Cristina Manfredi, Vanity Fair 18/11/2015, 18 novembre 2015
IL MONDO IN UNA STANZA
«Sono stata molto in dubbio se raccontare quello che abbiamo vissuto, mi sembrava un fatto privato. Poi ho capito che era giusto farlo: la mia storia è la dimostrazione che l’animo umano non è cattivo». Antonella Viero lavora a Parigi come direttore della comunicazione del gruppo di moda Only the Brave. La casa che divide con il compagno e il figlio di 7 anni si trova a 500 metri da uno dei locali attaccati dai terroristi, l’ufficio a 300 metri da un altro, e passa ogni giorno davanti al Bataclan.
«Come spesso di venerdì sera, usciamo per una pizza in un ristorantino a pochi minuti a piedi da casa, in rue de Charonne. Stiamo per alzarci da tavola quando, verso le 22.15, mi telefona terrorizzata la nostra baby sitter: ci dice che stanno sparando proprio nella via in cui ci troviamo, e che dobbiamo allontanarci. Mentre ci affrettiamo al bancone per chiedere il conto, il proprietario e i camerieri escono in strada, confabulano, rientrano, abbassano la saracinesca e spengono le luci». Senza sapere che cosa stia succedendo, perché nel frattempo i cellulari non hanno più campo, i clienti vengono invitati a ripararsi in un cortile interno.
«Ero a New York l’11 settembre, ho ben impresso il ricordo di noi nascosti sotto i tavoli. Per tenere a bada il panico e non spaventare il bambino, sono salita con lui per una delle scale dell’edificio, mentre il mio compagno rimaneva sotto nel tentativo di scoprire qualcosa di più». Madre e figlio si accucciano sul pianerottolo del secondo piano, dove affacciano due porte. «Dopo un po’, una viene rumorosamente chiusa a doppia mandata, l’altra invece si apre, e ne esce una signora sulla cinquantina che ci chiede se vogliamo entrare. D’istinto, dico no». La donna rientra in casa, ma riapre pochi minuti più tardi per chiedere se vogliono bere qualcosa di caldo, o usare il bagno. «Decido di accettare, entriamo».
La Tv manda le immagini dell’orrore, Antonella è agitata, si affaccia spesso alla finestra. In cortile vede una famiglia: nonni, genitori e una bimba piccola che la madre cerca di riscaldare con la giacca del marito. Propone uno scambio: lei con suo figlio ormai possono uscire, meglio far salire loro. La signora la fa restare e scende a invitare in casa tutti gli altri. «In quel momento li ho riconosciuti: era la famiglia di arabi seduta al tavolo vicino al nostro, con la nonna dal capo velato».
La figlia diciassettenne della padrona di casa recupera un vecchio Lego per far giocare i due piccini, mentre la madre esce di nuovo per far salire una coppia, lei incinta al settimo mese. Sono stranieri e, dal modo in cui parlano inglese, Antonella capisce che sono israeliani. «Di Tel Aviv, in vacanza. E così ci siamo ritrovati tutti insieme – francesi, italiani, arabi, ebrei – in una stanza a parlare, anche a lanciare battute, per farci coraggio a vicenda».
I più provati sembrano gli arabi anziani. La nonna chiede ad Antonella conferma delle origini della giovane coppia e, man mano che si delinea la matrice di estremismo islamico, diventa silenziosa. «Ho provato grande tenerezza per lei e per il marito, per il loro disagio. Lei si faceva sempre più piccola. Quando Hollande ha annunciato lo stato di emergenza, lui si è messo le mani nei capelli».
È l’una passata quando italiani e israeliani escono insieme per raggiungere, rispettivamente, casa e hotel. «Ci siamo scambiati nomi e numeri di telefono, ci siamo ripromessi di restare in contatto». L’indomani Antonella ha scritto una lettera alla padrona di casa e gliel’ha fatta recapitare con un’orchidea bianca. «L’ho ringraziata non solo per averci aiutati. Poteva dubitare, e invece ci ha fatto entrare. L’altra sera ci osservavo tutti vicini e pensavo: questo è il mondo, non la violenza là fuori».