Emanuele Boffi, Tempi 3/12/2015, 3 dicembre 2015
BAVAGLIO E LIBERTÀ DI CICLOSTILARE
Dovendo iscrivere una figlia al liceo ho partecipato all’open day di una scuola della mia zona. Tra le varie “attività opzionali” presentate dagli studenti c’era il giornalino. Così ho letto l’editoriale di quello che deve essere il giovane direttore del foglio scolastico che, partendo dall’impegnativa domanda “cos’è il giornalismo?” spiegava che in Italia i politici corrotti mettono il «bavaglio» alla stampa, i giornalisti sono cani da guardia della democrazia, le parole sono pietre, le intercettazioni indispensabili. Non ha concluso con «è la stampa, bellezza», ma c’è mancato poco. Poi ho letto che Giuseppe Pigliatone, procuratore capo di Roma, ha dettato una serie di regole in materia di intercettazioni per evitare che inutili «dati sensibili» finiscano nelle carte. Un’ottima idea, se non fosse che la circolare recita così: «La polizia giudiziaria e il pm eviteranno di inserire il contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e manifestamente non pertinenti ai fatti oggetti d’indagine». Eccoci: in quell’avverbio c’è tutta la farina del diavolo. In Italia esistono già leggi che “manifestamente” dovrebbero evitare la pubblicazione di intercettazioni non pertinenti all’indagine. Non è solo un problema di regole, ma anche e soprattutto della “testa” di giudici e cronisti. Dal grande quotidiano al ciclostilato di classe, il giornalismo è diventato sinonimo di sputtanamento. E ce ne siamo talmente abituati che non ci rendiamo conto di essere diventati ormai solo degli spioni. “Manifestamente” anche parecchio stronzi.
Emanuele Boffi