Davide Piacenza, Rivistastudio.com 26/11/2015, 26 novembre 2015
NESSUNO METTE BETTY IN UN ANGOLO
«A Wall Street lui e alcuni altri… quanti?… trecento, quattrocento, cinquecento?… erano diventati proprio questo: Padroni dell’Universo». L’anonima periferia di Crescenzago non sarà proprio Wall Street, ma chissà quante volte Elisabetta Sgarbi, eclettico Sherman McCoy dell’editoria, l’ha pensato seduta nel suo ufficio di Bompiani, al settimo piano del complesso di via Rizzoli, la Camelot del libro italiano. Oggi dopo vent’anni – il periodo di tempo più citato nel dibattito pubblico italiano – il marchio pregiato di RCS Libri acquisita da Mondadori rimane orfano di ciò che in altri casi si direbbe direttore editoriale, non fosse che Elisabetta, “Betty Wrong” sia per gli amici che per gli ammiratori delle sue gesta, non è mai stata una semplice direttrice.
«Com’è elegante, Betty, com’è elegante…». Il copione di una serata della Milanesiana, il festival voluto, pensato, diretto, realizzato, organizzato da Sgarbi (la Lady di ferro tiene ai credits, almeno a giudicare dall’horror vacui delle scritte sulle réclame dell’evento) non ammette variazioni. Elisabetta, centro dell’attenzione che emana una sprezzatura sartoriale, attira attorno a sé cerchi concentrici di amici e collaboratori e conoscenti ed estimatori, tutti reverenti e dispensatori di profonde lodi. È luglio, in questo caso, e Susanna Tamaro, timidissima longseller mai abituatasi a palchi e riflettori, presenta il suo ultimo libro. Tra il pubblico delle prime file del teatro Parenti si notano ambasciate di cronisti culturali, personaggi dell’editoria e presenzialisti di ogni ordine e grado. E oltre a loro c’è Mario Andreose, classe 1934, decano dell’establishment librario che ancora ricorda urbi et orbi che fu lui negli anni Novanta, in sella a Bompiani, a far tradurre Bret Easton Ellis; c’è Barbara Palombelli Rutelli, come da nome da coniugata orgogliosamente esibito su Facebook, che forse non ha ancora smaltito i postumi dell’alta velocità Roma-Milano e discetta di pace nel mondo con un’amica; c’è, infine, Eugenio Lio, romano quarantenne fuorisede dotato di un passato nel settore difficile da scovare, ma ormai da anni stretto collaboratore di Elisabetta ed editor Bompiani.
Elisabetta Sgarbi non è una persona a cui piace stare da sola; e sola non è, per sua fortuna. In queste ore la power woman dell’editoria italiana ha battezzato la sua ultima impresa, la Nave di Teseo, nome noioso e scolastico dell’approdo di un manipolo di fedelissimi che l’hanno seguita per, dicono, sottrarsi all’uniformazione coatta dell’affaire Mondazzoli. Sui giornali si susseguono i racconti già mitici del gran rifiuto a Marina e Silvio Berlusconi: il problema, dice Sgarbi in un’intervista di questi giorni, è «l’idea di editoria dietro al progetto», non è importante se di proprietà di Berlusconi o di Nichi Vendola. Curiosamente però il grande scisma sta venendo inquadrato dai media come una crociata del piccolo editore che punta sulla qualità e che resiste alla fusione nel Behemoth capitalista. Cose necessariamente di sinistra, insomma. Ma possibile che la sorella di Vittorio Sgarbi, quel Vittorio Sgarbi, sia il nuovo bastione dell’antiberlusconismo?
Su Repubblica di due giorni fa Francesco Merlo snocciolava il resoconto da unico insider della serata fondativa a casa Sgarbi, chiusasi con l’ormai molto circolata foto di gruppo sul pavimento in seminato alla veneziana. L’universo Betty passa innanzitutto attraverso i transfughi riuniti per far salpare la nave di Teseo. L’illustre Umberto Eco è seduto in prima fila e rivela a Merlo di aver detto a un nipotino di aver preso parte alla nuova avventura «perché si deve», mentre Furio Colombo scherza sulla sua esperienza ultradecennale in dimissioni: «Io e Umberto ci dimettiamo fin dagli anni Cinquanta». Sandro Veronesi invece si è imbarcato con Teseo perché «tiene famiglia», mentre Andreose «crede nella catastrofe come risorsa». A un certo punto su Skype appare anche Michael Cunningham, adepto sgarbiano d’oltreoceano e premio Pulitzer.
Elisabetta e Marina B., scrive Merlo nell’incipit del reportage salottiero, sono «donne incompatibili per antropologia». Sarà. Della Sgarbi si può dire tutto, tranne che le manchi l’attitudine al comando. A Bompiani, la casa editrice in cui dopo tanto tempo ormai «non si sarebbe riconosciuta» per colpa degli angusti paletti posti da Segrate, il suo regno è sempre stato totale e incontestato. Poco propensa a delegare, dal temperamento ansioso e volubile, si dice che in RCS abbia avuto non pochi screzi, da battitrice libera qual è sempre stata (e forse allora si spiega quel «in RCS ci hanno messo 6 ore per togliermi il badge di ingresso, una notte per sconnettere il mio account, dopo 25 anni di lavoro» lamentato l’altro giorno), ma tutto sommato finora aveva sempre vinto. La regina di ghiaccio è capace di toni severi ma anche di gratificazioni inaspettate, sa voler bene ma ha un certo talento nel disprezzare.
Ama la famiglia, Betty, e il suo nomignolo pare venire proprio dall’ambito domestico più intimo, dalla provincia ferrarese, anche se negli anni è stato completato come omaggio alla canzone di David Bowie. Di recente ha perso la madre Rina Cavallini, anch’ella Lady di ferro ma di un’altra epoca, cui era molto legata («non sono stata alla tua altezza», è stato il suo commento su Facebook dopo il lutto), mentre il padre ex farmacista Giuseppe, 94 anni, uomo colto e di temperamento placido, è al suo secondo libro e «ha la mente di un cinquantenne dentro una macchina che lavora un po’ più lenta», sostiene. Col fratello Vittorio i rapporti sono oggetto di ipotesi inverificabili: per qualcuno ci sarebbero tensioni dovute a quell’ambizione ereditaria, per altri l’esperto d’arte e polemista più celebre d’Italia con la sorella sarebbe addirittura protettivo, e fin dai tempi di quel passato chiacchierato flirt con un comico genovese, al secolo Giuseppe Grillo. Certo, Vittorio quando s’incazza, com’è ampiamente documentato, non risparmia nessuno: nel 2012, invitato a tenere una lectio magistralis alla Milanesiana, disse «il prossimo anno non vorrei esserci».
Elisabetta Sgarbi è anche una prolifica cineasta con l’omonima casa di produzione Betty Wrong, e giusto due mesi fa, di ritorno dal festival di Annecy, ha decretato di essere entrata «nella storia del Cinema italiano» con il suo Per soli uomini, docu-film parte di una trilogia ambientata nel Polesine (gradevole, anche se Moni Ovadia alla prima pare si sia un po’ distratto a giochicchiare col cellulare). Elisabetta ama essere apprezzata e non gliene si può fare una colpa, per cui nel caso si comprenderebbero quelle serate di proiezioni riservate ad amici e conoscenti di cui si mormora. Durante gli incontri più importanti della sua quotidianità di socialite muove nervosamente le gambe, unico segnale di un’irrequietezza che forse spiega un penchant per i caratteri riservati («Houellebecq è molto schivo, mi piace la sua ritrosia», rivelò al Corriere della Sera nel 2006).
Dettaglio finora accantonato, alla nave di Teseo è intitolato un omonimo paradosso inerente alla persistenza dell’identità originaria: l’imbarcazione che cambia tutte le sue parti con pezzi di uguale fattura rimane la stessa imbarcazione di prima? La risposta di Sgarbi, Lio, Eco e gli altri appare palese. La nave di Teseo però è anche quella che nel mito si dimenticò di issare la vela bianca simbolo di vittoria dello scontro col Minotauro (metafora di Mondazzoli? Ma poi, perché tutto questo ellenismo?), costringendo a un molto evitabile suicidio il povero Egeo. Elisabetta si trova sì su una nave tutta sua, adesso come prima, ma ora naviga in mare aperto. È molto amata e molto detestata, ma non si può mica piacere a tutti. D’altronde, come Svetlana Alexievich – fresco premio Nobel per la Letteratura guarda caso nel novero degli autori Bompiani – si interroga in uno dei suoi libri: «Esiste qualcosa di più spaventoso delle persone»?