Giuseppe De Bellis, Panorama 3/12/2015, 3 dicembre 2015
IL RE NEL PALLONE
Michel è l’uomo che ha vissuto due vite. La sua e quella percepita dagli altri. Da giovane e oggi che non è più giovane, da calciatore, da allenatore, da dirigente, da presidente dell’Uefa (che rappresenta il calcio europeo) e ora da discusso candidato alla presidenza della Fifa (la federazione mondiale del calcio). Michel è uno, ma vive in un doppio in cui l’altro lui è la sua rappresentazione fatta dagli altri. Chi è? Il genio del calcio degli anni Ottanta o il dirigente accusato di aver preso due milioni in nero da Joseph Blatter, presidente della Fifa, e per questo a rischio radiazione dal pallone mondiale?
Non c’è un prima e un dopo. Non c’è la storia del calciatore che diventa qualcos’altro. C’è un uomo complesso, intelligente e non necessariamente simpatico, spesso brusco, a volte accomodante, guascone e tenero, faccia da schiaffi e sincero ai massimi, istintivo e razionale, calmo e passionale. Amato e odiato, soprattutto. Fa tutto parte del personaggio oltre che della persona ed è tutto costantemente doppio, perché le vite hanno continuato a crescere dentro un solo corpo, ma non hanno mai smesso di essere due.
Platini è Platini. Anche adesso che lo scandalo della Fifa da lui stesso denunciato in più di un’occasione, rischia di travolgerlo. È lui perché ha ammesso di aver preso quei soldi per una consulenza, ma pensa che non ci sia niente di male. Perché è Le Roi oggi esattamente come lo era nel 1984, quando vinse l’Europeo con la Francia. E perché chi lo guarda dall’esterno è, adesso come allora, sostanzialmente combattuto tra il tifo per lui e quello contro, un po’ a prescindere dal contenuto. Divisivo, si direbbe e si dice. A cominciare dalla sua più celebre immagine: lui sdraiato per terra a Tokyo, in area di rigore, dopo aver fatto il gol più bello della sua carriera all’Argentinos Juniors e aver visto annullarselo per una misteriosa irregolarità.
Strafottente all’apparenza. Dispiaciuto alla seconda lettura. Perché gli piaceva giocare, davvero. Ma soprattutto gli piaceva essere il protagonista assoluto. Platini è uno che ha scelto di essere sempre il numero uno, qualunque cosa faccia e che quindi ne accetta i rischi impliciti e quelli espliciti: la buonafede con cui può aver preso quel denaro non esattamente pulito non è finta, è semplicemente parte di quella guasconeria che lo porta a pensare che non ci possano essere ostacoli sul suo cammino. Perché? Parce que c’est moi, direbbe senza avere molti dubbi.
Perché è lui, punto. Sicuro di sé e della certezza di essere dalla parte del giusto anche se avesse fatto qualcosa di sbagliato. A rafforzarlo nel suo convincimento c’è l’oggettiva sincronia dei tempi: fino a quando non è diventato il nemico dichiarato del discutibile padrone del calcio mondiale, Joseph Blatter, non gli era accaduto nulla.
La doppia vita di Platini era sul campo: atleta completo o genio appoggiato sul talento più che sull’impegno. Non c’è mai stata una definizione unica, perché anche qui la verità è un misto tra la realtà e la sensazione che lasciava negli altri. Enzo Bearzot lo definiva «il più bello che abbia visto in mezzo secolo di calcio». «Un fenomeno. In Italia ha vinto tutto, ma mi ha sempre dato l’impressione di non divertirsi giocando a calcio. Era molto freddo, troppo» ha detto invece di lui Diego Armando Maradona. Utile e utilitarista, come ricordò una volta José Altafini, non subiva mai fallo perché dava via la palla in fretta; quelli che subiscono i falli sono quelli che aspettano.
Ha sempre vissuto per vincere, il che si ricollega perfettamente alla storia di sé e del suo doppio: prendete la famosa e triste finale dell’Heysel del 1985, Juventus-Liverpool. Quella della tragedia, dei 39 morti. Platini porterà per sempre con sé l’immagine di aver esultato dopo quel rigore che regalò la Coppa più mesta della storia del calcio mondiale. Una gioia inversamente proporzionale alla morte. Un’immagine deforme di un campione che non sembra curarsi di ciò che è accaduto perché sta vincendo. Eppure negli anni è stato lo juventino che più ha mostrato tristezza per quel 29 maggio. Sempre presente a ogni commemorazione, sempre sinceramente sconvolto dalla strage. Allora, di nuovo, chi è Michel Platini? Il primo o il secondo? Il cinico o il sentimentale? È semplicemente entrambi.
La voglia di vincere a ogni costo se l’è portata dietro: due scudetti con la Juventus, due coppe Italia, una Intercontinentale, una coppa dei Campioni, tre volte capocannoniere della serie A, due Palloni d’oro, un campionato d’Europa, un terzo posto al Mondiale in Messico 1986. Gli è andata male solo come allenatore, perché da commissario tecnico della Francia non è riuscito a ottenere successi. Meglio da presidente del comitato organizzatore del Mondiale 1998: campione del mondo, in casa. A Parigi. Lui in giacca e maglia della Nazionale francese sotto.
All’Uefa ha portato molte cose. La più importante è il fair play finanziario: le nuove regole che dicono che i club debbano vivere con ciò che riescono a produrre vendendo calciatori, vendendo diritti tv, vendendo magliette e qualunque altra cosa riescano a mettere sul mercato. E però anche qui c’è il suo contrario, almeno a sentire gli ormai molti detrattori di Le Roi: perché sotto la sua presidenza alcune squadre, tra cui il Paris Saint Germain, hanno invece fatto carne da porco del calciomercato, potendo attingere agli infiniti capitali del fondo sovrano del Qatar.
Già il Qatar, pietra di molti scandali e soprattutto di una parte di questo legato alla Fifa: in molti dicono che Platini sia stato un sostenitore dello Stato piccolo ma ricchissimo. Ci vedono connessioni con lo stesso Psg e con l’attribuzione dei Mondiali 2022. Platini ha votato a favore, dicono tutti. E però risulta il contrario. C’è sempre tutto e niente nella sua storia. E la vicenda Blatter lo conferma: nel 2007 Platini diventa presidente Uefa, viene rieletto nel 2011, anno in cui Blatter è rieletto alla Fifa con i voti europei di Platini, e nel 2015, anno in cui Blatter è rieletto con la rinuncia di Platini a sfidarlo, come ha ricordato capziosamente il Fatto Quotidiano.
Oggi è definitivamente il nemico di Blatter, trascinato con lui nello scandalo, ma provenendo dalla parte opposta. Bianco e nero, quasi come ossessione, oltre che come stile di vita. Quindi, di nuovo, prima una verità e poi il suo contrario: in occasione dei suoi 60 anni la Stampa ha ricordato che la sera del debutto nella Juventus, a Villa Frescot, si congedò dall’Avvocato Agnelli dicendogli di aver mangiato benissimo, ma che la volta successiva allo champagne avrebbe pensato lui. Perché la vita gli ha regalato la possibilità di comandare, su se stesso e sugli altri. L’ha presa. Consapevole che era quasi sempre una bella storia. Consapevole anche che c’erano dei rischi: dal fare una battuta all’Avvocato Agnelli fino al prendere due milioni di euro da Blatter senza troppi giustificativi. Eppure ha pensato ogni volta che in fin dei conti l’avrebbe vinta lui, più geniale degli altri. Probabilmente lo pensa anche stavolta.