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 2015  dicembre 02 Mercoledì calendario

BE LIKE KOBE

BE LIKE KOBE –
Che avesse ragione il bizzarro ecclesiastico britannico, con un debole per il buon vino e le scommesse, Charles Caleb Colton nel definire “l’imitazione la più sincera forma di adulazione”, o i geni del marketing di Gatorade, che, mentre Jordan vince il suo primo titolo Nba, esortano generazioni di ragazzi in tutto il mondo a “essere come Mike”, ci sono pochi dubbi che la carriera di Kobe Bryant si sia modellata – dall’inizio e forse fino alla fine – su quella di Michael Jordan. Perché “Be like Mike”, nei primi anni ’90, da slogan commerciale diventa sogno e obiettivo di tutti quei giocatori con talento e doti realizzative sopra la media che si affacciano al mondo Nba in cerca di consacrazione. Così la caccia a “the next MJ” somiglia a quella per il nuovo Dalai Lama: si setacciano gli Stati Uniti per capire dove, quando e in chi si reincarnerà il nuovo Michael Jordan (che nel frattempo sta bene, è più forte che mai e ha appena iniziato a vincere).
C’è chi sostiene di averlo individuato, ancora ragazzino, in un college di Los Angeles, a USC. Si chiama Harold Miner, viene ribattezzato “Baby Jordan” e finirà male, molto male (se si eccettuano due vittorie in tre anni nella gara delle schiacciate, la Nba si dimentica in fretta di lui). Nel 1994 è il turno di Grant Hill prima e di Eddie Jones poi, perché è impossibile resistere alla rima che fa di “EJ the next MJ”: falso allarme, l’erede ancora non si trova.
Allora si cambia strategia, e siccome una mela non cade mai troppo lontano dall’albero, si setaccia con particolare attenzione il giardino di Chapel Hill, North Carolina, dove ha sede l’università statale. Qui al college è sbocciato il talento di MJ – che ha trascinato i Tar Heels a un titolo nazionale con il canestro decisivo in finale – e da qui hanno spiccato il loro volo verso la Nba anche Jerry Stackhouse prima (1995) e Vince Carter poi (1998). A quest’ultimo, a Toronto, di Jordan gli affibbiano pure il soprannome, nella versione a foglia d’acero (“Air” Canada), ma non è comunque abbastanza, gli oracoli ancora non si pronunciano.
Lo fanno invece in una fredda giornata di febbraio del 1998, quando la reincarnazione appare, finalmente, evidente. Nella capitale del mondo (New York City), in quella che lì chiamano the world’s greatest arena (il Madison Square Garden), si disputa l’All-Star Game Nba che mette di fronte l’Est guidato da Michael Jordan e l’Ovest dove debutta – per acclamazione popolare – un diciannovenne che ai Lakers neppure parte titolare, Kobe Bryant. Intervistato dalla tv nazionale all’intervallo sul duello (non troppo) a distanza con Jordan, le sue parole sono rivelatrici: «Quale modo migliore di imparare il gioco da uno come lui se non sfidandolo?». Poi torna in campo e mette in atto il suo piano.
Passa alla storia un’azione, in particolare. Bryant è sul lato destro del campo, Jordan lo marca stretto. Arriva un grande veterano Nba come Karl Malone per aiutare con un blocco il giovane attaccante dei Lakers. Il quale, sdegnato, dice al compagno di spostarsi, perché lui MJ lo vuole battere uno-contro-uno. Segue un isolamento contro il 23 dei Bulls, qualche palleggio e una virata conclusa con un tiro cadendo all’indietro. Sbaglia, la palla rimbalza sul ferro ed esce, ma il dado è tratto. Ambizione. Arroganza. Volontà di potenza. Desiderio dei riflettori. Gusto della sfida. Tutto questo rinchiuso in un solo possesso.
L’inseguimento di Bryant al mito Jordan parte da qui, per non esaurirsi mai. Come lui si aggiudicherà ogni riconoscimento personale possibile – sarà il miglior schiacciatore della lega, poi il miglior realizzatore, infine il miglior giocatore – di lui imiterà ogni gesto tecnico, dalle schiacciate volando in cielo con il corpo quasi parallelo al campo fino ai tiri in sospensione cadendo all’indietro. Come lui, soprattutto, collezionerà anelli, ben cinque. Tanti, ma uno in meno di quelli vinti da Jordan, ossessione degli ultimi anni di una carriera che proprio pareggiando il suo mito fondante voleva chiudere, per chiudere anche il cerchio di una storia iniziata quel giorno di febbraio del 1998 sul parquet del Madison Square Garden. Non ci riuscirà, ora lo sappiamo – e forse poco importa, forse è giusto così. Perché Michael Jordan rimane (il?) più forte, più vincente, più leggendario. Ma Kobe Bryant rimane Kobe Bryant.
Il giorno in cui annuncia ufficialmente di ritirarsi a fine stagione, il n°24 gialloviola scende in campo per una gara interna contro gli Indiana Pacers. Che si rivela essere il microcosmo perfetto per indagare il Bryant odierno, anno di grazia 2015. C’è la lettera d’addio distribuita in busta nera a ogni tifoso prima del via, seguita dal boato assordante del pubblico alla sua presentazione in campo. Ci sono 6 errori su altrettanti tiri per iniziare la partita, che diventano 13 sulle 15 conclusioni prese nel primo tempo. C’è un primo canestro da tre punti a 80 secondi dalla fine che avvicina i Lakers a -6, seguito da un secondo, incredibile centro da ancor più lontano che li porta a -1. C’è il sorriso per le telecamere e lo sguardo di sfida divertito verso Paul George, la superstar di Indiana suo avversario diretto, che i Lakers poi mandano in lunetta per due tiri liberi decisivi.
Sliding doors. Qui, solo qualche anno fa, le cose sarebbero andate in questo modo. George, sotto pressione per il duello ingaggiato con lui da Bryant, sbaglia uno se non entrambi i tiri liberi, e sul possesso decisivo Kobe piazza la zampata decisiva, come tante già piazzate in carriera – fanno 36 canestri vincenti, per l’esattezza. Invece questo è l’anno di (relativa) grazia 2015, appunto, e le porte girevoli del destino hanno in serbo un’altra conclusione. Kobe Bryant cerca insistentemente lo sguardo di Paul George, vuole entrargli sotto pelle, l’ha visto fare mille volte proprio a Michael Jordan e altre mille ha funzionato per lui. Mind games, li chiamava il loro ex allenatore Phil Jackson, che così ha anche intitolato un suo libro. Solo che Paul George non fa una piega, non incrocia neppure lo sguardo di Bryant, non ingaggia nessuna battaglia mentale. Va in lunetta, segna il primo tiro e poi segna anche il secondo. Lakers a -3, con l’ultimo tiro sempre comunque nelle mani del Black Mamba. Che si prende la stessa conclusione appena mandata a bersaglio, da lontano, da tre punti, per pareggiare. Air ball. Il tiro si perde lontano dal ferro. Magra figura. I Lakers perdono. Paul George chiude con 39 punti, Bryant con 13 e 4/20 al tiro.
È solo una partita, ma anche il microcosmo perfetto del Kobe crepuscolare per mille motivi, tutti da analizzare. Primo: il 24 gialloviola non è più il maschio-alfa Nba, non incute più sugli avversari il timore di una volta, il vantaggio psicologico che a lungo lo ha accompagnato è ormai svanito. Ieri era di Jordan, oggi appartiene, forse, a LeBron James, mentre i Paul George della lega vedono Bryant come un avversario qualunque, battibile. Secondo: il 24 gialloviola non è più il realizzatore che era qualche anno fa. L’avanzare dell’età e il peso degli infortuni subiti lo hanno indebolito: oggi Bryant non segna più, tira tanto e sbaglia tantissimo, mandando a bersaglio in media meno di un tiro su tre, peggior dato di sempre in carriera. Terzo: il 24 gialloviola tira male, giudizio in questo caso qualitativo e non quantitativo. Perché nella pallacanestro del 2015 – infarcita di statistiche avanzate, sabermetrics e mappe di tiro super dettagliate – Kobe Bryant appare un giocatore fuori moda, fuori tempo massimo, un residuo del passato che non vuole arrendersi al trascorrere del tempo: troppi isolamenti, troppi uno-contro-tutti, troppi pochi tiri frutto di circolazione del pallone, troppi pochi canestri da tre punti. Il basket cambia velocemente, lui non riesce – e forse neppure vuole – fare altrettanto. In fondo fare sempre a modo suo, di testa sua (stubborn, cocciuto, si è autodefinito un giorno: impossibile fare meglio), è quello che lo ha reso uno dei più grandi interpreti di questo gioco: possibile che oggi non vada più bene? Possibile, forse. Ma – ancora una volta – Kobe Bryant rimane Kobe Bryant.
E allora eccoci alle conclusioni. Non è stato Michael Jordan sul campo, ma sicuramente quello capace di andarci più vicino, la reincarnazione più credibile, oltre che l’unico ad avere lo stesso fuoco dentro, lo stesso animalesco desiderio per la competizione, la stessa ossessione per la perfezione, ma anche una forza mentale e un’etica del lavoro che solo il n°23 ha mostrato in carriera. Tutti i numeri che le statistiche avanzate potranno produrre relativamente alle sue ultime apparizioni Nba diranno poi che non è stato capace di cambiare il suo gioco a fronte di un gioco che invece è cambiato, ma fortunatamente rimarranno anche altri numeri. Quelli dei 5 titoli Nba vinti; quelli degli oltre 32.000 punti segnati in stagione regolare (più altri 5.640 nei playoff); quelli delle 20 stagioni disputate. Con una sola maglia, quella gialloviola dei Los Angeles Lakers. Ecco, un altro dettaglio da non sottovalutare e tanto meno dimenticare. Una. Sola. Maglia. Come Larry Bird e Magic Johnson, come John Stockton e Reggie Miller. Come Dirk Nowitzki e Tim Duncan. Una bandiera dei Lakers e un ambasciatore straordinario per uno sport straordinario, che ha interpretato e amato come pochi sono stati capaci di fare nella storia della pallacanestro. È così difficile ricambiare il suo amore?