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 2015  novembre 20 Venerdì calendario

DESTINI INCROCIATI ALLO SCALO DI DUBAI

«Si stava meglio qualche decennio fa, quando c’era meno odio religioso. Il mondo sta forse tornando indietro?», si chiede la ragazza ad alta voce fissando le immagini delle ultime stragi in Siria che scorrono sul suo iPhone. L’amica annuisce e a conferma le mostra i flash di agenzia sul suo visore con gli ultimi commenti a proposito dei turisti russi morti nell’aereo precipitato nel Sinai. «Terrorismo, ormai non c’è dubbio, Isis può colpire ovunque», leggono. Due giovani sui vent’anni, svedesi, capelli chiari, studentesse di economia negli Stati Uniti e dirette a Melbourne per un anno sabbatico. Comodamente sprofondate nei divani della lounge classe Business della Emirates allo scalo di Dubai. Hanno tempo, il loro volo partirà tra cinque ore, sul tavolino un bricco di tè verde e insalata di broccoli condita con poche gocce d’olio d’oliva, chiacchierano distratte dall’inseguirsi delle informazioni. In sottofondo il brusio attivo, onnipresente, di questo che è il terzo terminal al mondo per numero di passeggeri. Oltre 70 milioni di persone sono passate di qua l’anno scorso, trasportate da 357.339 aerei. E quasi due milioni e mezzo di tonnellate di merce hanno intasato i suoi scali cargo, arrivate e partite per i luoghi più remoti della Terra.
Dal divano vicino le ascolta un businessman indiano, all’inizio con fare distratto, senza volere, poi più interessato. «Davvero si sta peggio oggi? Sulla questione dell’odio religioso hanno ragione da vendere», pensa tra sé. «Però nel passato ci sono state guerre anche molto più gravi di quelle odierne. I 250.000 morti siriani sono soltanto una frazione minore dei 50 milioni della Seconda guerra mondiale. E poi sino a pochi anni fa non c’era tutto questo scambio di gente e informazioni. Viaggiavano in pochi. Posti come Dubai non erano neppure concepibili». Sul capo ha un turbante sikh, sembra sulla cinquantina, la pelle del viso è ancora liscia, ma incoronata da una barba grigiastra che lo invecchia. Riflette: «Non sono affatto certo oggi sia peggio. Semplicemente sappiamo di più. E siamo circondati di mezzi d’informazione che enfatizzano il dramma». Vorrebbe dirlo alle ragazze, discuterne. Anche lui ha tempo e nessuna voglia di rimettersi a navigare in rete. È tra i tanti che amano prendere il viaggio come una parentesi di calma, staccato dal mondo. Ma non sa come avviare il discorso. E non vuole sembrare neppure troppo ottimista. Dopo tutto, le cronache che infiammano il Medio Oriente negli ultimi anni sono davvero poco rassicuranti. È come intimidito dai suoi stessi argomenti, pur se vi crede fermamente. Così sceglie di rimanere zitto al suo posto, cullato dalla musica di sottofondo (a dire il vero troppo alta, intrusiva), a sorseggiare succo d’arancia allungato dai cubetti di ghiaccio ormai sciolti da un pezzo. Questo dialogo interiore suggerito involontariamente dai toni leggermente troppo alti della conversazione tra le due ragazze lo spinge a essere più all’erta. È stimolato, come se guardandosi attorno cercasse negli altri una muta conferma alle sue convinzioni.
I primi personaggi su cui focalizza lo sguardo paiono però contraddirlo clamorosamente. Sono due “contractors” occidentali impiegati nelle province devastate dalle guerre americane seguite agli attentati dell’11 settembre 2001. Sono talmente palesemente “contractors” nel muoversi, nel parlare, nel vestire, da apparirne come una parodia, due caricature. Uno è americano, cappello da baseball, rasatura da forze speciali marines, bandiera a stelle e strisce cucita sulla maglietta blu, palestrato, movimenti a scatti, eppure un poco imbolsito dal junk food, dalle barrette energetiche e le Pepsi Cola ingerite nervosamente durante le lunghe missioni di scorta su strade pericolose. Il suo lavoro si è fatto un poco più sicuro negli ultimi anni: ha il compito di addestrare la polizia militare afghana nella regione di Kabul. È il risultato della politica voluta da Barack Obama dopo il ritiro del grosso delle truppe, i cittadini americani devono cercare di restare il più possibile nelle basi protette. L’altro ha l’aspetto molto più sfatto. Pelle bruciata dal sole, barba lunga non curata, obeso, è appena arrivato a Dubai e già approfitta del bar della lounge per una sonora ubriacatura di super-alcoolici, che sono quasi inesistenti o costano piccole fortune sui cantieri presso Bassora di una compagnia edile greca dove adesso è impiegato come consulente della sicurezza. Ha sessant’anni, ma ne dimostra anche più di settanta. È di origine sudafricana, dal 2004 lavora in Iraq, il Paese consuma-uomini per eccellenza, non ultimi i “contractors” o mercenari nelle loro versioni più estreme. Stanno discorrendo di certi nuovi accorgimenti elettronici da impiantare ai posti di blocco per rilevare le auto-bomba. La guerra è il loro mestiere, lo svolgono con passione, quasi fosse un gioco, da cui però possono ricavare oltre 500.000 dollari l’anno esentasse. Per loro l’umanità può essere divisa in due categorie elementari: amici e nemici. Ogni musulmano è un pericolo potenziale, una minaccia da controllare.
Entra nel salone un personaggio decisamente inconsueto: fa l’addestratore di falchi. Deve essere figlio di qualche grande famiglia qui tra gli Emirati. Alto, magro, la jallabiah di seta chiara finemente ricamata, l’avorio immacolato dei denti risalta ancora più puro sulla carnagione olivastra, quasi non ha rughe, irradia una sensazione di pacata tranquillità. Grazie al suo status semi-nobiliare ha ottenuto il permesso di tenere con sé in cabina un paio di falconi incappucciati, che l’assistente tira fuori e dentro le gabbie a seconda dei suoi ordini. Sta partendo per una competizione tra falconieri in Arabia Saudita. Poi dovrà portarli per un controllo medico alla clinica specializzata in falchi “da gara” di Abu Dhabi. Gli animali mantengono un’immobilità regale, ritti con gli artigli ficcati nel manicotto di pelle al polso dell’uomo. Li osserva con evidente interesse il general manager del Regency Hotel di Kuwait City. Di origine italo-svizzera, laureato nelle migliori scuole alberghiere europee, dietro il suo aspetto apparente da alto funzionario occidentale abituato agli agi, la pinguedine incipiente, la forte miopia volutamente mascherata da un paio di occhiali dalla montatura rossa stile adolescente, si cela una straripante passione per i luoghi esotici. I due falchi lo ammaliano. Vorrebbe strappare via il cappuccio, vedere i loro occhi rapaci, il becco guerriero. Gli appaiono come l’invasione del deserto selvaggio, della natura brada, nel tempio della modernità tecnologizzata lucida di marmi tenuti puliti notte e giorno da un esercito anonimo e sottopagato, privo di qualsiasi diritto politico, costituito da immigrati filippini, coreani, sudanesi. Li conosce bene: compongono la grande maggioranza degli abitanti degli Emirati, ma sono anche l’esatto opposto della libertà fiera e indomita rappresentata dal falcone.
La sala si riempie e si vuota a ondate. I cartelloni luminosi di arrivi e partenze cambiano in continuazione. Passa un gruppo di imprenditori africani, distinti nelle loro figure filiformi, le camice bianche aperte al collo. Arriva una famiglia irachena che spinge un’anziana nonna in sedia a rotelle. Segue una coppia con due figli, lei yemenita con il volto completamente coperto, lui cinese. Vicino alle due ragazze si è seduto un californiano 68enne vestito da monaco buddista, con tanto di testa rasata, saio arancione e sandali aperti. È stato ingaggiato per condurre una seduta di preghiera a Nuova Delhi con un gruppone di anglosassoni neo-convertiti al buddismo. Ma le svedesi non lo vedono. Sono profondamente addormentate.