Stefano Consiglio, International business Times 1/8/2014, 1 agosto 2014
Per comprendere l’economia palestinese è necessario, anzitutto, stabilire quali territori debbano essere considerati parte della Palestina
Per comprendere l’economia palestinese è necessario, anzitutto, stabilire quali territori debbano essere considerati parte della Palestina. Dal punto di vista giuridico la Palestina si qualifica come uno Stato dichiarato unilateralmente e non riconosciuto unanimemente a livello internazionale. La sua autonomia è stata rivendicata a seguito della dichiarazione dello Stato palestinese di Algeri del 15 novembre 1988 da parte dell’OLP. La sovranità dell’Autorità Nazionale Palestinese è stata riconosciuta di diritto a seguito degli Accordi di Oslo del 1993, tuttavia molti esperti di diritto internazionale dubitano della soggettività giuridica dello Stato palestinese. Ciò dipende da una serie di ragioni: anzitutto gli accordi di Oslo non hanno mai trovato piena attuazione. In secondo luogo i territori concessi all’ANP sono soggetti al controllo delle forze militari israeliane. L’ANP, infine, ha lo status di osservatore e non di membro presso l’Assemblea generale dell’Onu. PER MEGLIO COMPRENDERE LE VARIE FASI CHE PORTARONO ALLA CREAZIONE DELL’ANP LEGGI QUI. Detto questo, e prendendo come punto di riferimento gli accordi di Oslo del 1993, lo Stato palestinese comprende i territori della Cisgiordania (in inglese West Bank) e della Striscia di Gaza. Una Una mappa raffigurante i territori di Israele e Palestina. (Wikimedia Commons, PD) La Striscia di Gaza è stata occupata nel 2007 dalle milizie di Hamas, uscite vincitrici alle elezioni politiche del 2006 con il 43% dei voti. In quel momento si creò una frattura tra l’Autorità Nazionale Palestinese, riconosciuta a livello internazionale come unica guida politica della Palestina, e Hamas. Nonostante la recente riconciliazione, realizzatasi nell’aprile del 2014 grazie ad uno storico accordo tra Abu Mazen e i leader di Hamas, la situazione di questi due territori appare assai differente sia da un punto di vista politico sia da un punto di vista economico. Per questo motivo è utile, quando si parla di economia palestinese, distinguere la situazione esistente in Cisgiordania dalla politica economica seguita nella Striscia di Gaza. PER CONOSCERE IL RUOLO DI HAMAS NEL CONFLITTO LEGGI QUI. 2) Come funziona l’economia della Cisgiordania? La situazione economica esistente in Cisgiordania dipende da una serie di fattori, interni ed esterni, la cui analisi disgiunta ne faciliterà la comprensione. I rapporti con Israele. È bene ricordare che gran parte della Cisgiordania è occupata da Israele, che ha invaso queste terre durante la guerra dei sei giorni del 1967. A seguito degli accordi di Oslo del 1993, lo Stato di Israele ha diviso la Cisgiordania in tre settori: l’area A, che corrisponde al 17% di territorio della Cisgiordania; l’area B, equivalente al 24%; l’area C, la più estesa, che copre il 59% dei territori di questa regione. È importante sottolineare che il 96% dei palestinesi vive nelle aree A e B, mentre l’area C è occupata quasi totalmente da coloni israeliani. Questa divisione è importante non soltanto da un punto di vista politico-amministrativo ma anche considerando le connesse implicazioni economiche. Le parti A e B, infatti, corrispondono a territori poveri di risorse naturali a differenza dell’area C, che avendo accesso al Mar Morto, offre ottime opportunità sia nel settore dell’estrazione mineraria sia in quello del turismo. Secondo un recente studio compiuto dalla World Bank, 3,4 miliardi di dollari potrebbero essere aggiunti all’economia della Cisgiordania qualora alla popolazione palestinese fosse garantito il pieno controllo dell’area C. La situazione in Cisgiordania è ulteriormente complicata dalla così detta barriera di separazione israeliana, un muro lungo circa 700 km che separa la Cisgiordania dallo Stato di Israele. Il tracciato di questa barriera è irregolare, per questo motivo diversi palestinesi hanno visto la loro proprietà bloccata al di là del muro. Gli agricoltori che utilizzavano queste terre per il loro sostentamento, sono stati costretti a chiedere un’autorizzazione al Governo Israeliano, la cui disponibilità a rilasciare visti sembra assottigliarsi con il passare del tempo. Nella città di Akaba, ad esempio, nel 2011 gli israeliani hanno rilasciato il 49% dei permessi richiesti, mentre nel 2012 tale valore è sceso al 20% . Quanto detto non deve far dimenticare, tuttavia, che circa 87mila palestinesi che vivono in Cisgiordania, su un totale di circa 2 milioni di abitanti, lavorano per Israele. La manodopera palestinese è utilizzata nei settori delle costruzioni, della manifattura e nel settore agricolo. Secondo un sondaggio compiuto dalla Palestinian General Federation of Trade Unions, tuttavia, i lavoratori palestinesi ricevono una paga nettamente inferiore rispetto ai loro omologhi israeliani e il 65% di essi viene utilizzato per lavori pericolosi, in particolare mansioni che li espongono a gas tossici. I principali settori economici. Nonostante il fatto che le autorità palestinesi controllino solamente il 41% del territorio della Cisgiordania, i lavoratori della Palestina sono attivi in diversi settori tra cui il più importante è quello agricolo. Secondo i dati forniti dal Council for European Palestinian Relations, il settore agricolo impiega in modo regolare il 13,4% dei palestinesi, un dato che sale al 90% se aggiungiamo i lavoratori assunti illegalmente. Questo settore, sebbene rimanga ancora la principale fonte di occupazione per la popolazione palestinese, è fortemente in declino. Una serie di concause stanno determinando il collasso dell’agricoltura, tra cui l’occupazione militare delle terre da parte di Israele, la divisione della Cisgiordania , la creazione della barriera di protezione e, infine, la carenza di acqua. La quasi totalità delle risorse idriche del paese, consistenti essenzialmente nel fiume Giordano e nella falda acquifera che passa sotto Israele e Cisgiordania, vengono infatti controllate da Israele. Ciò, ovviamente, ha un chiaro effetto sugli agricoltori palestinesi, sovente costretti ad acquistare l’acqua da Israele a prezzi decisamente maggiorati. L’enorme consumo di acqua da parte di Israele, inoltre, sta riducendo il livello della falda acquifera, il che a sua volta sta determinando l’infiltrazione di acqua salmastra, estremamente dannosa per i raccolti. PER MEGLIO COMPRENDERE L’IMPORTANZA DELLE RISORSE IDRICHE NEL CONFLITTO LEGGI QUI. Il settore turistico in Cisgiordania è stato fiorente fino all’occupazione militare del 1967. Negli anni successivi vi è stato un costante declino che si è tuttavia interrotto con gli accordi di Oslo del 1993. Quando nel 2000 è esplosa la seconda intifada questo settore ha subito un crollo pari al 90% da cui la regione si è lentamente ripresa nel corso degli anni. Oggi la Cisgiordania ospita siti turistici importanti come Betlemme e Gerico, visitati ogni anno da milioni di turisti e pellegrini. Il numero di turisti ha registrato, negli ultimi anni, un trend positivo. Nel 2010, infatti, 4,6 milioni di persone avevano visitato i territori palestinesi contro le 2,6 milioni di persone del 2009. Occorre tuttavia precisare che la maggior parte di questi visitatori si reca nei territori palestinesi della Cisgiordania solamente per una breve visita, scegliendo di risiedere all’interno di strutture israeliane. Le autorità palestinesi e il ministro del Turismo israeliano hanno cercato di cooperare onde incentivare il turismo in Cisgiordania, ma senza successo. L’attuale conflitto, infine, sta assestando un duro colpo al settore turistico. Dal 23 luglio, infatti, le principali compagnie aeree europee e americane hanno sospeso i voli diretti a Tel Aviv. L’industria manifatturiera e tessile è, anch’essa, diffusa in tutta la Cisgiordania dove vengono venduti oggetti di ceramica, vetro, legno di olivo, varie tipologie di tessuti e, infine, la pietra, ricavata attraverso processi di estrazione e rifinitura portati avanti dalle circa 650 aziende operanti nella regione. Gli aiuti internazionali L’economia palestinese dipende fortemente dagli aiuti economici internazionali. Ciò è stato ampiamente dimostrato nel 2013 quando il PIL della Palestina è precipitato a causa di una netta diminuzione negli aiuti umanitari forniti dagli Stati Uniti. Ad oggi gli USA rimangono i principali finanziatori della Palestina, seguiti da Unione Europea, Regno Unito, Svezia, Germania e Francia. È interessante notare che gli Stati Uniti sono anche i principali finanziatori di Israele, a cui fornisce 3 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti diretti. Gli aiuti internazionali corrispondono a circa il 30% del PIL palestinese, e vengono utilizzati dall’Autorità Nazionale Palestinese anche per pagare i suoi circa 140 mila dipendenti. Questi finanziamenti, che hanno un valore annuale che si aggira intorno ai 2 miliardi di dollari, garantiscono servizi essenziali a circa metà della popolazione palestinese. PER CONOSCERE I MOTIVI CHE SPINGONO GLI STATI UNITI A SUPPORTARE ISRAELE LEGGI QUI. Le autorità palestinesi. Secondo i dati forniti dalla Coalition for Integrity and Accountability, un’organizzazione palestinese che si occupa di verificare il livello di corruzione degli organi di Governo, questo fenomeno è assai diffuso nelle istituzioni palestinesi. Secondo un sondaggio compiuto nel 2012, il 40% degli abitanti della Palestina ha ammesso di aver corrotto dei funzionari pubblici allo scopo di ottenere servizi necessari per se o per la propria famiglia. Diverse aziende farmaceutiche vendono ai palestinesi farmaci o alimenti scaduti, che vengono tuttavia accettati dalla bisognosa popolazione palestinese rendendo molto difficile l’identificazione di questi episodi. L’evasione fiscale, infine, è incredibilmente elevata. Secondo i dati forniti da questa organizzazione, tale fenomeno avrebbe un valore pari al 40% delle entrate complessive ottenute dal Governo palestinese grazie alla tassazione. 3) Qual è la situazione economica nella Striscia di Gaza? Se la situazione economica esistente in Cisgiordania appare complicata, nella Striscia di Gaza la popolazione sta letteralmente lottando per sopravvivere. Anche prima dell’ultimo attacco lanciato da Israele contro la Striscia, che ha causato finora 1456 morti tra la popolazione palestinese, l’economia di questa regione era caratterizzata da una flessione negativa. A partire dal giugno del 2007, cioè dall’occupazione della Striscia di Gaza da parte di Hamas, Egitto e Israele hanno imposto un embargo strenuamente supportato dagli Stati Uniti. Le Nazioni Unite invece, pur condannando la conquista della Striscia da parte di Hamas, hanno ripetutamente criticato questo embargo, sostenendo che esso non trova alcuna conferma nelle risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza, in primis nella risoluzione 1860 del 2009. Per cercare di aggirare questo blocco economico, una serie di tunnel sono stati costruiti da Hamas allo scopo di collegare la Striscia di Gaza con l’Egitto, corridoio di ingresso di armi, medicinali e viveri, molti dei quali provenienti dall’Iran. PER COMPRENDERE IL RUOLO INTERPRETATO DALL’IRAN NEL CONFLITTO LEGGI QUI. Allo stato attuale circa l’85% della popolazione della Striscia di Gaza vive al di sotto della soglia di povertà. Questo territorio ha una popolazione complessiva di circa un milione e seicentomila abitanti, concentrati maggiormente nella città di Gaza, situata nella parte nord orientale della Striscia. Prima dell’imposizione dell’embargo, circa 25 mila abitanti della Striscia di Gaza si recavano ogni giorno in territorio israeliano per lavorare. Il settore turistico era in sviluppo così come il settore agricolo e quello manifatturiero, nonostante la produzione economica avesse subito una battuta d’arresto tra 1992 e il 1996. PER MEGLIO COMPRENDERE LE ORIGINI DEL CONFLITTO LEGGI QUI. Attualmente il blocco economico imposto sulla Striscia di Gaza, unitamente alla chiusura delle frontiere con Israele, impediscono alla popolazione Palestinese di prestare i propri servizi all’interno dei territori israeliani. L’agricoltura è anch’essa in declino a causa del forte inquinamento, nella sovrappopolazione e della scarsità d’acqua il cui controllo, come detto in precedenza, è saldamente nelle mani dei politici israeliani. Il settore turistico è praticamente inesistente, gli alberghi attualmente presenti a Gaza vengono utilizzati quasi esclusivamente da giornalisti, operatori ONU o membri di altre organizzazioni nazionali o internazionali. La decisione dell’Egitto di chiudere le numerose gallerie che collegano la Striscia di Gaza con il Sinai sta incrementando ulteriormente la povertà già ampiamente diffusa tra la popolazione palestinese. I prezzi dei prodotti contrabbandati attraverso i tunnel non fanno che aumentare, tanto che un sacco di farina può costare anche più di 60 dollari. 4) Esiste qualcosa in comune tra Israele e Palestina? Le differenze esistenti tra l’economia israeliana e quella Palestinese sono enormi. Basti pensare che il PIL pro capite di Israele è pari a circa 32 mila dollari mentre quello della Palestina è di 1200 dollari. Il tasso di disoccupazione di Israele è pari al 6,9% contro il 26,2% dello Stato palestinese. Esiste dunque qualcosa che questi due popoli hanno in comune? la risposta è sì: la moneta. Sia palestinesi che israeliani, infatti, utilizzano il Nuovo Siclo Israeliano (abbreviato in NIS, sigla di New Israeli Shekel ). Il problema è che anche la valuta, condivisa da questi due popoli, non fa altro che peggiorare la situazione economica palestinese. Questa moneta, infatti, viene emessa esclusivamente dalla Banca Centrale Israeliana, relegando la Palestina in uno Stato di totale dipendenza economica. L’uso del NIS da parte della popolazione palestinese è stato ufficializzato con il protocollo economico firmato a Parigi nel 1994. Questo documento ha garantito un totale controllo di Israele sull’economia palestinese, attraverso la regolamentazione di tutte le esportazioni e importazioni. Il governo di Tel Aviv, infatti, ha il potere di stabilire i documenti necessari al transito delle merci, l’entità delle tasse doganali e ogni altra procedura da seguire. In questo modo Israele facilita il transito dei propri prodotti all’interno dei territori palestinesi, obbligando la popolazione locale ad acquistarli. Secondo Basel Natsheh, professore di economia all’Università di Hebron, l’80% della frutta e della verdura mangiata dai palestinesi proviene da Israele o da colonie israeliane. PERCHÈ NON SI RIESCE A GIUNGERE AD UNA TREGUA DURATURA TRA ISRAELE E PALESTINA? La condivisione di una moneta, che dovrebbe simbolicamente rappresentare l’unione di popoli, è stata dunque trasformata in un meccanismo di controllo. Auspicando una rapida cessazione del conflitto attualmente in corso, qualunque negoziato di pace tra Palestina e Israele dovrà andare ben oltre gli accordi siglati a Parigi nel 1994. Sia che venga seguita la così detta "soluzione dei due Stati" sia che si adottino nuovi modelli, la predisposizione di obiettivi e ideali comuni è l’unica strada possibile se si vuole finalmente giungere alla pace.