Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 02 Mercoledì calendario

PERISCOPIO

Primi effetti dell’inasprimento dei controlli Schengen. Quest’anno presepe senza i Re Magi. Gianni Macheda.

La Chaouqui nega di essere l’amante del monsignore: «Se Vallejo Balda non si rimangia tutto, lo lascio in mutande». Ancora?. Il rompi-spread. MF.

Salvini all’Isis: «Ho fatto un anno di servizio militare». Aggiungi un anno di judo e si arrendono. Spinoza. Il Fatto.

Neanche un piccolo attentato al vertice di Parigi, delusione fra i giornalisti. Jena. La Stampa.

Se ci sarà un’uscita, sarà inavvertitamente dal basso e all’indietro. Walter Siti, Exit strategy. Rizzoli, 2014.

Il comunismo è crollato per una ragione antropologica, in quanto contrario alla natura umana che purtroppo, o per fortuna, rifiuta l’egualitarismo, e per un ragione storica, il tentativo impossibile e quindi fallimentare di Gorbaciov di riformare ciò che poteva solo essere conservato o abbattuto. Aldo Cazzullo. Sette.

Quando lessi per la prima volta la vita di Napoleone fui incantato dalla sua strategia militare. Oggi, invece, mi attrae la sua visione filosofica e amministrativa: quel suo modo di dire «ci-si-impegna-poi-si-vede» che ti aiuta a pensare che tutto sia possibile. Anch’io seguo questo schema: se c’è una cosa che voglio fare, mi ci butto dentro, poi, strada facendo, troverò le soluzioni per raggiungere quell’obiettivo che mi sembrava irraggiungibile. Urbano Cairo, editore (Salvatore Giannella). Sette.

Anche se lo usò per primo Mazzini, il termine Risorgimento non mi piace: fa parte di un’operazione di marketing dei Savoia. Preferisco «rivoluzione italiana». Abbiamo vie dedicate e piazze intitolate ai nostri eroi ma non ricordiamo neanche più chi sono. Gli americani hanno dedicato centinaia di film ai miti che fondarono la loro Nazione. E noi? Da noi è stata coltivata la smemoratezza. Abbiamo perso la memoria di tutti gli italiani che dalla Sicilia in su hanno lottato per l’Italia. È rimasta la retorica dei Savoia e di uno Stato in cui per cinquanta anni le decisioni sono state prese dal 2% di cittadini maschi adulti scelti per censo. Che Nazione può nascere se alla base ci sono solo gli interessi dei ricchi? Maurizio Maggiani, scrittore (Vittorio Zincone). Sette.

Gramsci in carcere è allucinante perché faceva le stesse schedature di Bouvard e Pécuchet: un corpus di centinaia e migliaia di betises di contemporanei. Soltanto, con un segno diverso: invece di intitolare il suo sottisier un qualcosa, tipo: «Cretini Italiani», dà l’impressione di prenderli abbastanza sul serio. Alberto Arbasino, Fratelli d’Italia. Adelphi, 1993.

Tutte le spese della famiglia erano a carico di papà e di nonna, che, oltre al miserevole compenso come portinaia faceva altri lavori, in stagione confezionava i marron glacé per Ghigo, preparava marmellate e concentrato di pomodoro per la drogheria Ferrari, lucidava l’argenteria della gioielleria Ceretto. Nonno Stalin era il classico mantenuto, e come tale si comportava, in scioltezza. Riccardo Ruggeri. Il Foglio.

Le moschee erano quattro conchiglie azzurre, grandi e bellissime e, in mezzo, il vano a cielo aperto. Di sopra, la notte, le stelle dell’Asia. Si sentiva l’ansimare dei loro motori. L’aria, pulitissima. Luigi Serravalli. Diario.

Poi all’inizio di luglio, quando l’estate era matura, un mattino al prato grande arrivavano i montanari dalle case attorno, la falce in spalla. E parlavano e ridevano fra loro, ma quell’avanzare armati me li faceva apparire soldati, o giustizieri. L’erba, l’erba alta e odorosa, la mia giungla dolce, sotto ai colpi di falce sarebbe caduta. E ciascuno si disponeva ai capi del prato, ordinatamente - ancora asburgica la disciplina di quei vecchi ampezzani. E insieme prendevano a falciare, sincronici nel movimento costante del braccio; e l’erba senza un gemito cadeva, di colpo inerti a terra i fiori di campo. Il sole si alzava e picchiava ormai, e le vecchie con le lunghe gonne nere instancabili mietevano quella gloria rigogliosa; tagliando insieme l’erba, e i fiori radiosi. Se si fermavano era solo per un istante, per affilare la lama con la cote; e poi di nuovo la falce nell’erba, più vorace. Malinconica, a sera, guardavo l’erba giacere, spenta. Ma, col passare delle ore, dal campo emanava un profumo diverso. Non più l’ebbrezza selvatica dell’erba fresca e viva, ma qualcosa di più dolce: il profumo del fieno. Nell’imbrunire, quel fiato si faceva più denso e struggente; come un ricordo, mi pareva, o una promessa aleggiante sull’erba caduta - come già, sotto, la vita si preparasse, di nuovo, a spuntare. Marina Corradi. Avvenire.

Mario Formenton, avendo ereditato dal suocero Arnoldo Mondadori la passione per l’arte tipografica, era solito redarguire i direttori dei numerosi periodici della casa per ogni corbelleria che beccava in pagina. Formenton considerava il refuso un evento mortifero, come dimostra un episodio raccontato da Eugenio Scalfari. Sul finire del 1986, il fondatore della Repubblica chiamò al telefono il capo della Mondadori. Avvertendo un’incrinatura nella voce, e ignaro del terribile destino che incombeva sull’amico, chiese: «Mario, che cos’hai? Ti sento così strano. Stai male?». E Formenton, rassicurante: «Ma no, va tutto bene. Ho soltanto un refuso». Era un tumore al fegato. Stefano Lorenzetto. L’Arena.

Ben vengano i manager nei Beni culturali. Non sono ostile. Sono ostile al termine. Non mi piace la parola manager. Io mi definisco una massaia della cultura, che cerca di trovare quello che ha in casa per far tornare i conti. La verità è che al ministero dei Beni culturali ci sono tanti tecnici meno polverosi, più vivaci, moderni che invece, per ragioni di potere da parte dei ras, sono parcheggiati. Facciamoli lavorare. Umberto Broccoli, sovrintendete ai Beni culturali di Roma dal 2008 al 2013. Sette.

L’andirivieni del carro funebre di lusso per Romagnese faceva colpo in tutta la zona ed era un simpatico diversivo in quei tristissimi giorni della primavera del 1944, col mondo in guerra, coi tedeschi nelle città con tanta gioventù lontana da casa e in pericolo, col sale e col tabacco alle stelle. Il carro funebre saliva spoglio e toronava con la bara e con le corone di fiori: le macchine delle lunghe code al ponte di barche sul Po gli davano premurosamente il passo; gli agenti si scoprivano convenientemente i capo al suo passaggio. Dentro la bara c’erano i vitelli macellati che Pavia comprava ad occhi chiusi e a prezzi di affezione. Italo Pietra, I Grandi e i Grossi. Mondadori, 1973.

Il politico, l’italiano lo adula in pubblico (al suo cospetto) e lo disprezza in privato. Roberto Gervaso. Il Messaggero.

Paolo Siepi, ItaliaOggi 2/12/2015