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 2015  novembre 29 Domenica calendario

MARIA JOSE’ DE LANCASTRE: «IL MIO AMORE PER TABUCCHI PROTETTO DAL FANTASMA DI PESSOA»

L’ultimo racconto di Antonio Tabucchi si interruppe nell’estenuazione di una malattia né troppo lunga né breve. Non è strano immaginare che uno scrittore non porti a termine il suo mandato. Ma, a volte, è doloroso pensarlo. Giro per Lisbona da cui manco da parecchi anni. È cambiata in meglio. Decido di chiamare Maria José de Lancastre. Compagna per una vita e moglie di Antonio Tabucchi. Mi piacerebbe incontrarla. È una bellissima giornata di sole e di luce intensa che piove dall’alto coprendo ogni cosa. Al telefono Maria José è perplessa. C’eravamo visti tanti anni prima a Francoforte. Una seconda volta a Sanremo per il premio Biamonti. E poi mai più. Come certe persone che si incrociano avendo lo schermo di un mediatore e che non fanno nessuna fatica a perdersi, così c’eravamo lasciati. La voce, sebbene dubbiosa, è ancora calda. Non sa a chi possa davvero interessare la storia di una donna vissuta tra il Portogallo e l’Italia e che per tutta la vita ha lavorato su Pessoa. Sul suo mondo. Ha aiutato Antonio. Con una concentrazione e una fedeltà degne di ammirazione. Certe donne, mi sembra, vivono nella zona franca dell’anima. In un punto cieco che spesso ignoriamo e che è l’ultimo limite della profondità del cuore.
Anche Lisbona è in fondo un estremo del cuore. Un paese dell’anima che Fernando Pessoa comprese pienamente. Un ventricolo che palpita anche nel luogo dove Maria José vive: «Sono nata in questo quartiere, Sao Mamede, la casa dei miei era più vicina al Ritz. Vi sono rimasta fino a vent’anni. C’è sempre un momento in cui si dice: ora vado via. E certi paesi agevolano la scelta, perché irreali, opprimenti, remoti, chiusi. Così fu il mio Portogallo, la mia Lisbona. Antonio me lo ha fatto riamare».
Del “suo” Portogallo cosa ricorda?
«Beh, innanzitutto il clima oppressivo. Anche se non ero politicamente preparata. C’è un episodio che mi è restato impresso. Potevo avere sei anni. In strada assistetti all’arresto di una zingarella. Sentivo le sue urla. Si divincolava come una bestiolina nella trappola. Aveva rubato non so cosa. Mi sentii a disagio. Mi sarei lanciata contro i poliziotti. La mamma serrò la mia mano. Mi vergognai. Per la prima volta compresi di essere privilegiata, protetta, rassicurata. Mentre un’altra parte del mondo non lo era».
Intuì l’ingiustizia e la durezza del mondo.
«Ne avvertii il peso soffocante».
I suoi intuivano le medesime cose?
«Erano un’altra generazione. Mia madre aveva vissuto fino a 30 anni a Parigi. Amava la vita francese. Mio padre era un alto funzionario del Ministero d’Oltreoceano. Aveva studiato scienze coloniali. E vissuto nel Mozambico per 11 anni. Di quel periodo ricordo un racconto di mio padre ad Antonio: la storia di un attore shakespeariano che da Londra fuggì in Africa, lontano dalla civiltà. Ma non dimenticò l’amore per il teatro ».
E che fece?
«Organizzò in una grande capanna un luogo in cui recitare. C’erano delle tavole. Un leggio. L’attore lesse in inglese King Lear. Interpretò tutte le parti, davanti al giovane funzionario del quale era diventato amico. Quasi tutti i giorni, per un anno intero, il giovane funzionario ascoltò quelle recite, quella voce. Poi richiamato a nuovi incarichi partì per altre destinazioni. Per anni non seppe più nulla di Wilfred Cotton. Scoprirà, solo dopo la sua morte, che era stato un grande e popolare attore in Inghilterra».
Da questa storia, lei ricorda, Tabucchi ricavò un racconto.
«Una storia che si legge tutta di un fiato. Il racconto è come il sonetto, non sopporta interruzioni. Non lo puoi abbandonare come si farebbe con un romanzo».
Come conobbe Tabucchi?
«Dopo il liceo era stato a Parigi per un anno. Fu lì che un giorno acquistò da un bouquiniste le poesie di Álvaro de Campos, un eteronimo di Pessoa. E fu così che decise di imparare la lingua portoghese. A Pisa, dove si era iscritto all’Università, incontrò Luciana Stegagno Picchio, grande esperta di letteratura lusitana, che gli fece avere una borsa di studio. A Lisbona Antonio fu ospitato da Gino Salviotti nella foresteria della “Casa Italia”. Salviotti, che era stato fascista e forse continuava ad esserlo, era anche un uomo intelligente e colto. Prese in simpatia Antonio. Un giorno lo invitò ad andare al mare, dove la nipote trascorreva le vacanze. E c’ero anch’io».
Cosa accadde?
«Vidi questo giovane interessante. Parlammo in francese di Pessoa. Scoprendo una passione comune. Diventammo amici. Tornò in Italia e per un anno ci scrivemmo. Gli feci visita nella primavera del 1967. Antonio mi portò a Vecchiano dai suoi. Erano persone generose e accoglienti. E il giorno di Pasqua ci fu la scintilla».
Tutto questo mi fa venire in mente le lettere che Pessoa scriveva alla fidanzata. Mi sono sempre chiesto se l’amore in lui sia mai stata una priorità.
«Ci sono un paio di lettere che la dicono lunga su questo tema».
Lettere di che anno?
«Una del 1920, l’altra del 1921. Indirizzate a Ofélia Queiroz. Sono lettere che mostrano l’impossibilità di vivere normalmente l’amore».
Perché tanta difficoltà?
«Pessoa è votato alla letteratura. È il solo vincolo che non vuole sciogliere. E lo è in modo tanto esigente da sciogliere tutti gli altri: “Il mio destino”, le scrive, “appartiene a un’altra legge. La mia vita è subordinata a Maestri che non permettono né perdonano”».
Chi erano questi maestri?
«I maestri esoterici che lo introdussero nel mistero della conoscenza, come mostrano alcune sue pagine e poesie, soprattutto degli ultimi anni».
Quando già nel paese è al potere Salazar?
«Sì, ma non c’è nessuna connivenza con quel potere del quale coglie tutta la mediocrità».
Mediocre, certo. Ma assai lungo.
«È vero. Eravamo come dentro una bolla. Isolati da tutto e da tutti. La dittatura per quanto feroce non fu mai violenta e sanguinaria come quelle degli altri totalitarismi. Salazar era un dittatore di sagrestia. Non a caso un uomo molto influente fu Manuel Gonçalves Cerejeira, patriarca di Lisbona. Amico di Salazar, avevano studiato assieme all’università di Coimbra. Imposero l’idea che il popolo doveva vivere in modo frugale e semplice e che ogni forma di progresso rappresentava la corruzione».
E il popolo non reagiva?
«Fu inerme. Nonostante la miseria dei contadini fosse terribile e ancor peggio quella dei braccianti. La letteratura un po’ ha raccontato la vita di queste persone ridotte a bestie. Ma gli scrittori contro il regime avevano vita difficile. La Pide — la polizia segreta portoghese — si rafforzò enormemente dopo l’inizio delle guerre coloniali».
Non era una vistosa contraddizione che un paese così povero detenesse ancora delle grandi colonie?
«Era il fantasma imbarazzante di un’antica grandezza. Con l’aggravante che la guerra coloniale — nella quale furono coinvolte centinaia di migliaia di giovani — dissanguò il Portogallo. Fu un conflitto che si protrasse per oltre un decennio, a partire dal 1961, con l’Angola, la Guinea Bissau e il Mozambico. Tutte le risorse finirono in questa guerra assurda».
Poteva finire prima?
«Poteva, ma per insipienza e calcoli sbagliati non accadde. Quando Salazar nel 1968, a seguito di una caduta dalla sedia, ebbe un ictus il potere passò nelle mani di Marcelo Caetano e molti pensarono che le cose sarebbero migliorate. Così non fu. Caetano era un pavido. Incapace di rompere col passato».
In che mondo vivevate?
«Nell’isolamento più puro. Dove era vietato che due fidanzati si potessero baciare pubblicamente ed era considerato provocatorio perfino che un uomo girasse con dei sandali ai piedi».
In tutto questo c’era la sua storia con Antonio.
«Ci sposammo nel 1970, l’anno in cui Salazar morì. Con Antonio frequentavamo la dissidenza portoghese, i poeti e gli scrittori che erano stati in galera o al confino come Cardoso Pirez o Mario Cesariny, un omosessuale dichiarato, geniale e libertario. Più volte incarcerato. Antonio tradusse alcune sue bellissime poesie. La nostra storia si sviluppò in un mondo pazzesco, pieno di divieti e di opprimenti calvari. Un mondo retto principalmente dal collante religioso».
Dove però la via di fuga era rappresentata da Pessoa.
«Per noi — intendo per me e Antonio — è stata un’avventura straordinaria».
Sotto lo stesso segno?
«Diversamente da Antonio, non sono una creatrice e dunque l’aspetto che meno mi toccava era quello di trasformare il genio di Pessoa in un compito narrativo. Non ero nata per quello. Mentre Antonio sentiva questa spinta ulteriore: il bisogno di entrare nel mistero e nell’indicibile».
Pessoa era la sua ossessione?
«Non so se lo sia stata. Certo ne ha avvertito tutto il peso e la responsabilità letteraria. Ma non nel senso flaubertiano “Pessoa sono io”. No. È stato costretto a sentire quel peso, ad avvertirne tutta l’importanza e l’infinita presenza di sfumature. Ma ha anche cercato di liberarsene. Requiem rappresenta una sorta di commiato da Pessoa, dal suo fantasma. Non a caso, pochi anni dopo, scrive “Sostiene Pereira” che è tutt’altro nell’ambiente del salazarismo degli anni Trenta dove il romanzo è ambientato».
Come visse l’enorme successo di questo romanzo?
«Era un persona timida, ma nella sostanza forte. Il successo ottenuto con Sostiene Pereira stravolse un po’ le nostre vite. Fu faticoso, ma anche piacevole. Ricordo che Marcello Mastroianni si innamorò al punto del romanzo che telefonò ad Antonio dicendogli “Pereira sono io”. Era un uomo delizioso, spontaneo, semplice. Dopo il film ci frequentammo, soprattutto a Parigi. Per il resto la notorietà che il romanzo trasmise ci limitò un po’ nei movimenti. Ma fornì ad Antonio una nuova consapevolezza».
Quale?
«Capì che aveva un’arma da usare politicamente. Ha sempre avuto il senso dell’ingiustizia e il bisogno di dare voce ai più deboli. Credo sia stata questa la coerenza, cercata e trovata, tra la letteratura e la vita. Che culminò in un libretto sugli zingari, frutto dell’esperienza nel campo nomadi alla periferia Brozzi di Firenze ».
Come nacque questo interesse?
«Da un bambino che vendeva rose in un ristorante di Firenze. Un bambino speciale che ci disse di andare a vedere dove viveva. Conoscemmo la famiglia, gli amici. Tutti costoro vivevano in condizioni spaventose ».
Antonio è scomparso da tre anni e mezzo. Come furono gli ultimi mesi della sua vita?
«Li vivemmo con molta dignità e pudore. Abbiamo avuto la fortuna di stare in questa casa. Lui seppe a novembre della malattia. Fu tentato qualcosa ma senza molta fiducia. Nonostante fosse inverno, la mattina aprivo le finestre e vedevamo il cielo azzurro e la luce bellissima di Lisbona. Era un conforto. Mia sorella venne a stare con noi. Non dicemmo a nessuno della malattia. Ma la notizia si sparse e giunsero amici da tutto il mondo».
Era una persona cui si voleva bene.
«Aveva avuto i suoi dissidi, le sue polemiche. Le sue amarezze. Non era un uomo semplice. Però c’è stata nella sua vita una grande dolcezza e coerenza. Nei primi tempi della malattia lavorammo di nuovo a una traduzione di Pessoa. Non c’è opera più importante e umile del tradurre, diceva. Poi, improvvisamente, tre giorni prima di morire, dettò a me e a nostro figlio Michele un racconto. Michele rincasò alle sette del mattino. Stravolto. Antonio lo aveva coinvolto fino alle cinque».
Il racconto è stato poi pubblicato?
«No. Glielo posso far vedere. Eccolo. Poche pagine che si interrompono bruscamente».
Di cosa parla?
«Della morte di un ragazzo, soldato nella guerra coloniale. La notizia arriva al suo villaggio. E la vecchia nonna lancia un urlo terrificante. Il racconto è anche un grande omaggio alla lingua portoghese. Penso che l’amore per la lingua e per la letteratura fu presente in lui fino alla fine. Ora c’è il suo archivio, in quattro lingue, che ho donato alla Bibliothèque Nationale de France. Mi pare che Antonio non abbia subito l’oblio di molti scrittori che dopo morti spariscono. È ancora qui. Morì il 25 marzo del 2012. A giugno ci fu un grande omaggio a Parigi, con molti amici che lo ricordarono. E verso la fine della cerimonia, dal fondo, sentimmo il suono di una fisarmonica e violini. Erano gli zingari del circo Romanés che gli rendevano l’ultimo omaggio. Ricordo la voce struggente della moglie di Romanés. Questo ricordo. E in quell’attimo l’infelicità abbandonò il mio cuore».