tony Palermo, che sulla storia della sua famiglia gira un film.
Lei che ama tanto le storie vere esordisce come scrittore con una storia di pura fantasia?
«La prima cosa che vorrei chiarire è che non sono uno scrittore. Gli scrittori sono altri. Io, semmai, sono un narratore. Lo faccio da anni – so cos’è un personaggio, quali sono le contraddizioni e come farlo muovere – questa volta, però, invece che per immagini lo faccio con le parole. E ci ho messo dentro qualcosa di molto personale».
Ma che c’entra lei con Little Italy?
«Mio nonno, che si chiamava come me, era un contadino di Pognano, provincia di Bergamo. Una famiglia tipo Albero degli zoccoli, ha presente il film? Povera gente, fatica. Mio nonno a un certo punto fa un pessimo affare: compra un pezzo di terra che appena sotto l’erba è solo ghiaia. E perde tutto. Decide quindi di emigrare in America, ma lo scoppio della Prima guerra mondiale lo ferma. Per colpa della guerra perderà quattro figli, sarà deportato in Germania – da dove tornerà a piedi – e l’America non la vedrà mai. La prima volta che ho portato i miei figli a New York siamo andati a Ellis Island, cercando tra i nomi degli emigrati ho trovato dei Valsecchi e mi sono ricordato di questa storia. Ho cominciato a pensare che cosa sarebbe successo se mio nonno fosse partito,
come sarebbero cambiati i destini».
Quindi la famiglia Palermo è la sua?
«È la famiglia delle mie suggestioni. Il padre si chiama Luigi perché ha il carattere di mio padre, Frank si chiama Frank perché come Frank Capra fa il lustrascarpe. Tony, quello appassionato di cinema, un po’ mi somiglia».
Una passione precoce anche per lei?
«Mia madre è morta quando io avevo 9 anni e il cinema mi ha salvato dai dolori e dalla solitudine. Ci andavo da solo la domenica – sono cresciuto a Crema, tutto era vicino – entravo alle 2 e uscivo alle 7. Il cinema costava 250 lire, io con altre 50 ci prendevo la gassosa e la stringa di liquirizia. Un giorno che una maschera era ammalata il proprietario della sala mi ha chiesto di aiutarlo a contenere la gente che spingeva per entrare. Da allora mi ha preso in simpatia: qualche volta mi faceva entrare gratis, altre mi portava nella sala di proiezione. Il rumore del proiettore non l’ho più dimenticato».
Lo sa che il suo libro si legge e sembra di guardare un film, vero?
«Sì, lo so. All’inizio volevo farne una serie, ma sarebbe stata la solita serie di Valsecchi. È una storia speciale – ce l’ho in mente da sette anni – e meritava un trattamento speciale, come il libro. Fare un libro è molto più complicato che scrivere per il cinema, per questo ho un grande rispetto per gli scrittori, anche se tra di loro ho capito che si odiano. Comunque forse un film diventerà: qualcuno si è già interessato ai diritti, e va bene».
Dicono che lei sia maniaco del controllo: davvero ce la fa a lasciare che la sua storia la faccia un altro?
«È già tutta scritta: non si può sbagliare».
Parlando di cinema: un film sul Papa, ci vuol coraggio.
«Io e Luchetti siamo due incoscienti e abbiamo lavorato due anni in apnea, senza aver nessun riscontro in Vaticano. Il Papa poteva alzarsi un giorno e dire: che cosa vogliono questi? E farci a pezzi. Invece dei prelati hanno visto il film e l’hanno apprezzato. I secondi di silenzio tra la fine della proiezione privata e i loro complimenti sono stati tra i più brutti della mia vita».
Da uno che ha sempre prodotto serie, che cosa pensa del fatto che siano diventate un’ossessione collettiva?
«Sono felice, ovvio. Le nuove piattaforme – penso a Netflix – portano canali nuovi su cui immettere i prodotti e anche linguaggi nuovi. Ogni posto ha il suo linguaggio: su Canale 5 non posso parlare di un serial killer che violenta tutti. La gente si spaventa».
È difficile essere generalisti?
«È difficile rimanerlo quando tutti scappano nelle nicchie. Noi abbiamo creato una televisione innovativa e poi tutti si sono aggregati».
Essere in società con la propria moglie non rischia di complicare i rapporti?
«Ma no, perché lei è una donna intelligente».
Da quanto state insieme?
«La corteggio da sempre, ma lei per anni non mi ha filato. Fino a un giorno di ventiquattro anni fa in cui la incontrai su un aereo e mi disse: “Valsecchi, siediti accanto a me”. Siamo atterrati in Sardegna, e non ci siamo più lasciati. Dovevamo andare a un festival e invece ci siamo chiusi in albergo per quattro giorni».
L’amore è eterno?
«Cambia, ma resiste. Se si continua a fare l’amore va bene. Non tutti i giorni come una volta, ma...».
Dicono che l’ideale sia una volta alla settimana.
«Perfetto, perfetto».