Stefano Pistolini, il venerdì di Repubblica 27/11/2015, 27 novembre 2015
BOLLANI E I SUOI MITI LIBERI
Strano artista contaminato, Stefano Bollani. A dispetto della canonica educazione musicale ricevuta al conservatorio di Firenze. Chi s’immaginava che da quel giovane pianista di talento, uscisse un comunicatore irriverente, capace di spaziare con agilità tra tanti estremi della musica – l’antico e il contemporaneo, l’alto e il basso, il serissimo e il pop? Un paio di mesi fa ha stupito i fan con un album. Arrivano gli Alieni, registrato in solitudine, utilizzando uno strumento desueto come il piano elettrico Rhodes, facendo saltellare sui tasti motivetti celebri e mettendosi a cantare in tre pezzi, nemmeno si fosse scoperto il bernoccolo del cantautore. Il bello è che il passo successivo della sua produzione adesso è un libro, materia in cui ormai ha una vena consolidata – quinto della serie in meno di dieci anni. Si chiama Il monello, il guru, l’alchimista e altre storie di musicisti (Mondadori, pp. 132, euro 18), galleria di personaggi a prima vista messi alla rinfusa, ma invece tenuti insieme da un luccicante filo rosso, che riassumeremo nella dizione «secondo Bollani» – uno stile di prendere la musica, un po’ come anni fa il cinema «alla Moretti» fu uno stile di vita, più che un genere di film.
Ed ecco la raffica di capitoletti in affettuosa prima persona, dedicati a Louis Armstrong, Gorni Kramer, Carosone, Frank Zappa, Maurice Ravel, Piazzolla e tanti altri. Un catalogo di storie raccontate con stile confidenziale, dal momento che Bollani costoro li sente vicini, nella ricerca che gli interessa di più: come vivere con la musica.
«Perché io faccio il musicista, non sono un musicista. Faccio anche altre cose. Ho una vita sola e vorrei farle tutte, bene e come mi pare» racconta davanti a un’insalata al salmone, mentre sono da poco passate le 11 del mattino e su Roma novembrina scotta un inspiegabile sole a picco. Forse davvero arrivano gli alieni. La lista dei partecipanti al libro gli si è presentata da sola, scrivendolo: «Hanno una cosa in comune: cercano di essere liberi. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcuno no: non importa, non sta a noi giudicare. Ravel non vuole scrivere musica rivoluzionaria, non è John Cage. Eppure io non ho voluto Cage nel libro, non ho cercato i provocatori per forza. Ma Ravel, che passa sette mesi a elaborare uno spartito, mentre Stravinsky lo critica e sforna un balletto ogni due mesi, lui sì. E Zappa, uno sincero nei progetti: fa ciò che vuole, senza preoccuparsi delle etichette. Persone che sono andate avanti per la loro strada. Senza farsi influenzare da ciò che li circondava».
Artisti all’inseguimento della libertà. Colleghi che lo fanno sentire meno solo con la sua irrequietezza. Non soltanto quelli che ama di più, ma coloro che rispetta, al di là delle distinzioni – che siano tipi romantici o illuministi, interpreti dell’ordine o del disordine musicale: «M’interessa prima la loro volontà che la loro intenzione estetica» dice. «C’è chi fa musica e si rifugia in un mondo ideale che gli somiglia: il preludio di Chopin è il prodotto di un uomo che ama la musica perché gli dà un ordine interno. Ma ci sono altri che, più che amare il disordine, amano la musica perché li porta altrove. Fanno musica... perché è bello! I ragazzini, per esempio».
Chopin e i ragazzini: Stefano si astrae dal giudizio, dalle gerarchie. Ogni cosa è illuminata, diceva quello. E già siamo a un passo dal tema che gli sta più a cuore, il suo graal: l’improvvisazione, l’espressione naturale, senza mediazioni ma con la consapevolezza d’intrattenere chi ascolta. Renato Carosone, per esempio, eroe più celebrato di questo libro, che gli ispira il sano approccio che va cercando: il musicista oltre la sua musica, che si espande e scova nuove strade. «Era un musicista vero che però si è trovato a far ballare i turisti dell’hotel esotico in cui lavorava. Ha imparato a intrattenere. Non era un guitto, come Gegè Di Giacomo, il suo batterista. Era uno serio. Diplomato in piano. Ma va in Africa, dirige l’orchestra e suona Besame Mucho. Là mica può fare Chopin». La vicenda lo stuzzica: andare oltre il musicista-e-basta, senza vestire i panni dell’istrione, lasciando fluire le sfaccettature della propria creatività. «Perché limitarmi? La musica è un linguaggio, è comunicazione. Non deve dire solo cose serie. Lo usi sia per dire “ti amo” alla fidanzata, che per mandare all’inferno un antipatico. Carosone poteva diventare un pianista classico, invece va in tv a fare il cretino. Se Zappa avesse alzato il pugno chiuso durante i concerti, vista l’epoca, sarebbe finito sulle magliette come simbolo politico: ma non lo fa. Significa: io la musica la uso per dire cose mie. Non vengo usato dalla musica».
Dichiarazione di metodo, volatile e intransigente, in stile Bollani. Per sonorizzarla useremmo volentieri i 70 secondi di Un viaggio, pillola di psichedelia canterina di Arrivano gli Alieni: «Che caspita ho mangiato? / Sembri un palo / e una tigre del Perù», gorgheggia Stefano col suo vocione. Dunque, Carosone e Zappa: l’altarino si popola e le note a piè di pagina sono i capitoli della sua prodezza letteraria: «Il rischio, nel diventare un musicista di successo, è calarsi nella parte del guru. C’è chi lo ha fatto e chi ha saputo evitarlo. Io stimo questa seconda categoria. Basta un attimo di notorietà e hai 80 mila seguaci su Facebook: li puoi contare. John Lennon è morto in tempo: oggi, o sarebbe sparito occupandosi di agricoltura biologica, o sarebbe finito come McCartney, prigioniero del mito, a rifare all’infinito le vecchie canzoni, senza essere più in nessun dibattito. Morendo, Lennon è diventato una delle presenze più fulgide della storia».
È una teoria pericolosa, quella del morire al momento giusto. Ma Bollani è convinto: «Questione di karma. Esiste il momento perfetto, anche per morire. La vita dell’artista assume una dimensione eroica. Se Gesù fosse vissuto fino a settant’anni e fosse morto nel suo letto... tante cose sarebbero difficili da concepire. Che Guevara, Jim Morrison, sarà paradossale, ma hanno fatto quel che dovevano. Lennon magari si sarebbe svilito. È giusto che sia lui a morire presto: ciò che accade, accade. Se lui è morto e McCartney è vivo, così doveva andare. Fossi uno sceneggiatore, lo giudicherei corretto. E ha senso che venga ucciso: è un idolo. Va tirato giù».
Un dotto buddista non l’avrebbe detto meglio. Ma che c’entra questo modo di pensare, con una formazione artistica risolta al fianco di un trombettista italiano chiamato Enrico Rava? «Enrico per come l’ho vissuto, è stato il mio specchio. Io sono stato il bravo bambino, studi classici, lo spartito di fronte, musicalmente sono “visivo”. Enrico suona a orecchio, è un autodidatta, non vuole spartiti. Era il primo che incontravo, così diverso da me. Mi sembrava impossibile suonare a orecchio. Ma proprio in quanto diversi, facendo leva sugli amori in comune, a cominciare da Miles Davis, ci siamo dati cose a vicenda. L’uno il contraltare dell’altro».
L’apprendistato che Bollani aveva tentato al servizio del pop non aveva funzionato altrettanto bene: «Ho suonato con Raf e Jovanotti, per citare i più presentabili. Appena ho potuto ho smesso. È stato Rava a convincermi a non partire per un’altra tournée. L’esperienza mi ha chiarito cosa non mi piace: suonare nell’identica maniera tutte le sere. E le popstar devono rassicurare il pubblico, proporsi uguali a loro stessi».
Per lui tutto, ma non la routine. Magari esplorando possibili variazioni come la tv, con un programma suo – anche questa una creatura atipica, con filamenti d’improvvisazione. Era Sostiene Bollani, Rai 3: «Mi piaceva, anche se si trattava di un impegno notevole. A fare la tv m’hanno chiamato loro: volevano una cosa didattica, io a quella parola mi sono subito immaginato nei panni di quello che spiega la trigonometria alle tre di notte. Allora ho controproposto uno show. Il risultato era un misto: un programma che sembrava una jam session, inframmezzata da lezioni di musica. L’avrei dovuto rifare a gennaio, ma è andata male: non so il motivo, però la Rai ha declinato l’opportunità. Vedremo in futuro se ci saranno altre occasioni e altri spazi per portare la musica dal vivo in tv».
Stefano Pistolini