Lucio Caracciolo; Fabrizio Maronta, Limes: Israele e il libro 10/2015, 18 novembre 2015
IL MONDO SECONDO MARCHIONNE
Conversazione con Sergio MARCHIONNE, amministratore delegato di Fca e presidente di Cnh Industrial, a cura di Lucio CARACCIOLO e Fabrizio MARONTA
Che effetto ha il caso Volkswagen sul mercato dell’auto?
«È ancora presto per dirlo. È come aprire un’arancia: gli spicchi vengono fuori uno a uno. Ci vorrà del tempo. Un paio di cose però sono già chiare. Primo: il comparto dell’auto ha fatto una figura pessima. Si è visto che anche una delle maggiori industrie automobilistiche del mondo può fare cose al di fuori del consentito. Come ho cercato di spiegare ai miei colleghi europei, nella mia doppia veste di italiano e nordamericano, il vero problema sta in quello che gli anglosassoni chiamano il breach of trust. Concetto che non ha un vero equivalente in italiano, ma che possiamo rendere con “tradire la fiducia”. È l’aspettativa che nel contratto sociale alcune norme di base vadano rispettate, perché non farlo è un affronto intollerabile all’ordine sociale. Si tratta di un’idea che da noi non ha mai attecchito veramente, tant’è che in Italia gli esempi di breach of trust abbondano, specie negli ultimi anni».
Se è per questo, anche in America: pensiamo solo agli scandali finanziari che, da Enron alla crisi del 2007-8, hanno segnato il paese.
«Sì, ma in America il breach of trust è punito come tale: questi comportamenti non vengono tollerati, perché c’è la convinzione che se lo fossero il sistema sociale crollerebbe. Dunque non sappiamo ancora come reagiranno le autorità pubbliche a questo scandalo, ovvero se e quando imporranno standard sulle emissioni ancora più stringenti di quelli attuali. Ma c’è un’altra conseguenza pesante».
Ovvero?
«L’impatto negativo dello scandalo Volkswagen sul diesel: una delle tecnologie fondamentali nello sviluppo dell’auto, anche nel settore dei mezzi industriali. Un settore che peraltro ci vede in prima linea con Cnh Industrial, azienda che sta dando un contributo importante alla meccanizzazione agricola in molti paesi, come l’India. Come il resto del gruppo, Cnh Industrial persegue ovviamente il profitto, ma le ricadute sociali positive di un aumento della produttività agricola sono enormi e di questo siamo ben coscienti. Non so quanto lo siano quelli che ora sparano a zero sul diesel, causa di tutti mali. Questo anatema è totalmente ingiustificato e arbitrario. Avrebbe potuto colpire indifferentemente qualsiasi altro componente oggetto di regolamentazione, dalle cinture di sicurezza ai freni».
Qual è il rapporto tra una multinazionale e i governi dei paesi in cui opera?
«È un rapporto di pura convenienza economica. Per questo la Fiat è un caso particolare. Almeno negli anni della mia gestione, dal 2004 in poi, la presenza di Fiat in Italia non è stata dettata da ragioni puramente economiche. Al netto delle mie origini italiane e dei 116 anni di storia della Fiat in Italia, nessuno, oggi, avrebbe fatto quel che abbiamo fatto noi. Quando ho deciso di far produrre la Panda a Pomigliano d’Arco, in Campania, qui in Fiat mi dicevano che ero pazzo, eppure oggi Pomigliano è il nostro miglior stabilimento in Europa. È stato uno sforzo enorme. Non lo è stato di meno produrre a Melfi, in Basilicata, le jeep da esportare, prendendosi la responsabilità di industrializzare quell’area. O tenere in vita lo stabilimento di Mirafiori, a Torino, che è una città nella città».
Di norma, quali sono i criteri in base ai quali sceglie i luoghi di produzione?
«Ovunque nel mondo, eccezion fatta per l’Italia, i criteri sono la vicinanza ai mercati e i benefici economici dell’investimento. Non fosse altro che per giustificare gli esborsi di fronte agli azionisti. In Italia a pesare è l’oggettiva importanza della Fiat nel contesto nazionale: siamo il più grande gruppo industriale italiano e questo comporta delle responsabilità».
Italianità e multinazionalità sono quindi in contrasto?
«Spesso sì. E ciò che più mi dà fastidio è che i sacrifici che questo comporta per l’azienda non siano adeguatamente riconosciuti. Noi abbiamo acquisito un’azienda americana, la Chrysler, da cui nel 2015 sono venuti gran parte degli utili di Fca, dato che il mercato europeo è ancora fiacco. Se applicassi in tutte le parti del mondo le cautele che ho per l’Italia. Fca sarebbe fallita da un pezzo. Ma la Chrysler ha quarantamila dipendenti, non uno, e ho responsabilità anche verso di loro. Gli operai italiani non sono costituzionalmente inferiori agli altri, ma non sono nemmeno automaticamente superiori: in un mercato globale essi sono in competizione con gli operai di tutti i posti del mondo dove si producono auto e questa è una realtà impossibile da ignorare. Nello stabilimento che abbiamo aperto di recente nel Pernambuco, nel Nord-Est del Brasile, lavorano persone che sono state letteralmente strappate alla povertà. Abbiamo offerto loro un’enorme opportunità di sviluppo e l’impegno che mettono nel lavoro li rende qualitativamente eccellenti, pur essendo l’area priva di una tradizione industriale. Quel tipo di passione, di serietà e di competenza sopravvive comunque anche in Italia: a Melfi come a Pomigliano o a Grugliasco. Dopo dieci anni di traversie, l’orgoglio di appartenere a questo gruppo è di nuovo presente negli stabilimenti».
Nel gestire una multinazionale, quanto contano i confini statali? È più corretto parlare di imprese multi- o sovranazionali?
«Direi sovranazionali, nel senso che per molti aspetti – soprattutto quello fiscale – tali imprese sono in grado di muoversi indipendentemente dalle autorità statali, per eluderne paletti e imposizioni».
Le multinazionali sono dunque eversive del sistema politico?
«No. Considerano la realtà e la stabilità politica come uno dei fattori di cui tener conto nell’equazione del loro business. In Brasile, ad esempio, oggi ci troviamo a gestire l’impatto dei problemi di Dilma Rousseff, così come gestiamo i rapporti con Cristina Fernández in Argentina, con François Hollande in Francia, con Matteo Renzi in Italia o con Angela Merkel in Germania».
Come valuta Matteo Renzi?
«Ammetto che all’inizio l’ho valutato male, con leggerezza, ma nel tempo mi sono ricreduto. È svelto, energico e sta mettendo impegno nel cercare di imprimere una svolta a questo paese. È privo di condizionamenti mentali e questo lo aiuta a pensare in modo originale. Ci rivedo un po’ me stesso nel 2004, quando giunsi alla guida della Fiat praticamente digiuno di industria automobilistica».
Lei non si sente in qualche modo gestito dai politici?
«Assolutamente no. Zero. Ma proprio zero. Quello che i politici possono fare è fissare norme che mi obblighino ad adeguarmi. In ultima analisi, però, sta a me decidere: se mi conviene mi adeguo, altrimenti cerco, nei limiti della legalità ovviamente, di trovare alternative».
Il fatto che le multinazionali abbiano manager di provenienza molto diversa non ne inficia la governance? Non ci sono barriere culturali?
«No, perché si condividono valori e interessi. Fra i primi figurano l’onestà e l’integrità, fra i secondi al primo posto c’è, ovviamente, l’interesse aziendale. Venticinque anni fa ho cominciato la mia esperienza in Europa alle dipendenze di una multinazionale canadese con interessi in Inghilterra. Quell’azienda è poi stata acquisita da un’azienda svizzera, quindi da Londra sono passato in Svizzera, poi a Parigi e altrove. La Svizzera è un paese sui generis, che pur essendosi molto aperto al mondo negli ultimi vent’anni resta estremamente geloso delle proprie peculiarità e del suo sistema sociale e istituzionale, frutto di un’evoluzione plurisecolare. Un sistema che funziona e che continuerà a funzionare. Eppure, nonostante questo la cultura aziendale delle multinazionali svizzere – come di quelle degli altri paesi – si basa su un codice universale. Ho avuto modo di constatarlo ampiamente, avendo lavorato con persone provenienti dai quattro angoli del globo».
Crede che nel caso Volkswagen c’entri qualcosa la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), l’accordo di libero scambio tra Usa e Ue perseguito da Washington e fortemente osteggiato dalla Germania?
«Direi proprio di no. Sul Ttip ho letto parecchie teorie del complotto, ma la semplice verità è che nessuno vuole male alla Volkswagen, come nessuno vuole male alla Chrysler, eppure noi le multe le abbiamo prese e le abbiamo pagate in silenzio. Quando sbagli paghi, punto. Anche se la vicenda Volkswagen è un’altra cosa. Sbagli di quel calibro aprono un vaso di Pandora».
A cosa si riferisce, in particolare, quando dice che il mondo sta cambiando
velocemente?
«A tutto. Appena due anni fa fior di esperti decantavano le virtù dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), vaticinando che avrebbero tirato il mondo fuori dalle secche della crisi. Sono stato di recente in Brasile e faccio fatica a vederci una delle nuove locomotive dell’economia mondiale. Se nel 2004 qualcuno mi avesse detto che da amministratore delegato della Fiat avrei acquisito la Chrysler, gli avrei dato del folle: nessuno poteva prevedere il semi-fallimento dell’industria americana dell’auto. Noi abbiamo avuto la fortuna e l’intelligenza di presentarci lì al momento giusto e questo ha cambiato per sempre la faccia della Fiat».
È stata fortuna?
«Sì. nella misura in cui ci si è presentata questa opportunità. La scelta di perseguirla e il modo in cui è stata architettata l’acquisizione, invece, sono stati voluti. Chi ha rischiato non è stata la Fiat, ma Marchionne: sono io che ci ho messo la faccia con il governo americano per ottenere gli aiuti governativi, l’azienda non ci ha messo un centesimo. Se fosse andata male a saltare sarei stato io: la Chrysler sarebbe andata a qualcun altro, ma la Fiat era salva. Il vero contenzioso con il Tesoro statunitense è stato questo: loro chiedevano che mettessimo soldi, io pretendevo di non metterceli, almeno all’inizio e finché non avessi avuto garanzie sufficienti per portare Chrysler nel gruppo. Alla fine l’ho spuntata, ma mi ci sono giocato vita e carriera. È stato un esperimento controllato per la Fiat».
L’esperimento della sua vita.
«Sì. Ha cambiato me non meno di quanto abbia cambiato la Fiat. Il fatto che poi la United Automobile Workers (Uaw) abbia scelto la Chrysler, un’azienda a proprietà italiana, per iniziare a rinnovare il contratto di lavoro nazionale è altrettanto indicativo. Qui non c’entra la nazionalità dell’azienda, ma la chimica personale: se i rappresentanti sindacali credono in te, negoziano con te. E questo vale per l’America come per il Brasile e per qualsiasi altra parte del mondo. Una multinazionale ben gestita dovrebbe avere questa capacità di interfacciarsi con le parti sociali. Non necessariamente attraverso l’amministratore delegato, anche attraverso i suoi vertici locali. Nel caso specifico, con il presidente della Uaw Dennis Williams ho un ottimo rapporto personale e detto francamente ho trovato ragionevoli molte delle sue richieste, tant’è che alla fine l’accordo è arrivato».
Torniamo all’Italia: lei crede al made in Italy?
«Credo che, se ben gestito, per certi aspetti il made in Italy abbia un indubbio valore, ma non credo che sia la soluzione al problema industriale italiano. Una jeep non si vende bene agli americani perché è fabbricata in Italia, anche se questa è una storiella che ci raccontiamo spesso e in modo anche convincente. Il made in Italy ha valore se applicato a un certo tipo di prodotti e di attività in cui l’italianità costituisce effettivamente un valore aggiunto, dal cibo alla moda al design. Ma una realtà industriale come quella dell’auto di massa, che deve competere a livello internazionale e misurarsi con gli altri su basi tecnologiche oggettive, non trae alcun vantaggio dalle etichette nazionali».
Salvo forse che nel caso tedesco, in cui l’industria dell’auto e il made in Germany sostanzialmente coincidono.
«Sì. Francamente non riesco a gioire minimamente del passo falso di Volkswagen. Innanzi tutto perché è ingiusto condannare in blocco tutta l’industria tedesca, che dal secondo dopoguerra ha fatto passi da gigante. Il made in Germany non è rovinato, ma senza dubbio è ammaccato. Di contro, l’aspetto positivo del made in Italy è che risulta quasi impossibile da ammaccare, perché si manifesta in tanti ambiti che trovare il punto debole capace di squalificarlo è molto difficile».
La differenza sta forse nel fatto che nessuno pretende dal made in Italy la stessa affidabilità. Insomma: è un po’ difficile ora per i tedeschi rinfacciare ai greci di truccare i bilanci.
«È questo l’aspetto più preoccupante e potenzialmente nefasto di tutta la faccenda. I tedeschi hanno perso il diritto morale di emettere sentenze. Ma guardando oggi all’Europa, chi altri ha tale autorità? Lo scandalo Volkswagen è come la livella di Totò: ci ha rimesso tutti sullo stesso piano. Un piano piuttosto basso direi. Né l’attuale architettura europea risulta di alcuna utilità, essendosi allontanata dagli ideali originari».
L’Unione Europea non le fa una buona impressione?
«Decisamente no. Risulta quasi incomprensibile, le sue dinamiche politiche e istituzionali appaiono completamente avulse dalla realtà. Sono stato a una quantità di riunioni a Bruxelles in cui la Commissione parla di Vision 2020. Vision 2025 e via dicendo: documenti di ampie visioni cui poi non corrisponde alcuna azione concreta, o peggio azioni discutibili. Un esempio: il trattato di libero scambio Ue-Corea del Sud. Perché lo abbiamo stipulato? Essenzialmente perché lo avevano fatto gli Stati Uniti. Ma se per Washington ha perfettamente senso rinsaldare i rapporti con un paese strategico, che dalla guerra di Corea ospita migliaia di soldati americani e che sta a due passi dal grande avversario cinese, per l’Europa che fatica a emergere da una crisi devastante aprire le porte agli agguerriti esportatori sudcoreani equivale a un atto di pura demagogia. Quando l’ho fatto notare a Bruxelles, mi è stato risposto che gli accordi di libero scambio vanno firmati tutti. Punto. Questo vuol dire applicare la teoria economica senza tener conto della realtà economica».
Ritiene che da un punto di vista tecnologico nei prossimi anni l’auto cambierà molto?
«Totalmente. Innanzi tutto, il motore a scoppio come lo conosciamo oggi andrà gradualmente perdendo la sua centralità in 10-15 anni, a vantaggio di altri sistemi di propulsione. Per ora l’orizzonte principale è il motore elettrico, ma anche le celle a combustibile sono in campo, sebbene queste abbiano un alto impatto ambientale – in termini di CO₂ – in fase di produzione e presentino seri problemi di sicurezza, essendo altamente esplosive. Poi ci sono i cambiamenti epocali avvenuti nel mondo che circonda la vettura, di cui questa deve tener conto. Oggi viviamo immersi nell’elettronica e facciamo un uso massiccio, quotidiano di Internet e del cosiddetto infotainment, a metà tra informazione e intrattenimento. Questa realtà andrà inevitabilmente a invadere l’auto: considerando il numero di ore che si passano in macchina, l’utente vorrà ritrovare nell’abitacolo quella che chiamo la “sintassi” di questa architettura informatica. In un futuro non lontano vedo autovetture che si aprono avvicinando il telefonino alla portiera e, una volta dentro, riproducono su uno schermo il proprio desktop, permettendo di lavorare mentre si viaggia. La tecnologia c’è già e non è molto costosa. Il problema è la connettività, agganciare cioè l’auto alla Rete in modo veloce e costante».
Difficile pensare di poter guidare e lavorare al tempo stesso senza provocare incidenti a catena.
«Infatti la tendenza è verso l’auto che si guida da sola, o che per lo meno consente di impostare il “pilota automatico” quando si vuole. In molti sono interessati a questa tecnologia, non solo le case automobilistiche. C’è Google ad esempio, ma anche Uber, il cui costo maggiore è il tassista. Vetture pubbliche a guida automatica abbatterebbero il costo delle corse. Per non parlare delle vertenze. Non è un mondo astruso: sono cose che possono succedere nei prossimi dieci anni. Tutto quello che siamo abituati a considerare tecnologia di base delle macchine sarà rimpiazzata, l’industria dell’auto cambierà volto. Ne è un esempio concreto Elon Musk, che con la sua Tesla sta rivoluzionando l’auto elettrica. Nel 2011, al salone dell’auto di Francoforte, mi sono ritrovato Musk seduto accanto a una cena e l’ho ignorato per tutto il tempo: non per cattiveria, ma perché non sapevo nemmeno cosa facesse. L’ho rivisto di recente in California e ormai si è fatto un nome. Al di là del suo grado di realismo come imprenditore, trovo eccezionale come riesca a rompere gli schemi. Le sue auto con le porte che si aprono all’insù sono imparcheggiabili in molti posti, eppure lui le vende. All’estremo opposto sta la Toyota, azienda che negli ultimi vent’anni ha sviluppato una tecnologia ibrida economicamente accessibile, finanziata peraltro con la vendita dei “classici” motori a scoppio. In questo caso le ricadute industriali sono già tangibili, perché i fornitori globali di Toyota hanno tenuto il passo con la casa madre e si sono dunque impadroniti di un know how che può tornare utile ad altre aziende, come Fiat e Chrysler, che negli anni passati non hanno potuto investire nelle tecnologie di punta e che ora possono più agevolmente recuperare terreno. Del resto, nel 2004 il nostro problema non era l’auto tra vent’anni, ma arrivare al giorno dopo, mentre ora possiamo guardare di nuovo al futuro. Dall’anno prossimo Chrysler sarà la prima in America ad applicare la tecnologia plug-in hybrid ai minivans, segmento in cui siamo leader nel mercato statunitense. Mentre Cnh Industrial ha fatto enormi passi avanti nel campo degli autobus a metano, ibridi ed elettrici».
Comunque, seppure in un’altra pelle, l’automobile sopravvivrà.
«Almeno finché non impareremo a volare. Non tutto il mondo è la Svizzera, dove la rete ferroviaria funziona alla perfezione: precisa, pulita, puntuale, sicura. Il resto dell’Europa è molto indietro da questo punto di vista. Senza contare che la libertà personale associata ad avere un mezzo proprio è ineguagliabile».