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 2015  novembre 29 Domenica calendario

L’IMPERO DI VIDAL ERA SE STESSO

Come si scrive la biografia di un autore che, in vita, ha pubblicato le sue memorie in due bestseller (Palinsesto e Navigando a vista, editi in Italia entrambi da Fazi), ha parlato di sé (era il suo secondo tema preferito, dopo quello della Storia americana) in decine di articoli e ha plasmato con infinita cura la sua immagine tra apparizioni nelle università, in tv, e al cinema? E, come se non bastasse, ha gestito in prima persona una biografia autorizzata e documentatissima (scritta da Fred Kaplan, biografo di Henry James, Dickens, John Quincy Adams e Lincoln, nel 1999)?
Fortunatamente la vita di Gore Vidal (1925-2012) è un argomento così affascinante che in soli 3 anni dopo la morte sono già usciti 3 libri e 2 film a lui dedicati. I primi 2 libri si sono rivelati deludenti: uno, In bed with Gore Vidal di Tim Tee- man (il titolo dice tutto) va a grufolare nei dettagli della vita sessuale citando aneddoti di seconda o terza mano su persone morte da tempo e dunque legalmente non in grado di querelare.
L’altro, Sympathy for the Devil di Michael Mewshaw, racconta con sgradevole pusillanimità il Vidal privato, il terribile alcolismo, la frequente e sprezzante crudeltà verso chi lo circondava (colpisce che l’autore di questo libro si dica tuttora amico di Vidal).
È andata meglio con i due documentari: uno, United States of Amnesia, racconta la sua vita attraverso i materiali d’archivio (il nonno senatore e il padre imprenditore dell’aviazione civile, la guerra, il debutto come romanziere a 19 anni, il coming out scandalosissimo nel 1949, Broadway, Hollywood, i Kennedy, gli amici famosi, i bestseller, i viaggi, le ville di Ravello e Beverly Hills) e qualche intervista con il Maestro (così lo chiamava in pubblico il compagno di mezzo secolo di vita, Howard Austen) rispettosa ma senza fare sconti. L’altro film, Best of Enemies, racconta i celebri duelli televisivi del progressista Vidal con il conservatore William F. Buckley: furono loro a inventare la rissa tv.
Adesso un terzo saggio, Empire of self (Doubleday), scritto dal poeta e critico (biografo di Steinbeck e Robert Frost) Jay Parini che di Vidal fu amico e lo dichiara già nella prefazione. Parini era stato scelto da Vidal come biografo ufficiale e saggiamente rifiutò perché sapeva che la spaventosa suscettibilità di Vidal avrebbe distrutto la loro amicizia.
Aveva ragione: Vidal scelse Kaplan, lo guidò, ma alla fine stroncò il suo libro, che riteneva inadeguato e che coprì di commenti malevoli. In realtà non un brutto libro, ma poco brillante e sottolinea cose che a Vidal, così narciso, dispiacevano (le umili origini di suo padre, le prodigiose mangiate e bevute che hanno caratterizzato la vita di Vidal dai 40-50 anni in su). Ecco allora l’accordo tra Vidal e Parini: una biografia sì autorizzata — basata su 25 anni di frequenti conversazioni — ma da pubblicare soltanto dopo la morte del romanziere.
Così nacque questo «impero del sé» che racconta Vidal con la finezza del critico, l’empatia dell’amico ma il realismo del giornalista: Parini non fa killeraggio post mortem ma neppure chiude gli occhi davanti alle mille contraddizioni di Vidal.
È proprio questo dosaggio che rende Empire of Self la biografia che mancava nel canone vidaliano.
L’approccio di Parini è stato subito apprezzato da tanti lettori importanti e diversissimi (Gay Talese, Erica Jong, Brad Gooch) perché da una parte analizza con attenzione i romanzi di Vidal, descrivendo la grandezza — e i limiti — del suo progetto così ambizioso: la stesura — attraverso una carriera lunga decenni — di un corpus che raccontasse la biografia dell’America dai Padri Fondatori ai giorni nostri (un ruolo, quello di romanziere biografo del suo Paese, osserva giustamente Parini, che ha aperto la strada a un piccolo esercito di romanzieri storici arrivati a un genere che 50 anni fa non era popolare come oggi).
Ma Parini non dimentica quelle che Vidal chiamava «opere dell’immaginazione», i romanzi postmoderni come Duluth (molto ammirato da Italo Calvino) e Myra Breckinridge che nel 1968 raccontò un uomo transgender (la sua versione dell’Orlando di Virginia Woolf), al momento della loro uscita poco considerati dai critici americani per una serie di ragioni che Parini illustra: l’odio dell’autodidatta Vidal per gli accademici, che ovviamente non lo rese popolare tra i professori che dettavano l’agenda critica , il suo passare così disinvolto dalla scrittura per Hollywood ai romanzi e ai saggi, le continue apparizioni in tv.
Parini racconta il Vidal narratore, il saggista, il drammaturgo. A volte era taglien- te anche con gli amici, usando un linguaggio volutamente greve e allergico alla correttezza politica («Non sapevo che accettassero anche i terroni», gelò il povero italoamericano Parini che gli aveva appena detto di aver vinto una borsa di studio per Oxford) e ammetteva di essere incapace di tollerare uno sgarbo (vedi le lunghe cause civili contro William Buckley e Truman Capote per futili motivi: «Dopo una certa età i litigi sostituiscono il sesso»).
Almeno una delle sue storiche inimicizie, quella con Norman Mailer, finì con una sorta di prudente, guardinga pace: Mailer ammise di ammirare, di Vidal, la mo- struosa cultura, e Vidal stimava se non il Mailer scrittore il Mailer intellettuale e il suo assoluto rispetto per il ruolo dello scrittore nella società.
Parini cita le battute più caustiche — «Ogni volta che un amico ha successo, qualcosa dentro di me muore», «La presidenza di Ronald Reagan resta un bizzarro episodio nella storia americana», «Sono un rompiscatole che pensa che non esistano problemi che non si possano risolvere: basta che tutti facciano quello che dico io» — ma non chiude gli occhi davanti alle molte contraddizioni: il «Tory populista» che difese sempre i poveri scrivendo negli studi delle sue meravigliose ville a Ravello e Beverly Hills piene di libri antichi e opere d’arte e assoldando a scopi sessuali giovani proletari che li quidava come «merce»; il gay dichiarato che ripeté sempre di essere bisessuale («Se lui è bisessuale io sono Gengis Khan», disse a Parini il compagno di vita di Vidal, Austen); il maschio democratico che negli anni Sessanta alla tv disse che «gli uomini contrari alle istanze delle femministe sono moralmente paragonabili agli schiavisti» ma che da vecchio, a un festival letterario, a una signora di una certa età che lo definiva «uno dei più grandi omosessuali del nostro tempo» rispose: «Portatemi via questa tr...».
Vidal sbagliò sull’Aids, minimizzando la gravità dell’epidemia e negando alla comunità gay l’autorità della sua voce ascoltata nel mondo. Il suo amico-biografo dà vita a un Vidal profondamente umano: il ragazzino che odiava la madre e per scappare da lei si arruolò e andò a combattere i giapponesi invece di iscriversi a Harvard — odiava, di sua madre, l’egoismo e l’al- colismo che la uccise — ereditò da Nina proprio egoismo e alcolismo.
La morte di Howard nel 2003 è l’inizio del tramonto, lungo e umiliante di Vidal («Voglio solo morire»), che Parini racconta con umanità senza omissioni: l’alcolismo fuori controllo, l’incontinenza, le allucinazioni, la perdita della facilità nello scrivere che l’aveva accompagnato fin da bambino (era capace di scrivere trenta pagine in una mattina: romanzi storici di straordinaria complessità come Lincoln e 1876, che gli valse la copertina di Time, furono scritti in meno di un anno). Vidal portato in sedia a rotelle dal suo infermiere al bar del Beverly Hills Hotel dove andava da ragazzo, e dove da vecchio tornava con Howard.
Vidal sul letto di morte nella villa di Beverly Hills, davanti a una grande tv al plasma che trasmette i dvd con le sue apparizioni tv, che muore da imperatore circondato dalle visite degli amici famosi di Hollywood, e chiede a Parini soltanto una cosa: «Raccontami di Howard».