Marco Di Capua, Panorama 3/12/2015, 3 dicembre 2015
BENVENUTI NELLA PITTURA CHE GUARISCE
[Pablo Echaurren]
L’artista plurale Echaurren fa di nome Pablo perché, alla sua nascita nel 1951, suo padre, il pittore surrealista cileno Sebastian Matta, volle dargli il nome di Neruda. Possiede l’altalenante fervore dei timidi e lo stato di grazia, senza rancore, di chi si sente un solitario. «Tendono sempre a rimuovermi, sono un pesce fuor d’acqua» dice subito a Panorama, nelle sale della Galleria d’arte moderna e contemporanea di Roma che ospita una sua grande personale, fino al 3 aprile, con oltre 200 opere.
Partiamo dal titolo, Contropittura.
«L’ha scelto la curatrice, Angelandreina Rorro, e mi ci ritrovo, perché io passo sempre per un bastian contrario. Il titolo riposiziona il mio essere «contro», proprio all’interno del fare arte. Che è uno strumento, non un fine. Mi sento distante dai pittori autocompiaciuti, che se la tirano. E questa mostra opera una selezione sul mio lavoro in chiave politica».
Non si diverte?
«Mai. È tutta una gran fatica. Faccio ciò come per un dovere. Mi diverte scrivere, casomai».
È il contrario di quel che diceva Alberto Moravia ai suoi amici pittori: «Beati voi che non dovete pensare».
«Appunto! Dipende da qual è il tuo mestiere, dov’è che devi essere presente a te stesso.
E questa vitalità? Il senso di così tanto colore?
«È apotropaico. Perché ogni tanto mi devo difendere dalla depressione, e questa è una specie di cura per me».
In molti suoi lavori ricorre una quadrettatura, una griglia che connette il mondo delle figure a quello delle parole.
«Una sezione della mostra si intitola “Volevo fare l’entomologo”. Da ragazzo volevo fare proprio quello. Da lì nasce il bisogno di catalogare piccoli segni».
Quali sono stati i suoi maestri?
«Le mie radici sono nei lavori con Gianfranco Baruchello, cui devo tutto. E se mi chiede qual è la mia idea di bellezza, penso a Cy Twombly, anche se per molti i suoi non erano altro che scarabocchi, come per mio padre».
A proposito, esiste l’eredità di Matta in lei?
«No, mio padre aveva in mente solo se stesso. Piuttosto un mio riferimento è stato Duchamp, da lui ho ricavato la vocazione a un’arte fatta di appunti, di non-quadri. Mi ha condotto in quei territori misti: la grafica, il fumetto».
A Porci con le ali?
«Sì, alla copertina di quel libro che feci nel 76, e che generò domande tipo “Ma fai illustrazioni o quadri?”. L’anno dopo cominciai a collaborare a Lotta Continua. Ruppi, mi diedero perfino del vigliacco quando sostenni che fare della satira su Moro prigioniero era orribile. Per me la satira ha un limite nella sofferenza altrui».
E oggi? Che cosa pensa del sistema dell’arte?
«Non mi piace l’idea che il valore di un’opera sia stabilito solo dal suo prezzo, siamo in una bolla speculativa che prima o poi scoppierà. Forse. Leggi in questo quadro, Corpus Christie’s, Corpus Sotheby’s. L’arte è commento. Mi chiedo: perché l’operaio può e deve lottare per le sue cause e l’artista no?».
Si sente un operaio dell’arte?
«Sicuro. Anzi, sono un partigiano!».
(Marco Di Capua)