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 2015  novembre 30 Lunedì calendario

APPUNTI PER OGGI E PER GAZZETTA - LA CONFERENZA SUL CLIMA


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IN UNA CAPITALE francese blindata prende il via oggi la Cop21, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite. Per i 150 leader mondiali riuniti a Parigi si tratta dell’ultima chiamata per salvare il pianeta. Sarà un vertice fuori misura per una sfida colossale il cui primo obiettivo è siglare un accordo storico che limiti il riscaldamento climatico per evitare una catastrofe ambientale irreversibile. La vigilia della manifestazione è stata segnata da scontri tra polizia e manifestanti che hanno portato al fermo di 208 persone.

"Abbiamo un obbligo di successo" e "la posta in gioco è troppo importante per potersi accontentare di un accordo al ribasso", ha detto il ministro degli Esteri francese e presidente della conferenza, Laurent Fabius, in apertura dei lavori. "L’11 dicembre", il giorno in cui si concluderà la Cop21, "il mondo si aspetta da noi quattro parole: la missione è compiuta". "L’accordo" per limitare il surriscaldamento globale "non è scontato ma è alla nostra portata", ha sottolineato, promettendo che la presidenza francese "veglierà affinché tutti i punti di vista siano tenuti in considerazione".
Cop21, Hollande: "La posta in gioco non è mai stata così alta"
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In avvio di conferenza il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha chiesto di osservare un momento di silenzio in memoria delle vittime degli attentati di Parigi. Poi la parola è passata al presidente francese Francois Hollande che, dopo aver ringraziato "per tutti i segni di supporto, tutti i messaggi, tutti i gesti di amicizia" giunti dopo gli attentati di Parigi, ha definito la Cop21 come "un’immensa speranza che non abbiamo il diritto di deludere. È una sfida che non dobbiamo perdere perché si tratta di un miliardo di essere umani che ci guarda". Il surriscaldamento del clima, ha proseguito il titolare dell’Eliseo, "crea conflitti, crea più migrazioni delle guerre. Dobbiamo intervenire in nome della giustizia climatica. Quello che è in gioco in questa conferenza è la pace perché rischiamo una guerra per l’accesso all’acqua. Il mondo non ha mai affrontato una sfida così grande come quella sul futuro del pianeta, della vita. Qui non bastano le dichiarazioni di intenti, noi a Parigi siamo a un punto di rottura e di partenza per una trasformazione mondiale", ha proseguito Hollande. "Abbiamo l’opportunità di creare uno sviluppo con le energie rinnovabili, il trasporto pulito e la biodiversità. Dobbiamo costruire un modello basato sulla cooperazione, in cui sia più conveniente preservare che distruggere".

Dopo il presidente francese ha preso nuovamente la parola il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che ha definito la conferenza sul clima "un’occasione politica unica che potrebbe non tornare". E rivolgendosi alla platea dei capi di stato ha avvertito: "Il futuro del mondo è nelle vostre mani, non sono consentite indecisioni. Voi avete il potere di assicurare il benessere di questa e della prossima generazione", trovando un accordo per arginare entro i due gradi l’aumento delle temperature del pianeta causato dalle emissioni inquinanti. Per farlo i leader dovranno cercare "il compromesso, il consenso e, se è necessario, anche la flessibilità".
Cop21, Obama: "Possiamo cambiare il futuro qui, e adesso"
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Tra i primi leader a parlare, il presidente Usa Barack Obama: "Sono venuto di persona come rappresentante della prima economia mondiale e del secondo inquinatore per dire che noi, Stati Uniti, non solo riconosciamo il nostro ruolo nell’aver creato il problema ma che ci assumiamo anche la responsabilità di fare qualcosa in proposito. Possiamo cambiare il futuro qui e adesso". E ha aggiunto: "Bisogna "agire ora, mettendo da parte gli interessi di breve termine".

Un impegno conreto di fronte alla platea della Cop21 lo ha già preso Angela Merkel: "La Germania entro 2020 raddoppierà suoi finanziamenti pubblici per le energie rinnovabili". Mentre Vladimir Putin, arrivato in ritardo alla conferenza, ha sottolineato nel suo discorso come l’andamento economico della Russia è la prova che "si può prestare attenzione alla crescita economica senza per questo trascurare l’ambiente. Il nostro paese è stato fra i primi al mondo a ridurre i consumi energetici dell’economia negli ultimi anni e a ridurre in modo considerevole le emissioni di gas a effetto serra, tanto da frenare di un anno il riscaldamento climatico, ma al tempo stesso ha raddoppiato il suo Pil". L’accordo di Parigi, ha detto Putin, deve essere "efficace, equilibrato e globale" e, come una sorta di "prolungamento ideale del protocollo di Kyoto" del 1997, anche "vincolante". Il presidente russo ha poi avuto un incontro a porte chiuse con il presidente Usa Barack Obama. Durante il colloquio durato trenta minuti i due leader hanno discusso di Siria e Ucraina. Il presidente americano, afferma la Casa Bianca, ha detto al presidente russo che Bashar al Assad deve lasciare il potere.

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Nella mattinata sul sito di le Bourget, a nord di Parigi, trasformato in una sorta di fortezza dopo gli attentati del 13 novembre, Hollande e Ban Ki-moon hanno accolto Barack Obama, Xi Jinping, Narendra Modi e decine di altri capi di stato. Per l’Italia è arrivato il presidente del Consiglio Matteo Renzi che, dopo la stretta di mano con il segretario dell’Onu ha postato su Facebook la foto dell’incontro e ha commentato: "L’Italia vuole stare tra i protagonisti della lotta all’egoismo, dalla parte di chi sceglie valori non negoziabili come la difesa della nostra madre terra. Quattro miliardi di dollari da qui al 2020, lo sforzo delle istituzioni e delle aziende a cominciare da Eni e Enel, un grande investimento educativo per le nuove generazioni. Siamo tra i paesi leader nella ricerca con scienziati di altissimo livello. Siamo tra i protagonisti della Green economy. Abbiamo ridotto le emissioni del 23% negli ultimi 20 anni. Sull’efficienza energetica, con i contatori intelligenti, puntiamo alla leadership mondiale. Dunque, noi facciamo la nostra parte. Ma allo stesso tempo siamo consapevoli che abbiamo bisogno di un accordo internazionale, altrimenti tutto sarà inutile. Siamo a Parigi per trovare un compromesso alto. Il mondo di oggi e di domani guarda a Parigi. L’Italia non si tira indietro". Presente anche il primo ministro di Israele, Benyamin Netanyahu, giunto a bordo di un’auto priva di segni distintivi che indicassero il Paese di provenienza (bandiera e nome sul parabrezza, che erano invece su tutte le altre auto ufficiali) e attorniato da una scorta di diverse altre vetture.
Cop 21, Parigi: la foto di gruppo dei capi di Stato e governo
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L’accordo che la comunità internazionale è chiamata a definire punta a limitare il riscaldamento globale a 2 gradi rispetto ai livelli dell’era pre-industriale. La comunità scientifica è ormai unanime sul fatto che oltre questo limite la terra andrebbe incontro a un caos climatico dai risvolti catastrofici. In vista della conferenza 183 paesi su 195 hanno presentato degli impegni per ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Questi impegni, che già di per sé rappresentano un significativo passo in avanti, porterebbero comunque a un riscaldamento prossimo ai 3 gradi, quindi insufficienti. Il summit punta quindi a delineare per i prossimi decenni dei meccanismi di revisione al rialzo dell’accordo.

PEZZI DI OGGI
CORRIERE DELLA SERA
PAOLO GIORDANO
Che ci piaccia pensarlo o no, il mondo in cui viviamo è artificiale. Tutto quanto.
Non esiste porzione di superficie del nostro Pianeta, comprese le distese oceaniche, che non sia stata modificata dall’intervento diretto o indiretto dell’uomo. La deforestazione massiccia, lo sfruttamento di risorse superiore alla possibilità di rigenerazione, le svariate forme di inquinamento, il trasporto di specie vegetali e animali da un continente all’altro: tutto ciò ha ormai condizionato anche le aree più inospitali e difficilmente raggiungibili della Terra. Non è detto che questo debba farci indignare per forza, che si tratti di un male di per sé. Può darsi che il Pianeta così come ce lo siamo sistemato sia migliore per noi di quanto non fosse all’inizio (basti pensare a quanto drasticamente abbiamo ridotto i nostri predatori). Ma, in questo ambiente modificato, concordano molti scienziati (non tutti), esiste almeno una minaccia che ci riguarda direttamente e subito: il cambiamento climatico.
Di tutti i campi della scienza — a eccezione forse di quelli che si addentrano nella mente umana —, la climatologia è il più familiare con i concetti di caos e complessità. Si può dire che caos e complessità ne siano addirittura costitutivi. La capacità previsionale della climatologia si basa quasi sempre su estrapolazioni ardite e su grappoli di equazioni differenziali concatenate le une alle altre, che impazziscono non appena uno prova a portarle troppo avanti nel tempo e nello spazio. La complessità rende la climatologia soggetta più di altri ambiti all’interpretazione e alla manipolazione. Per molti anni, anche parecchio tempo dopo la ratifica del protocollo di Kyoto, l’idea stessa del cambiamento climatico è stata messa in discussione. La Terra è sottoposta a cambiamenti propri e ciò ha fornito un alibi tenace agli scettici e agli spavaldi. In molti si sono asserragliati dietro il dubbio che l’aumento medio della temperatura terrestre fosse ascrivibile a fenomeni diversi dall’industrializzazione. O che fosse falso tout court. Oggi esiste un largo consenso almeno su una serie di punti. Arrivarci è stato lento e faticoso, ma è su questi pochi punti che la ventunesima Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (in acronimi, più semplicemente, la Cop21 dell’Unfccc) prende oggi il via, ai margini di una Parigi stordita e sofferente, non lontano dai luoghi dove Georges Cuvier ipotizzò per la prima volta che le specie potessero estinguersi e il presente della natura non fosse un eterno immutabile.
I dati abbastanza condivisi, innanzitutto. La temperatura media sulla Terra si è alzata di 0,85 gradi Celsius dall’epoca preindustriale a oggi. L’aumento sarebbe legato all’immissione massiccia di gas serra, principalmente anidride carbonica, nell’atmosfera. I gas serra sono il prodotto indesiderato di molte attività umane, ma soprattutto dell’impiego di combustibili fossili, carbone in testa, poi petrolio e gas naturale. Il protocollo di Kyoto (1997) ha posto un limite alle emissioni di gas serra di alcuni Paesi ma, procedendo di questo passo senza limitazioni più stringenti e un’adesione più ampia, la temperatura media potrebbe alzarsi anche di quattro o cinque gradi complessivi prima dello scoccare del 2100 (Andrew Glikson chiama il nostro secolo «orizzonte degli eventi climatici», con un riferimento profetico e terribile all’orizzonte dei buchi neri, oltre il quale tutta la materia precipita).
Quando si considerano le possibili ricadute di questa variazione di temperatura media — piccola in apparenza, ma che non lo è affatto se si tiene in considerazione la vastità del mondo —, la fantasia catastrofica è quasi libera di sbizzarrirsi. Esistono ripercussioni su tutte le scale e la gran parte di esse è già in atto, ampiamente documentata. Venezia e il Bangladesh e New Orleans che sprofondano nel mare, intervalli di siccità senza precedenti, incendi inarrestabili e nubifragi altrettanto spaventosi, i coralli estinti per l’acidificazione delle acque, malattie tropicali come la dengue che si diffondono dove non avremmo mai immaginato, orsi polari costretti al cannibalismo, e così via. Di recente, Samuel Myers ha individuato «la più importante minaccia per la salute dovuta al cambiamento climatico» nella diminuzione dei valori nutrizionali di certi alimenti come il riso e il grano. All’artiglio delle conseguenze nefaste si aggiunge quindi anche la denutrizione ad ampio raggio, ma di certo molte altre dita pericolose attendono ancora di mostrarsi.
Per noi che non siamo esperti e non leggiamo le pubblicazioni scientifiche, è difficile scegliere a chi e che cosa credere. Siamo manipolabili ancora più facilmente dei dati. Le opinioni opposte sul clima si fronteggiano con un’aggressività che lascia pochi margini di mediazione e le teorie complottiste si sprecano. Gli effetti estremi del cambiamento ci vengono quasi sempre presentati dagli scenari di certi colossal apocalittici: The Day After Tomorrow (la Corrente del Golfo s’interrompe provocando una nuova glaciazione), Wall-E (la terra è coperta di immondizia e nessuna specie vegetale è sopravvissuta), Interstellar (si va a caccia di altri pianeti perché il nostro è spacciato), Mad Max (il mondo ridotto a uno sconfinato deserto), Waterworld (il mondo ridotto a uno sconfinato oceano), solo per citarne alcuni. Tali film hanno il pregio di illustrare con un linguaggio immediato certe eventualità — ricordo che il mio professore di meteorologia ci raccomandò di guardare T he Day After Tomorrow poi, con nostro sommo sconcerto, c’intrattenne per quasi un’ora su quanto fosse plausibile — eppure, proprio in quanto film, soffrono del limite intrinseco di non essere presi troppo sul serio. Mentre ci informano, fungono anche da catarsi preventiva. Inoltre, sanno mettere bene in risalto la metà distruttiva dell’homo sapiens, quella infestante e cieca, mentre riducono l’altra metà — ovvero la capacità egregia di cooperare in caso di bisogno — ad atti eroici per lo più individuali.
Ecco, si può dire che il tentativo dell’Unfccc, e in particolare della Cop21 di Parigi, sia quello di potenziare al massimo la nostra capacità cooperativa, dopo che per decenni abbiamo procurato disastri alla troposfera, vuoi per ignoranza, vuoi per interesse o per lassismo. Personalmente, ciò che mi ha persuaso dell’opportunità dell’azione è il non considerare più l’ambientalismo una questione di nostalgia di chissà quale realtà bucolica anteriore, bensì un principio di cautela, di auto-conservazione dell’uomo. Alla sua base non c’è generosità, ma sano egoismo. Già l’uso dell’espressione «cambiamento climatico», che nel tempo ha sostituito un’altra più lapidaria e non del tutto corretta, «riscaldamento globale», è sintomatico dell’assenza di ideologia. Gli altri termini chiave adottati dagli scienziati e dall’Unfccc sono «mitigazione» e «adattamento». Come a dire: ciò che ci resta è la possibilità di mitigare l’immissione di gas serra nell’atmosfera e al contempo di adattarci al loro impatto sempre più devastante. Più di questo non possiamo ottenere. Si tratta di principi che contengono in sé l’accettazione di un fallimento parziale e pertanto appaiono più sinceri e urgenti che mai.
In conclusione del suo libro La sesta estinzione , premio Pulitzer 2015, Elizabeth Kolbert si domanda che cosa accadrebbe all’uomo se fosse vittima di un’estinzione di massa prodotta da sé medesimo. Esattamente il worst-case scenario legato al cambiamento climatico e a un eventuale fallimento dei negoziati di Parigi. Due sarebbero le possibilità, secondo Kolbert: l’uomo verrebbe effettivamente spazzato via, come è successo in passato (e succede tuttora) a migliaia di altre specie animali, dai dinosauri, ai megalodonti, alle rane dorate di Panama; oppure, secondo una visione positivista, «l’ingenuità umana supererà ogni disastro che l’ingenuità umana ha innescato». Lanceremo in orbita miliardi di piccoli dischi per farci ombra dalla radiazione solare o troveremo un nuovo Pianeta dove abitare dentro grandi hangar pressurizzati, o magari, più verosimilmente, ci occuperemo con serietà della riforestazione per aumentare lo stoccaggio di anidride carbonica. Entrambe le visioni illustrate da Kolbert sono sostenute da scienziati rispettabili, ma sono anche altrettanto arbitrarie, perché richiedono una misura di precognizione che nessuna scienza è in grado di fornire. La domanda più ragionevole, forse, è un’altra: possiamo ancora permetterci di giocare d’azzardo? Se la storia ci ha messi nella condizione paradossale di doverci ridimensionare al fine di garantire la nostra stessa sopravvivenza, possiamo esimerci dal farlo?
I capi di Stato e le delegazioni hanno dodici giorni per agire, a partire da oggi. Il traguardo è tanto semplice da esporre quanto difficile da raggiungere, per via delle connessioni intricatissime fra economia e scienza e politica: fare in modo, attraverso l’impegno dei singoli Stati, che la temperatura media globale non aumenti di più di due gradi centigradi a causa nostra. Mentre le trattative sono in corso, ognuno di noi ha dodici giorni per dimostrare, secondo le proprie possibilità, che il tema gli sta a cuore. Ciò che forse per scaramanzia non viene detto troppo in giro è che, se fallisce il negoziato di Parigi, creare le premesse per una nuova intesa risulterà assai più arduo. E quando avverrà, con l’uomo ormai messo alle strette, secondo alcuni sarà comunque troppo tardi. In questo senso, gli attacchi terroristici del 13 novembre, che hanno certo tolto slancio alla Cop21, potrebbero avere una coda remota di morte e distruzione impensabile anche per i loro ideatori. Sta a noi evitare che accada. In dodici giorni.

LA REPUBBLICA
FEDERICO RAMPINI

NAZIONALE - 30 novembre 2015
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MONDO
OBAMA, XI E MODI: LE SORTI DEL PIANETA NELLE MANI DEI GRANDI INQUINATORI
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI
OCCHIO a quei tre. Oggi il primo giorno del vertice sul clima si gioca tra Stati Uniti, Cina, India. Due vertici bilaterali, tra Barack Obama e Xi Jinping, poi tra Obama e Narendra Modi, racchiudono il nucleo della sfida. Sono il nuovo club dei Grandi Inquinatori del pianeta. Quel che si diranno è essenziale. Il summit ha rinunciato in anticipo alla strategia – perdente – di Kyoto e Copenaghen, quella che inseguiva impegni vincolanti giuridicamente, tetti alle emissioni di CO2 imposti dalla comunità internazionale ai singoli paesi. Quell’opzione si è dimostrata irraggiungibile. Proprio per questo diventa essenziale la volontà politica, l’approccio strategico che le singole superpotenze decidono di adottare.
Obama-Xi-Modi: il futuro della specie umana, dell’abitabilità del pianeta per noi, è nelle loro mani. La Cina è la prima generatrice di emissioni carboniche; superò gli Stati Uniti nella grande recessione occidentale nel 2008. L’India rincorre la Cina, quest’anno la supera in velocità di crescita del Pil, i consumi energetici ne sono il riflesso. L’India è già numero tre se l’Unione europea non si considera come un’entità singola. Gli americani restano però i massimi inquinatori su base individuale. L’americano medio produce il triplo di gas carbonici di un cinese e il decuplo di un indiano. L’anacronismo è evidente. L’insostenibilità politica anche. La sfida riguarda il pianeta, il genere umano, gli oceani e i ghiacciai, l’atmosfera e le temperature; cose che non conoscono confini nazionali. Ma continuiamo a misurare le emissioni di CO2 su base nazionale. Nascono da qui i paragoni inaccettabili: 315 milioni di americani si confrontano con 2,5 miliardi tra cinesi e indiani.
In queste misurazioni l’Europa finisce ai margini. Il Vecchio continente produce “solo” il 9% di tutte le emissioni di CO2. Può nascerne un senso di impotenza: per quanto facciano gli europei, pesano poco. Ma anche qui le illusioni ottiche distorcono la percezione. Quel 9% di emissioni carboniche è il frutto della “decrescita” europea, così come il sorpasso Cina-Usa avvenne quando l’economia americana si fermò. Se l’Europa dovesse ritrovare lo sviluppo – cosa che si augurano i suoi giovani disoccupati – anche le sue emissioni torneranno a salire. L’altra illusione ottica viene dalla deindustrializzazione. L’Europa ha smesso di ospitare molte produzioni manifatturiere ad alta intensità di consumo energetico. Ma ogni volta che un consumatore europeo compra un prodotto “made in China” (o in Corea, Bangladesh, Vietnam) contribuisce alle emissioni carboniche che l’Occidente ricco ha delegato alle economie emergenti.
La triangolazione Obama-Xi-Modi riassume i problemi reali, offre uno spaccato del mondo com’è davvero. Il premier indiano Modi può irritare con il suo nazionalismo rivendicativo, che ne ha fatto il leader del Sud del pianeta. Può disturbare un atteggiamento che trasforma la sfida ambientale in una partita contabile: dimmi quanto mi paghi, e ti dirò quanto sono disposto a fare. È il nodo dei trasferimenti Nord-Sud, i 100 miliardi di dollari promessi alle nazioni emergenti per finanziare la loro riconversione a uno sviluppo sostenibile; fondi insufficienti; e comunque stanziati solo in piccola parte. Questa partita Nord-Sud è circondata di sospetti reciproci. Quanta parte di quei fondi serviranno a esportare tecnologie “made in Usa”, “made in China” o “made in Germany”? Quanta parte finirà assorbita dalla corruzione di classi dirigenti predatrici?
C’è però dietro il dibattito Nord-Sud una realtà innegabile. Basta ricordare un esercizio che i lettori di
Repubblica conoscono, perché più volte è stato fatto su queste colonne: le fotografie del pianeta scattate dai satelliti di notte. L’intensità delle luci artificiali riflette la distribuzione della ricchezza. Chi sta meglio illumina meglio. Vaste zone della terra sono sprofondate in un’oscurità quasi totale: gran parte dell’Africa, ed anche una porzione consistente del subcontinente indiano. Quelle immagini vanno affiancate al discorso rivendicativo di Modi. È un diritto umano basilare, avere una lampadina accesa la sera in casa per fare i compiti e ripassare la lezione. Il problema è quando la lampadina in casa serve per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti. L’energia meno costosa per loro è il carbone. La peggiore di tutte.
La Cina è già un passo più in avanti. La lampadina ce l’hanno quasi tutti, anche il frigo, la lavatrice e l’auto. Il prezzo da pagare è un’aria così irrespirabile, che ormai l’élite cinese compra seconde case in California non solo come status symbol ma come una polizza assicurativa sulla propria salute. Perciò Xi ha deciso che la riconversione dell’economia cinese è una priorità, non una concessione all’Occidente. Lui può operare queste svolte senza i vincoli del consenso che ha Obama. In nessun altro paese al mondo è attiva una furiosa campagna negazionista sul cambiamento climatico, come quella condotta dal partito repubblicano. I suoi finanziatori della lobby fossile non arretrano davanti a nulla. La multinazionale petrolifera Exxon falsificò per decenni le conclusioni dei suoi stessi scienziati, che coincidevano con quelle della comunità scientifica mondiale. Esiste un altro capitalismo americano, guidato da Bill Gates, che mette in campo vaste risorse per finanziare l’innovazione sostenibile. È un passaggio importante: uno dei problemi delle energie rinnovabili è che le sovvenzioni pubbliche, pur sacrosante, stanno rallentando il ritmo del progresso tecnologico necessario per renderle più competitive, e risolvere problemi come l’immagazzinamento dell’energia pulita. L’Onu definisce l’appuntamento di oggi a Parigi come «la nostra ultima speranza». Di certo è l’occasione per i leader mondiali di dimostrare che la sfida ci riguarda tutti, e chi pensa di lasciare ad altri le scelte difficili non fa un investimento lungimirante neppure nell’ottica del suo interesse nazionale.
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MAURIZIO RICCI

NAZIONALE - 30 novembre 2015
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MONDO
Lo scenario.
I big mondiali si sono già impegnati sul surriscaldamento Ma mancano una tabella di marcia, un vincolo sui combustibili fossili e regole sui 100 miliardi promessi a chi rischia di più per i cambiamenti climatici
Al via due settimane di negoziati tra sostegno ai paesi poveri e tagli alla produzione di CO
MAURIZIO RICCI
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IL TRATTATO di Kyoto, pietra miliare nella lotta all’effetto serra, fu firmato da 35 paesi, che rappresentavano il 12 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica. L’accordo contro il riscaldamento globale che uscirà dalle due settimane di negoziati che si aprono oggi a Parigi, sarà sottoscritto da almeno 167 paesi, responsabili del 94 per cento delle emissioni. È la prova del lungo cammino che ha fatto il mondo, dal 1997 ad oggi, nel riconoscere i pericoli del cambiamento climatico. In testa a quei 167 paesi ci sono Cina e Stati Uniti, i due maggiori inquinatori mondiali, nel 2009 gli artefici del flop di Copenaghen, dove abortì il tentativo di dare un seguito al protocollo di Kyoto, oggi i due principali motori di un accordo. In questo senso, Parigi è un successo annunciato: un altro flop, del tutto inaspettato, avrebbe conseguenze devastanti sugli sforzi per tenere sotto controllo il riscaldamento del pianeta. Ma, anche nell’ipotesi migliore, è un successo con troppi buchi, secondo la stragrande maggioranza di esperti e scienziati. Ecco una guida per prevedere e valutare cosa succederà certamente in queste due settimane, cosa potrebbe succedere, cosa non succederà di sicuro, su cosa c’è ancora da litigare, cosa aspettarsi dopo. Soprattutto il dopo: i rischi più gravi, per l’accordo, si materializzeranno quando tutti saranno partiti da Parigi e tornati a casa.
IL BUONO
L’ottimismo sul negoziato si spiega subito. La cosa più difficile — tagliare le emissioni — è già stata decisa, ogni governo per suo conto. Dunque, Parigi deve solo ratificare gli impegni al contenimento dell’anidride carbonica che variano, come entità e come scadenza (al 2025 o al 2030), ma sono quasi tutti concreti e verificabili. Qualche paese (l’India, l’Arabia saudita) si è lasciata aperta qualche scappatoia. Ma se il consenso internazionale resta compatto come oggi, sarà difficile ad un singolo paese andare con decisione controcorrente. La conversione della Cina alla lotta all’effetto serra mostra, del resto, che la realtà spinge in un’unica direzione. I malumori restano e riesploderanno durante i negoziati. Ma, questa volta, al contrario che a Copenaghen, sulla barca degli impegni a contenere le emissioni ci sono tutti insieme, ricchi e poveri. Con la promessa che non finisce qui e che ci si rivedrà, per valutare la situazione, fra qualche anno. E con l’obiettivo dichiarato di arrivare a emissioni zero, almeno nel 2100 (o prima, questo è uno degli spazi di trattativa ancora aperti).
IL BRUTTO
Il problema, subito indicato dagli scienziati, è che non basta. Gli impegni assunti in vista di Parigi, anche se venissero rispettati alla lettera, sono insufficienti e arrivano troppo tardi. Tutti sono d’accordo a contenere entro 2 gradi il riscaldamento del pianeta al 2100, ovvero un grado in più di quanto già si sia verificato rispetto all’era preindustriale: oltre, dicono le simulazioni dei modelli climatici, arrivano le catastrofi climatiche, dalla siccità alle inondazioni agli uragani. Ma gli impegni presi in vista di Parigi assicurano solo un riscaldamento entro 2,7 gradi, al di là della soglia di sicurezza. E, attenzione, 2,7 gradi se il taglio delle emissioni continuerà, con la stessa intensità, anche dopo il 2025 o il 2030, quando scadono gli impegni assunti in questi mesi. Se si tornasse, invece, al “business as usual”, lasciando che le emissioni riprendano il loro corso, il riscaldamento al 2100 arriverebbe a 3,6 gradi, in zona da allarme rosso. Ecco perché soprattutto gli europei insistevano perché a Parigi si fissasse già una tabella di marcia, che prevedesse, entro cinque anni, un nuovo giro di vite alle emissioni. Ma la tabella di marcia non ci sarà. La Cina, d’accordo con India e Arabia saudita, si è dichiarata d’accordo solo per una generica promessa di rivedersi, senza impegni precostituiti a nuovi interventi. I nodi politici più intricati dei negoziati saranno, anzitutto, la data entro cui arrivare a emissioni zero: 2100 o prima? Cruciale, anche se solo in termini di principi, il ruolo che il documento finale assegnerà ai combustibili fossili, a cui risalgono poco meno dei due terzi delle emissioni e che, secondo gli esperti, dovrebbero restare in massa sottoterra per evitare di sfondare il tetto dei due gradi. L’altro capitolo ancora aperto è come finanziare la promessa di 100 miliardi di dollari l’anno che, dal 2020, i paesi ricchi dovrebbero girare ai paesi più poveri per aiutarli a fronteggiare l’impatto già avvertibile del cambiamento climatico.
I CATTIVI
Il fulcro del riassestamento del mondo in chiave anti-effetto ser- ra è, oggi più che mai, Obama. E, in questo senso, l’incognita dei negoziati che si aprono oggi non è a Parigi, ma a Washington. I repubblicani che controllano il Congresso si stanno già adoperando per sabotare le misure varate dalla Casa Bianca nel suo programma di taglio delle emissioni, per segnalare al resto del mondo che gli impegni che Obama assume e assumerà non sono credibili. E, se gli americani si sfilassero, niente di quello che sarà deciso e ratificato in queste due settimane a Parigi resterà in piedi, compresi gran parte degli impegni di contenimento dell’effetto serra presi da altri paesi, Cina per prima. L’insidia è, peraltro, a più lunga scadenza. Quasi tutti i candidati repubblicani alla presidenza Usa sono apertamente scettici sul clima e la vittoria di uno di loro alle elezioni del prossimo anno sarebbe un grave colpo per qualsiasi accordo esca da Parigi. Su questo scoglio politico è già caduto uno degli strumenti più efficaci che la conferenza avrebbe potuto varare, ma che non sarà neanche discusso. Si tratta della creazione di un mercato globale delle emissioni, con l’attribuzione di diritti prefissati a sputare CO2 nell’atmosfera, sul modello di quanto avviene già in Europa e presto avverrà in Cina. Uno strumento imperfetto, ma che avrebbe consentito di tenere sotto controllo il totale delle emissioni e di guidarne la riduzione.
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NEL MONDO
Un uomo cammina a Place de la République, a Parigi, tra centinaia di paia di scarpe, simbolo della marcia vietata agli ambientalisti per lo stato di emergenza dopo gli attacchi; due manifestazioni ambientaliste, la prima a Roma e la seconda a Tokyo

ANTONIO CIANCIULLO

NAZIONALE - 30 novembre 2015
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MONDO
Achim Steiner.
Il direttore dell’Agenzia Onu per l’ambiente: “I Paesi possono attivare un meccanismo di controllo per arrivare a uno scenario carbon neutral. Il pianeta si può salvare”
“Svolta possibile ecco il piano per emissioni zero a partire dal 2050”
ANTONIO CIANCIULLO ACHIM STEINER
PARIGI.
«Questa conferenza era partita come una grande sfida e oggi la posta in gioco è ancora più alta. Dopo gli attacchi terroristici del 13 novembre, è ancora più urgente dare sicurezza in due direzioni: garantire la stabilità del clima e dimostrare che attorno al buon governo delle risorse naturali si può trovare un accordo tra 7 miliardi di persone. Aver mantenuto l’impegno al negoziato di Parigi è stato un primo segnale forte». Achim Steiner, direttore dell’Unep, il programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, guarda con fiducia al lavoro in cui sono impegnati i delegati arrivati al summit che deciderà il futuro climatico del pianeta.
Secondo i climatologi bisognerebbe essere più rapidi: la concentrazione di CO2 in atmosfera continua ad aumentare mentre dal 1992, cioè dalla firma della convenzione per la difesa dell’atmosfera, a oggi non è stato ancora trovato un accordo che impegni tutti.
«Sì, abbiamo accumulato un ritardo grave, ma è anche vero che negli ultimi tempi qualcosa è cambiato. Mai nella storia di questa lunga trattativa per la difesa del cima era successo che tanti paesi scendessero direttamente in campo prendendo impegni concreti per ridurre i gas serra. Oggi 181 paesi, responsabili di oltre il 90% delle emissioni, hanno messo nero su bianco una lista di obiettivi per la protezione dell’atmosfera. E’ un salto di disponibilità che fino a pochi anni fa sembrava impossibile ».
Un salto insufficiente. Mettendo assieme tutti i tagli previsti, e supponendo che diventino effettivamente operativi, si arriverebbe a metà dell’obiettivo considerato necessario per arrestare il riscaldamento climatico al di sotto dei due gradi di aumento rispetto all’era pre industriale.
«Partire con metà dell’obiettivo in tasca non è un vantaggio trascurabile. Naturalmente si tratta ora di ottenere l’altra metà, ma i segnali in questa direzione ci sono e sono netti. La scommessa è costruire un meccanismo di revisione dei target che permetta di arrivare a uno scenario carbon neutral, cioè a emissioni zero, nella seconda metà del secolo ».
Una carbon tax, già adottata da vari Paesi e da varie regioni, darebbe una bella spinta al processo.
«Sull’idea di inserire il costo del disinquinamento all’interno del prezzo dei prodotti ad alto tenore di carbonio c’è oggi consenso anche all’interno della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Ma il tema non è all’ordine del giorno a Parigi. Forse lo sarà tra 5 anni, nel momento in cui il processo che delineerà in questi giorni diventerà operativo».
Qual è l’alternativa alla carbon tax?
«Ci sono vari sistemi per dare un prezzo all’anidride carbonica prodotta bruciando combustibili fossili. L’Europa ad esempio ha messo un tetto alle emissioni e ha creato un mercato di compravendita delle quote di emissione che penalizza chi non innova. Inoltre i grandi capitali che fluttuano da un paese all’altro e da un’attività all’altra stanno dedicando un’attenzione sempre maggiore alle fonti rinnovabili perché permettono investimenti sicuri e redditizi. Se i 500 miliardi di dollari di incentivi ai combustibili fossili venissero spostati in direzione green questo processo diventerebbe più veloce».
Intanto però i danni da caos climatico continuano ad aumentare.
«E’ vero: il numero di catastrofi naturali è triplicato negli ultimi 30 anni. Secondo il rapporto dell’Unisdr, l’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione dei disastri, hanno ucciso 600 mila persone in 20 anni, una media di 30 mila all’anno. E altri 4,1 miliardi di persone sono rimasti feriti, o hanno perso la casa e sono stati costretti a spostarsi: parliamo di un numero che equivale a più di metà della popolazione mondiale».
Ritiene che la conferenza di Parigi si concluderà con un accordo vincolante che metta in sicurezza l’atmosfera?
«Ho fiducia sul prevalere della ragione. Non abbiamo alternative. In assenza di una capacità di governance globale dell’atmosfera i disastri continueranno ad aumentare e la pressione crescente dei profughi farà salire le tensioni e aumenterà le probabilità di conflitto».
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Siamo in ritardo, ma qualcosa è cambiato. Mai così tanti paesi avevano preso impegni concreti per ridurre i gas serra
DIRETTORE AGENZIA ONU AMBIENTE
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E Obama lancia
la coalizione sul clima
L’Italia entra in extremis
Usa capofila di 20 Paesi per investire nella tecnologia verde

Paolo Mastrolilli
Bintou Datt, una bella ragazza nera venuta apposta da Marsiglia per protestare a Place de la République contro il vertice sul clima, dice che è tutto una farsa: «Non prenderanno le misure necessarie a fermare il riscaldamento globale, lo ha ammesso pure il segretario generale dell’Onu». Sul suo biglietto da visita c’è scritto che fa la formatrice per l’Association Laawol diam la voie de la paix, e ieri ha marciato insieme a ragazzi che si erano portati da casa il martello. Quindi resterebbe sorpresa a scoprire che grosso modo sta sulle stesse posizioni dell’ex sindaco repubblicano di New York Michael Bloomberg, che qualche giorno fa durante un seminario al Council on Foreign Relations ha detto: «Parigi è importante, perché rappresenta un primo passo, ma siamo lontani da quanto servirebbe davvero per evitare la catastrofe».
Sguardo al futuro
In fondo lo riconosce anche la Casa Bianca, che nel briefing preparatorio del vertice ha ammesso che la conferenza Cop21 mancherà l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi rispetto all’era pre industriale, e servirà solo a tamponare la crisi. Per risolverla davvero nel lungo periodo saranno indispensabili progressi tecnologici, che al momento non sono in vista.
Oggi il presidente Obama lancerà la Mission Innovation, un’iniziativa con cui 19 paesi, dagli Usa all’Arabia Saudita, passando per Cina, India, Cile, Corea, Francia, Germania, Danimarca, Svezia, Giappone, Messico, più una ventina di grandi imprenditori guidati da Bill Gates, si impegneranno a raddoppiare i loro investimenti nella ricerca e lo sviluppo per contrastare i cambiamenti climatici, nell’arco dei prossimi cinque anni.
Inizialmente nella lista era assente il nome dell’Italia che invece si è aggiunto in extremis ieri in serata, allungando così l’elenco a 20 Paesi. Un’occasione importante per afferrare utili opportunità di crescita. E così oggi il premier Renzi siederà al tavolo con i grandi: Obama, Hollande, Merkel, Ban Ki-moon, Putin, Dilma, Shinzo Abe, Cameron.
Secondo la comunità scientifica, per non rendere irreversibili i danni dei cambiamenti climatici dovremmo contenere il riscaldamento globale a massimo 2 gradi. Oltre 180 paesi hanno preso impegni volontari per la riduzione delle emissioni, che saranno sanciti durante la conferenza, ma lo stesso Ban Ki-moon ha detto ieri che non bastano, e ha suggerito di tenere una prima revisione degli obiettivi già prima del 2020.
Per cercare di incrementare gli impegni, oggi Obama vedrà il collega cinese Xi e il premier indiano Modi, prima di andare a cena con Hollande per discutere la campagna contro l’Isis. Lo stesso capo della Casa Bianca, però, ha le mani legate, come ha spiegato Bloomberg: «A Parigi ci sarà un accordo, ma non sarà legalmente vincolante perché i primi a non ratificarlo saremmo noi».
Chi rema contro
In effetti 35 senatori americani, guidati da Mitch McConnell che rappresenta lo stato produttore di carbone del Kentucky, hanno già inviato una lettera ad Obama con cui minacciano di boicottare qualunque impegno prenda per ridurre le emissioni degli Usa. «Dicono - ha spiegato Bloomberg - che così vogliono salvare posti di lavoro, ma è una fesseria. L’industria mineraria non dà più lavoro negli Usa, e il futuro dell’occupazione è nelle rinnovabili. Il riscaldamento globale invece uccide, in prospettiva più del terrorismo».
Anche l’industria petrolifera americana è contraria, al punto che il ceo della Exxon nega l’esistenza dei cambiamenti climatici, e ha rifiutato di unirsi all’iniziativa dei colleghi europei, che vorrebbero tassare il carbone per favorire il gas.
Obama durante la campagna per la rielezione nel 2012 non aveva quasi menzionato il riscaldamento globale, perché secondo i sondaggi del suo guru Axelrod non portava molti voti, ma dopo la vittoria ne ha fatto una priorità. Il problema è chela limitazione dei gas e la capacità di adattarsi ai loro effetti negativi, non bastano.
Per vincere serve una svolta tecnologica, che ripulisca le emissioni e inventi le rinnovabili del futuro.
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Dall’Australia
al Paraguay
2300 cortei
per l’ambiente

Oltre 570 mila persone hanno manifestato in tutto il mondo per il clima in circa 2300 cortei alla vigilia dell’apertura della Cop21 di Parigi. Lo ha riferito Emma Ruby-Sachi, direttrice della ong Avaaz, la rete di pressione politica online più grande e influente del mondo.
Con lo slogan «Non abbiamo un pianeta B», i cortei sono sfilati dall’Australia al Paraguay per premere sui 150 leader che da ieri sono arrivati nella capitale. Avaaz, citata da media francesi, precisa che si tratta di stime che non tengono conto delle marce che si terranno nelle prossime ore in Messico e Canada, e che potrebbero portare il totale dei partecipanti a sfiorare il milione.
Non solo Parigi dunque: manifestazioni e cortei sono stati organizzati in decine di città di tutto il mondo, da Atene a Roma, da Madrid - dove Greenpeace segnala 20mila partecipanti - a Londra. Ieri a Monaco un gruppo di persone si è vestita di bianco e ha formato un ideale ghiacciaio che si sta sciogliendo. In Asia le manifestazioni si sono distribuite tra sabato e ieri dall’India a Hong Kong, dall’Indonesia e fino all’Australia. E non mancano le marce in Africa.
In numerose città europee, cortei colorati e vivaci hanno sfilato per le strade, a cominciare da Bruxelles dove si è creata una catena umana nonostante l’allarme terrorismo dei giorni scorsi. Dopo che le «marce ambientaliste» sono state annullate per l’emergenza terrorismo, in 4mila hanno partecipato a una catena umana, coprendo la distanza di un chilometro e mezzo. Tutte le manifestazioni previste in Belgio sono state annullate da quando, la scorsa settimana, era stato deciso dal governo di elevare il livello di allarme sicurezza, ma gli ambientalisti hanno voluto comunque associarsi alle manifestazioni di ieri. E alcuni hanno contestato la scelta dei governi di utilizzare la situazione di allarme sicurezza «solo per proibire le manifestazioni ambientaliste, ma non i mercatini di Natale».

La marcia a Roma
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LA STAMPA DI IERI
ILARIA MARIA SALA SULLA CINA

La Cina soffoca nello smog: “Restate a casa”
A Pechino superata di sedici volte la quantità tollerabile dall’organismo. Nell’80 per cento delle altre metropoli controllate registrati comunque valori considerati pericolosi per la salute

Ilaria Maria Sala
Da quando Pechino ha riacceso i riscaldamenti per far fronte all’arrivo dell’inverno – particolarmente gelido in queste prime settimane – ecco che l’aria è tornata ad essere catastrofica. Le PM 2,5 – quelle particelle microscopiche il cui particolato è inferiore ai 2,5 millimetri di diametro che si insediano nei polmoni umani – hanno ricominciato a galleggiare per l’aria, entrando nel sistema respiratorio di tutti gli abitanti, e sforando ancora una volta le soglie di guardia a livelli impressionanti.
Oltre ogni limite
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fissato a 25 il quantitativo di PM tollerabile per l’uomo. Ieri, Pechino ne registrava 391 – ben al di sotto dei record precedenti, che hanno più volte raggiunto il limite massimo registrabile dalle apparecchiature utilizzate per calcolarle, salendo ancora più su, verso livelli non quantificabili. A Shijiazhuang, una città industriale a Sud di Pechino, i livelli di PM 2,5 un anno hanno superato 1000.
Ma dopo un certo livello, che bisogno c’è di quantificare? Principale colpevole di tutto ciò è il carbone: oggi come sempre, rappresenta l’80 per cento dell’energia consumata, malgrado le mille dichiarazioni e annunci che vogliono la Cina «al primo posto per gli investimenti nelle rinnovabili». Gli investimenti magari ci sono anche, ma continuano a lasciare irrisolto un problema che è fra le prime cause di morte prematura nel Nord della Cina. Ed anno dopo anno, nulla contraddistingue Pechino in inverno più di quel sapore metallico che resta in gola ogni volta che si respira, un odore di carbone che avvolge le narici e si sparge in bocca ad ogni respiro, che penetra le vie respiratorie insieme al freddo.
Il governo ha ancora una volta lanciato l’allarme, consigliando alle persone di non uscire, ed alcune scuole sono state chiuse.
L’autodifesa dei cittadini
Ci si difende come si può: per le strade, le persone indossano mascherine chirurgiche, altri addirittura maschere antigas. Sui social media molti fanno mostra dei loro filtri dei purificatori dell’aria, mostrando fotografie di grate nere di fuliggine di fianco a quelle nuove, candide, che dureranno appena poche giornate prima di diventare anche loro nerissime. Ma anche a Sud dello Yangtze, dove si usa meno il riscaldamento, i livelli di inquinamento sono terribili. Quindi, non è solo il carbone a far sì che delle 367 metropoli cinesi, dove sono attivi i sistemi di rilevamento di particolato PM 2,5, l’80% abbia livelli di inquinamento considerati pericolosi per la vita umana.
Misure inefficaci
I ripari a cui si è corsi finora sembrano poco capaci di bloccare il problema: centinaia di fabbriche inquinanti sono state chiuse, migliaia di veicoli tolti dalle strade. Ma nei mesi scorsi la Cina ha comunque dovuto ammettere di aver dichiarato un utilizzo di carbone inferiore del 20% a quello effettivamente bruciato ogni anno.
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Al via la conferenza
sul clima a Parigi
Il centro che a Le Bourget ospiterà la conferenza sul clima (Cop21) a nord di Parigi è da ieri formalmente nelle mani delle Nazioni Unite per la conferenza sul clima che durerà sino all’11 dicembre. I rischi terroristici in vista dell’arrivo di circa 150 leader mondiali tengono alta la tensione. L’obiettivo della conferenza è di limitare a non più di due gradi il riscaldamento globale. A garantire la sicurezza sono stati chiamati 2.800 poliziotti e gendarmi francesi, mentre nella regione saranno 15.600, cui si uniranno gli agenti della sicurezza Onu e quelli che seguono i 150 capi di Stato e di governo.
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CORRIERE DELLA SERA IERI
MASSIMO GAGGI
aranno le dimensioni imponenti della macchina che è stata messa in piedi per questi Stati Generali sulla salute della Terra: 25 mila delegati di 190 Paesi, 147 capi di Stato e di governo per una maratona negoziale di due settimane. Sarà che, mentre rinuncia a fare il «gendarme del mondo» nei Paesi in guerra, sull’ambiente Barack Obama ci mette la faccia, negoziando personalmente accordi coi grandi inquinatori mondiali, dalla Cina all’India, e sfidando il suo stesso Congresso. Sarà, infine, che, dopo gli attentati che hanno scosso il mondo, da Parigi al Mali, per i leader politici è divenuto ancor più imperativo trovare un accordo sul tema più nobile che hanno davanti: il salvataggio del Pianeta. Fatto sta che la Conferenza di Parigi sul Clima che verrà inaugurata domattina (ma i lavori cominciano oggi) nel centro congressi messo su a Le Bourget, nell’area del vecchio aeroporto cittadino, inizia in un clima di fiducia e ottimismo come non si vedeva da anni nel mondo dell’ecologia.
Un’opportunità (ma grandi ostacoli)
Ottimismo di facciata o è la volta buona? Nessuno lo sa oggi e sarà difficile avere certezze anche ad accordi fatti, alla fine della conferenza, vista la molteplicità e la grande complessità dei problemi: l’Occidente, ad esempio, vorrebbe superare i combustibili fossili ma «Big oil» non ne vuole sapere, mentre l’India intende continuare a usare il carbone senza limiti e la Russia trova addirittura vantaggioso il global warming che potrebbe rendere coltivabili le lande gelate della Siberia. Il Terzo mondo, poi, ci sta solo se i Paesi ricchi finanziano la sua riconversione energetica. E il fondo di 100 miliardi di dollari l’anno per gli emergenti a suo tempo creato in ambito Onu, non solo è poca cosa, ma è stato fin qui finanziato per due terzi soltanto. E quello che verrà raggiunto sarà comunque un accordo a «maglie larghe» con ogni probabilità non giuridicamente vincolante (molti Paesi non accettano limiti alla loro sovranità), come ha ribadito ieri il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, e quindi non avrà la forma di un trattato (che negli Usa non supererebbe il veto di un Congresso ostile ad Obama).
Nonostante tutti questi ostacoli, l’ottimismo è comunque giustificato: è la prima volta che i grandi inquinatori — dalla Cina all’India agli stessi Stati Uniti — vanno a un vertice internazionale pronti ad assumere impegni per ridurre le emissioni che alterano il clima. Sono 175 i Paesi che hanno presentato piani per abbassare la produzione di gas-serra: dopo decenni di dibattiti si è arrivati a una consapevolezza diffusa, quasi universale. Ma, oltre a essere sostanzialmente volontari, questi impegni (almeno per ora) sono largamente insufficienti: l’obiettivo fissato da scienziati e politici è limitare entro i 2 gradi centigradi l’innalzamento della temperatura terrestre rispetto all’era pre-industriale, mentre, anche se venissero centrati tutti gli obiettivi, gli impegni fin qui presi da 175 Paesi non consentirebbero di scendere sotto un incremento delle temperature di 2,7 gradi. Certo, meglio dei +4,3° verso i quali si andrebbe in assenza di interventi, ma non basta per impedire eventi catastrofici come la scomparsa di interi arcipelaghi per lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento del livello dei mari.
Da Stoccolma a Cop21 via Kyoto
Cop21, la ventunesima conferenza sul clima da quando, nel ‘95, alcuni Paesi presero impegni vincolanti, viene vista da molti come il punto d’arrivo di una lunga marcia — quella della graduale acquisizione della consapevolezza della gravità dei problemi climatici — iniziata ben prima del Cop1 di Berlino: la prima conferenza dell’Onu sull’inquinamento si tenne a Stoccolma nel ‘72, ma allora non erano chiare le dimensioni dei problemi, né le soluzioni istituzionali e tecnologiche possibili. La prima vera iniziativa contro l’effetto-serra (CO2, metano e gli altri gas che fanno salire la temperatura del Pianeta) arriverà solo con Cop3 che a Kyoto porta alla firma dell’omonimo Protocollo: siglato nel ‘97 ma attuato a partire dal 2005. Doveva essere un cambio di rotta per tutto il mondo, ma Kyoto escludeva i Paesi emergenti (a partire dalla nuova potenza cinese) non disposti a frenare il loro sviluppo e convinti che l’onere della lotta al global warming dovesse gravare sui Paesi ricchi, cresciuti grazie allo sfruttamento dei combustibili fossili. Alla fine il Protocollo non fu ratificato nemmeno dagli Usa, contrari a fare sacrifici in assenza di un coinvolgimento di tutti i grandi inquinatori. Un fallimento per i più, ma Kyoto ha consentito una prima presa di coscienza ed è divenuto la traccia per i negoziati successivi, la palestra per sperimentare meccanismi come la fissazione di un prezzo per le emissioni che alterano il clima.
Caldo record a ripetizione
Negli ultimi anni, così, le temperature di terre e mari hanno continuato a crescere (record nel 2014, già battuto nei primi dieci mesi del 2015, come si vede dai grafici a fianco) nonostante gli sforzi di sviluppare fonti non inquinanti alternative ai combustibili fossili (soprattutto sole e vento) fatti dall’Europa ma anche da Stati Uniti e Cina che, benché non vincolati dal Protocollo, si sono buttati sul business del solare. Ma, mentre i Paesi industrializzati, tra massicci investimenti nelle rinnovabili e rallentamenti delle economia dopo la Grande Recessione, hanno contenuto lo sviluppo delle emissioni, nelle nuove potenze emergenti la produzione di CO2 è esplosa anche per il boom industriale alimentato da un ricorso massiccio alla risorsa energetica più a buon mercato: il carbone. Così la Cina, che nel ‘95, l’anno di Cop1, produceva 2,8 tonnellate di CO2 pro capite, all’inizio del decennio attuale è arrivata a quota 6,7. Solo un terzo dell’anidride carbonica prodotta dall’americano medio, certo, ma, moltiplicando questo numero per il miliardo e 300 milioni di abitanti del gigante asiatico, si scopre che la Cina è il primo inquinatore mondiale.
Obama-Xi, il patto di Pechino
La svolta è arrivata un anno fa quando, davanti a questa realtà e all’inquinamento che soffoca Pechino e altre città cinesi, il presidente Xi Jinping si è fatto convincere da Obama a siglare un accordo bilaterale di reciproci impegni a combattere il global warming fissando obiettivi di lungo periodo. Ancora scottato dall’insuccesso della conferenza ambientale di Copenaghen del 2009 e deciso a concludere il suo mandato alla Casa Bianca da regista di un grande accordo mondiale sul clima, il presidente Usa nell’ultimo anno ha cercato di convincere molti altri Paesi, dall’India all’Indonesia, a seguire l’esempio di Pechino. Così, rispetto a sei anni fa, stavolta si arriva a Parigi con una rete di impegni reciproci già definiti. Da qui l’ottimismo dei leader. Sanno che potranno vendere alle loro opinioni pubbliche un accordo «nobile»: la politica che per una volta guarda lontano e prende impegni a vantaggio delle generazioni future. Ma saranno anche intese di sostanza? È quasi impossibile che si arrivi fin d’ora a centrare l’obiettivo dei 2 gradi. La speranza è che a Parigi venga fissato un calendario di verifiche periodiche, sia per controllare il rispetto degli impegni, sia per assumerne di nuovi, fino a raggiungere i sospirati 2 gradi. Ma per fare questo tutti i Paesi dovranno impegnarsi a riaprire il dossier clima ogni 4-5 anni. E magari finiranno per ricorrere anche alle nuove, rischiose tecniche della geoingegneria per raffreddare artificialmente l’atmosfera (ad esempio spruzzando cristalli di sale tra le nubi) se le misure dirette si riveleranno insufficienti.

Da http://www.fanpage.it
"La nostra filosofia? Voi non dovete sapere cosa facciamo". "Guida pulito, almeno in apparenza". "Loro sono la causa del problema, non la soluzione". Sono alcuni dei messaggi comparsi due giorni fa nelle strade di Parigi, su grandi poster affissi negli appositi spazi destinati ai manifesti pubblicitari.
In vista di Cop21 80 artisti provenienti da 19 nazioni hanno dato il loro contributo contestando con determinazione il "grande evento" dedicato al clima, su cui da mesi sono state riposte attese probabilmente esagerate.
La 21esima conferenza mondiale, organizzata dalle Nazioni Unite, è stata preceduta negli anni scorsi da decine e decine di colloqui "ufficiali", tutti aventi come obiettivo la riduzione delle emissioni inquinanti. Negli ultimi 20 anni, tuttavia, malgrado la sensibilità al problema sia decisamente cresciuta le emissioni sono aumentate a dismisura.
Secondo Brandalism, collettivo di artisti britannici, tutti i colloqui finora tenuti per discutere di cambiamenti climatici sono stati dominati da "interessi corporativi". Non a caso il Cop21 di Parigi vanta un elenco di sostenitori effettivamente discutibili: grandi compagnie aeree, banche, aeroporti e multinazionali specializzate nella produzione di energia.
Brandalism ha così avuto l’idea di proporre delle "pubblicità sovversive", utilizzando la creatività per portare alla luce le contraddizioni della Conferenza Mondiale sul clima che si terrà a Parigi fino all’11 dicembre.
Così 82 artisti hanno realizzato 600 opere d’arte che denunciano "il controllo delle multinazionali" su Cop21. Il collettivo è stato chiamato Brandalism, neologismo che fonde due parole: brand – marchio – e vandalism. Sabato gli attivisti parigini sono passati all’azione ed hanno affisso – naturalmente in modo abusivo – centinaia di manifesti che evidenziano i "legami tra la pubblicità, il consumismo, la dipendenza dai combustibili fossili e il cambiamento climatico" con i principali "attori" che partecipano a Cop21.
Le opere d’arte sono state collocate negli spazi pubblicitari di proprietà di JCDecaux, una delle più importanti aziende di marketing francesi direttamente impegnata nella sponsorizzazione del Cop21. Joe Elan, uno degli artisti che ha organizzato la campagna, ha spiegato: "Con la sponsorizzazione del Cop21 grandi inquinatori come Air France e Engie possono promuovere se stessi come fossero parte della soluzione, e non invece del problema".