Notizie tratte da: Candida Morvillo, Bruno Vespa # La signora dei segreti. Il romanzo di Maria Angiolillo. Amore e potere nell’ultimo salotto d’Italia # Rizzoli 2015 # pp. 480, 20 euro., 12 giugno 2015
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Biografia di Maria Angiolillo
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Notizie tratte da: Candida Morvillo, Bruno Vespa, La signora dei segreti. Il romanzo di Maria Angiolillo. Amore e potere nell’ultimo salotto d’Italia, Rizzoli 2015, pp. 480, 20 euro.
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Politica «Da me non si fa politica, il lusso più grande è l’amicizia unita al gusto di capire» (Maria Angiolillo in una delle sue rarissime interviste).
Mariuccia Maria Girani, detta Mariuccia, futura signora Angiolillo, era nata il 9 dicembre 1921, un anno prima dell’avvento al potere del fascismo, a Torrazza Coste, un paesino di contadini dell’Oltrepò pavese. Ultima di cinque figli, tre maschi e due femmine, e in casa di soldi dovevano essercene piuttosto pochi. Il padre Angelo, classe 1887, era un rappresentante di vini. La madre, Maria Rosa Alessandrina Betti, detta Sandrina, classe 1888, era casalinga. Dopo aver lasciato la campagna, per un po’ avevano vissuto a Caronno Milanese, oggi Caronno Pertusella, un paese in provincia di Varese che contava cinquemilatrecento abitanti nei primi anni Trenta. Poi se ne andarono anche da lì, in cerca di una vita migliore a Milano.
Tumore Il 9 marzo 1935, Angelo, il capofamiglia, era morto per un tumore allo stomaco. Lasciava una vedova senza alcun mezzo di sostentamento e cinque figli non ancora sposati. Giuseppe stava per compiere ventiquattro anni, Costantino ne aveva ventitré, Giuseppina, detta Nuccia, venti, Lina diciassette e Mariuccia era una ragazzina di dodici anni e tre mesi. Quel padre le sarebbe mancato per sempre.
Sole Nel 1946 in casa erano rimaste solo Mariuccia e la mamma. Si erano sposati tutti, i maschi facevano i salumieri, e l’ultima a uscire, nell’ottobre del ’45, era stata Nuccia.
Elio Maria aveva diciotto anni quando conobbe Elio Bianchi Milella. Era estate, e lui indossava una divisa bianca carica di mostrine fra le quali spiccava l’aquila turrita, simbolo della Regia Aeronautica. Le sarebbe sembrato bellissimo ed eroico già solo perché ogni tanto si alzava in cielo, come Italo Balbo, o come Gabriele D’Annunzio, tante volte ritratto sulle copertine della «Domenica del Corriere» esposte nelle edicole. Ma lui, in più, aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri, era smilzo e atletico. Mariuccia poteva solo innamorarsene. In quel 1939 in cui l’Italia era a un passo dall’entrare in guerra, Elio scalpitava, impaziente di mettere alla prova con il nemico il suo valore, di fendere le nuvole pilotando il suo caccia lucente. Vaneggiava di appartenere a «una generazione nuova, a quella generazione che rientrerà nella vita uscendo dal fuoco, scampando la morte». Alla fine, l’Italia in guerra ci entrò davvero, e l’ardimento del bell’aviatore venne meno quasi subito. Elio tornò dalla guerra scornato e apatico. Stupito d’esser vivo, senza esserne fiero. Mentre tutti erano desiderosi di ritrovare le proprie occupazioni, lui sembrava appagato di gironzolare a vuoto, passava molte giornate sul divano, facendo monologhi filosofici. La fortuna di famiglia si era dileguata. Lui non aveva un mestiere.
Incinta 1 Nel 1946 Maria scopre di essere incinta di Elio. «A sua madre sarebbe venuto un infarto. L’avrebbe cacciata di casa. Era una donna all’antica, Sandrina. Era nata in campagna ed era rimasta vedova giovane con cinque figli da crescere. Uno alla volta si erano tutti sistemati e con lei era restata solo Mariuccia, la piccolina, la più inquieta, quella che si era messa in testa di far la modella. Doveva a tutti i costi salvaguardarne “la virtù”. “Ricordati, Mariuccia, che tu non hai niente. Non hai la dote, non hai il corredo. Devi mantenerti pura, se no per tutti sarai solo una ragazza perduta” le ripeteva di continuo».
Incinta 2 Quando Maria svelò a Elio che era incinta, andò proprio come lei aveva temuto.
«Decidi tu» le disse.
«Decido io che cosa?»
«Sono un aviatore e un gentiluomo, lo sai.»
Un aviatore e un gentiluomo. Non erano quelle le parole
che Maria avrebbe voluto sentirsi dire. Parole astratte, retoriche.
Lei voleva un uomo capace di affrontare le responsabilità,
di prendere iniziative, uno svelto, com’era svelta lei, che
non stava mai con le mani in mano. Mariuccia cacciò indietro le lacrime. Piangere non serve a niente, s’intimò.
Marco Il piccolo Marco nacque il 2 febbraio 1947 ed era il figlio della colpa, ma non ancora il figlio segreto di cui avrebbero preso a parlare i giornali più di sessant’anni dopo. Suo padre Elio Bianchi Milella lo aveva riconosciuto all’anagrafe e ormai s’era rassegnato a non sposarne la madre. Lo vedeva solo la domenica e lo portava a giocare a casa del suo amico Silvio Tronchetti: anche
lui, nel 1948, aveva battezzato il suo bambino chiamandolo Marco. Si trattava proprio del Marco Tronchetti Provera che sarebbe diventato presidente e amministratore delegato del
Gruppo Pirelli.
Debole Pare che Mariuccia si rifiutasse perfino di farsi mantenere da Elio: non sopportava l’idea di dovergli alcuna gratitudine. «È un debole» diceva, «e di un uomo debole di carattere non me ne faccio niente.»
Mannequin Mariuccia aveva cominciato a lavorare come mannequin alla sartoria Ventura di corso Venezia sul finire della guerra. Era lì che aveva conosciuto Gigliola Bettinelli nata Curiel, bravissima a disegnare figurini. E a venderli.
Ombrelli Un giorno Maria fu invitata a pranzo da Gigliola Bettinelli Curiel. Era il suo primo pranzo, le serviva un vestito nuovo: voleva essere elegantissima, ma aveva a disposizione solo due pezzi di stoffa, uno bianco e uno nero, che aveva appena comprato alla teleria Ghidoli di piazza Fontana, il negozio di tessuti più antico di Milano. Riuscì a convincere un sarto a cucirle un abito per sole tremila lire, ma non sapeva dove trovare i soldi. Mezz’ora dopo uscì di casa trascinandosi dietro la sorella.
«Nuccia, te l’ho già detto: poche storie. Alla stazione Centrale dobbiamo andarci oggi che è piovuto. Neanche te lo immagini quanti ombrelli la gente può dimenticare sui treni.»
«Tu sei pazza, io mi vergogno.»
«La vergogna è dei fessi che non sanno darsi da fare.»
Ispezionarono le carrozze di tutti i convogli man mano che arrivavano, stettero lì tutto il giorno, fino a tarda sera, ma accumularono un bottino non sufficiente ai bisogni di Maria: una dozzina di pezzi. Per fortuna, si scatenò un acquazzone estivo anche il giorno dopo e le due ragazze poterono tornare in stazione con qualche speranza. Fu così che, in due spedizioni, misero insieme trenta ombrelli. Maria, soddisfatta, calcolò che ci avrebbe ricavato giusto tremila lire.
Pancia Al ricevimento in casa Curiel di quel settembre 1946, nel suo vestito nero e bianco, Mariuccia trattenne il fiato tutta la sera. La pancia s’intuiva più di quanto avesse previsto.
Curiel In quel periodo, il salotto Curiel era frequentato
dai giornalisti Orio Vergani, Indro Montanelli, Dino
Buzzati, dai pianisti Arturo Benedetti Michelangeli e Arthur Rubinstein, da Wally e Arturo Toscanini, dalla soprano Renata Tebaldi. Ancora pochi anni e quelle stesse stanze avrebbero accolto gli industriali: il conte Agusta degli elicotteri, il conte Cella della Durbans, i Moratti del petrolio, i Marzotto dei tessuti.
Cicci Al ricevimento in casa Curiel spiccava Cicci Menzio, la ragazza più incantevole della Milano degli artisti. Esilissima, con occhi enormi e intelligenti, era la figlia di Wanda Osiris, la regina del teatro di rivista. Minorenne, appena uscita dal collegio delle Orsoline, Cicci era scappata di casa per sposare un giovanotto di nome Maner Lualdi, aviatore, giornalista e commediografo. «Troppi mestieri, nessun mestiere» aveva sentenziato mamma Wandissima, la quale – messa di fronte alla fuga d’amore – aveva denunciato il ragazzo per circonvenzione di minore. Alla fine, la divina aveva dovuto arrendersi perché nel frattempo Cicci e Maner erano diventati la giovane coppia che più animava la bella vita milanese. Si incontrarono così, Cicci e Mariuccia, destinate a essere amiche inseparabili per il resto della loro vita.
Mannequin affermata Ben presto Maria divenne una mannequin affermata. Le sarte più in voga la adoravano: era ligia nel rispetto degli orari, e – dettaglio particolarmente apprezzato – non faceva alcun pettegolezzo sulle clienti. In tempi in cui il prêt-à-porter non esisteva e ogni abito era un pezzo unico, cucito a mano su misura, Maria poteva resistere anche undici ore immobile, senza un solo lamento, mentre le sarte rifinivano un orlo o perfezionavano un giro manica. In più, era molto bella, un vero schianto. Dopo il parto di Marco, aveva ritrovato il suo vitino.
Cristina Vettore L’amica Cristina Vettore era, invece, la sosia bionda di Sophia Loren. Aveva la stessa mascella scolpita, la stessa bocca dal disegno sensuale. Faceva furore anche per l’esuberanza. In tempi in cui la Dolce Vita era di là da venire, era celebre perché, per strada, era capace di tuffarsi a ballare nelle fontane. Da bambina, Cristina sognava di fare la ballerina, ma la madre era stata categorica: «Non vedrò mai mia figlia con le gambe seminude su un palco». Dopodiché erano stati chiamati a consulto preti di diversa formazione – gesuiti, domenicani, benedettini – e tutti avevano sentenziato: nel mestiere di ballerina si annida il diavolo. L’aneddoto era uno dei cavalli di battaglia che più avrebbe divertito quello che sarebbe diventato il suo secondo marito: Henry Ford, il re mondiale delle automobili.
Cristina Bozzo L’altra sua amica, Cristina Bozzo, era ligure e conquistava tutti per la sua simpatia. S’innamorava solo di ragazzi poveri in canna, e se aveva mille lire ne spendeva duemila.
Seicento sarte e tre chili d’argento Sul corso Vittorio Emanuele che conduce al Duomo, si trovava la celebre sartoria Ventura, poi trasferita in corso Venezia 18. Mariuccia vi era approdata sul finire della guerra, quando erano ormai lontani gli anni fastosi in cui il sarto Ventura aveva cucito l’abito nuziale e trecento vestiti di corredo per Maria José che andava in sposa a re Umberto II.
In quell’occasione, si era nel 1929, Ventura aveva messo all’opera per un intero mese seicento sarte sparse in varie succursali d’Italia. Fra i tanti sfarzi, aveva cucito un manto intessuto con tre chili d’argento.
Tessera annonaria Durante la guerra, quando Mariuccia aveva cominciato a fare la mannequin, anche gli aghi, il filo e le stoffe erano sottoposti alla tessera annonaria e il lavoro si faceva in economia. Nel dopoguerra, però, la ripresa degli atelier arrivò in fretta.
Ventimila lire a sfilata Nel 1950, con i prezzi gonfiati dall’inflazione del dopoguerra, Maria guadagnava diecimila e perfino ventimila lire a sfilata. Lo stipendio medio di un operaio era sulle trentamila lire al mese.
Marzotto Mariuccia si era potuta comprare finalmente una stola di visone, mentre le mannequin più giovani possedevano al più una sciarpina di lapin. Marta Vacondio, che diventerà la contessa Marta Marzotto, era una di quelle giovani. Poco più che bambina, era stata mondina nelle risaie della Lomellina e ancora faceva la pendolare con Mortara. A quindici anni, nel ’46, aveva cominciato a indossare per le sorelle Aguzzi a Milano.
Accessori Circolava la leggenda secondo la quale Mariuccia era stata la prima a intuire che, alle sfilate in atelier, indossando un accessorio a corredo dell’abito, e trattandola come un’occasione pubblicitaria per la ditta che aveva prodotto l’oggetto in questione, si poteva guadagnare del denaro in aggiunta: cinquemila lire per
indossare un cappello, tremila per i guanti, altre cinquemila per le scarpe del tal calzolaio, diecimila lire per la pelliccia di Bernini, mille per fare un giro con un ombrello al polso.
Piovere «Ricordati, Cristina. Gliela devi far piovere dall’alto, senza che mai tocchi terra» (consiglio che Mariuccia era solita ripetere all’amica Cristina Bozzo a proposito dei maschi).
Età Nel 1950 si era zitelle già a ventisei o ventisette anni, e Mariuccia di anni ne aveva ventinove, per quanto – se costretta a dichiarare l’età – dicesse di averne ventidue. Toglieva gli anni anche al piccolo Marco. «Ne ha uno, ma è molto alto» sosteneva.
Crociere Gigliola Bettinelli Curiel, nel frattempo, aveva fatto fortuna. Nel suo grande appartamento di via Dogana, affacciato sulle luminarie di piazza Duomo, era di casa Maria Callas con il marito Giovanni Battista Meneghini ed erano approdati gli industriali. Il vecchio conte Gaetano Marzotto, che aveva creato un impero con le nuove fibre sintetiche e il raion, nutriva per
Gigliola una spiccata predilezione. La invitava in crociera nei mari del Nord sul Trenora, un panfilo di sessantaquattro metri e con ottanta persone di equipaggio, di cui era gelosissimo e che diede in prestito una sola volta, a Frank Sinatra.
Tagliabue 1 Fu forse a casa della Curiel che Mariuccia incontrò per la prima volta Ettore Tagliabue. Petroliere, proprietario di una scuderia da trecento cavalli che sfornerà il leggendario Ribot, il cummenda Tagliabue era un cinquantenne con una faccia simile a quella di Aristotele Onassis, abbronzatissima e sovrastata dallo stesso naso imponente. La prima cosa che lui le disse, quando si ritrovarono vicini, fu: «E ti chi sé, bela tusa? Parè ’n gatt che l’ha mangià i lüsert». Le stava dicendo che era magrissima, come un gatto randagio che si nutre solo di lucertole. A suo modo, era un complimento. «Va’ a ciapà i ratt, va’» gli rispose Mariuccia con un sorriso soave.
Tagliabue 2 Per gli eccessi da bon vivant e la munificenza, i giornali lo definivano il «Grande Gatsby» italiano. La sua villa di Monza, con il salone rosa, il salone turchese, il salone blu, la biblioteca in boiserie e un’enorme scala nell’atrio, era teatro di fantasmagoriche feste con luci e orchestre, dove si potevano incontrare Walter Chiari e Ava Gardner, Rita Hayworth e il marito principe Ali Khan, Macario ed Esther Williams.
La sua tenuta di Balocco ospitava le battute di caccia più
fruttuose d’Europa, complice uno speciale pastone inventato dai fattori del petroliere, che faceva proliferare i fagiani come in nessun altro luogo in cui si cacciava. A Balocco, Ettore riceveva industriali e teste coronate. Di lì a poco, Mariuccia fu invitata a una caccia riservata agli amici: Ettore le regalò una tenuta all’inglese che Maria ritirò in un’armeria del centro di Milano. Venne a prenderla un autista alla guida di una Buick nera.
Tagliabue 3 Ettore Tagliabue adorava dormire nelle stalle. Una volta, da bambino, lo avevano trovato che ronfava abbracciato al dorso di uno stallone.
Tagliabue 4 La temuta prova dell’uovo alla coque cui fu sottoposta anni dopo Ljuba Rosa, che fu per sette anni la seconda moglie di Tagliabue. Sotto gli occhi attenti di tutti i parenti, Ljuba si ritrovò alle spalle il maître di sala che rompeva la punta dell’uovo con un apposito attrezzo in argento, mentre a destra un cameriere ossequioso avrebbe rimosso la calotta con un altro gingillo, e a sinistra un terzo cameriere sarebbe stato lesto a porgerle il burro fuso, pericolosamente fumante. Un incubo che ancora oggi Ljuba ricorda.
Tagliabue 4 Di tanto in tanto, Ettore portava Mariuccia fuori per il week-end. Non erano trasferte romantiche. Magari bisognava accompagnarlo alle aste di cavalli di Deauville. Lei lo guardava scegliere le bestie e trattare, rimanendo in silenzio per ore. Faceva poche domande: a lui piaceva quel distacco che Maria sapeva mantenere, come se fosse sempre in un luogo del tutto suo.
Tagliabue 5 Maria voleva Ettore con tutta se stessa. Passava interi pomeriggi ad arricciarsi i capelli con il ferro, a laccarsi le unghie e fare maschere di bellezza nel caso lui si facesse vivo per portarla fuori. Ma lui non prendeva mai nessun impegno, chiamava solo in preda all’impeto del momento. Magari mezz’ora prima
di cena, perché così gli girava.
Tagliabue 6 Un giorno Marco aveva la febbre altissima. Maria continuava a cambiargli le pezzuole intrise d’acqua fredda sulla fronte, senza riuscire a farlo smettere di piangere. Aveva passato la notte in bianco. Era sfinita e preoccupata. Sua madre era uscita a cercare un medico e non rientrava ancora. Ettore l’aspettava per portarla al Gran Premio di Merano. L’aveva allertata la sera prima. Era molto teso, aveva in gara un buon cavallo che però non era in condizioni ottimali.
«Pronto? Ettore, io non vengo.»
«Come sarebbe a dire, non vieni?»
«Il bambino, sta male.»
«Non è mai morto nessun bambino nel pieno di un Gran
Premio di Merano.»
«Dai. Non mi va di scherzare.»
«Stai mica piangendo? Non mi piacciono le donne che
piangono.»
«Sono stanca.»
«Lascialo con una cameriera.»
«Stacci tu con una cameriera.»
Finì così. Ettore Tagliabue uscì dalla villa di Monza deciso a trovare subito una donna di rimpiazzo. Non poteva sopportare di non essere assecondato. Scelse una soubrette. Era Elena Giusti, l’antagonista di Wanda Osiris, quella che cantava Dove vai se il cavallo non ce l’hai?
Tagliabue 6 Per Elena Giusti, Ettore fece costruire una piscina a forma di due cuori intrecciati, arricchita da una scultura in ceramica rossa di Lucio Fontana, che ancora adorna Villa Tagliabue.
Soldi Maria spendeva tanto per il suo Marco e tanto per essere bella, ma era riuscita ugualmente a risparmiare abbastanza da acquistare una casetta. E perfino a mettere qualcosa da parte.
Proposta di matrimonio Alla fine, un diamante arrivò anche per Mariuccia, accompagnato da una proposta di matrimonio. Finalmente, Mariuccia era in procinto di sposarsi. Era il 1953 e lei stava per compiere trentadue anni, pur dichiarandone venticinque e attribuendone quattro al figlio di sei. Il suo fidanzato – il cui nome è stato risucchiato nell’incrollabile silenzio di Maria sul proprio passato –morì in un incidente d’auto prima di portarla all’altare.
Malattia nervosa In poco tempo, insorsero in lei i sintomi di una malattia nervosa: «fragilità psichica»; «priva di capacità mentali»; «incapace di intendere e di volere»; «prostrazione fisica e psicologica »... Almeno, questo è scritto nelle memorie che Maria stessa avrebbe presentato in tribunale nella causa intentatale
dal marito tedesco.
Reza Pahlavi Gigliola Curiel, che nel 1953 era stata la prima sarta italiana a portare negli Stati Uniti il prêt-à-porter, già girava l’Europa con le sue sfilate. Una sera, ospite dell’Hotel George V in occasione di un suo défilé, fece colpo sullo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi. Rientrando in camera, Gigliola trovò la vasca da bagno colma di rose rosse, innaffiate di Arpège, il profumo da lei prediletto e sul quale lo scià aveva espresso appassionati apprezzamenti. Leggenda vuole che Gigliola si chiuse a chiave nella stanza e rispedì al mittente tutte le rose. Nella suite che lo scià divideva con la consorte Soraya.
Umberto Marzotto Alle otto e mezzo del mattino del 18 dicembre 1954, a Milano, nella chiesa del Santo Sepolcro, Marta Vacondio aveva sposato il conte Umberto Marzotto, secondogenito del cavalier Gaetano. Aveva conosciuto il suocero solo la sera prima, all’Hotel Duomo, tremante di paura. Pensava di essere stata portata a Milano dal fidanzato solo per le presentazioni, ma l’indomani si era ritrovata in chiesa, con lo stesso vestito in cachemire beige che indossava il giorno precedente.
Conte de Beurges 1 Dopo molti mesi di solitudine Maria aveva lasciato il figlio Marco alla madre, ed era partita per un lungo weekend con le amiche. Destinazione: Costa Azzurra. Era stato proprio in una di quelle chiassose soste notturne che aveva conosciuto Udo Arnim Joseph Arnold Franck, conte de Beurges, «un aristocratico» aveva soppesato Mariuccia. Udo era tedesco, però parlava divinamente il francese, con una voce bassa e roca e un accento leggermente affettato. Mariuccia era intimorita e insieme divertita da quell’uomo di quarantacinque anni, più grande di lei, estroverso, spiritoso, con l’allegria di un ragazzo e l’andatura dinoccolata di chi è abituato ad attraversare la vita senza guadagnarsela. Indossava sempre abiti gualciti come possono esserlo solo quelli dei veri signori e portava al dito mignolo uno chevalier.
Conte de Beurges 2 Ogni tanto, Udo spariva per qualche settimana, per seguire gli affari di famiglia in giro per l’Europa. Prima del conte de Beurges, aveva avuto per patrigno il Rosenthal delle porcellane tedesche, perciò, oltre a occuparsi di un’azienda di vini, aiutava il fratellastro Philipp Rosenthal. Quando tornava da Mariuccia, era carico di regali: portava gioielli, vestiti e borse per lei e abiti, liquori rari, scarpe e quadri per sé.
Incinta Sei mesi dopo, Maria era già incinta. E lasciò il suo lavoro di modella. Non fu un figlio programmato, ma nemmeno del tutto indesiderato. Tant’è vero che già nel 1956 Mariuccia in dolce attesa, sua madre Sandrina e il piccolo Marco cominciarono a soggiornare per lunghi periodi nella casa di Udo a Juan-les-Pins e in un’altra sua tenuta, a Bolzano, dove c’era l’azienda vinicola. Verosimilmente, dunque, Udo non reagì con particolare insofferenza all’idea di diventare padre. Era evasivo solo quando Mariuccia gli chiedeva di sua madre, la comtesse de Beurges. Maria non ci teneva a incontrarla, anzi. Le faceva paura lo sguardo altero con cui la scrutava da tutte le fotografie. Ed era ovvio che la contessa non avrebbe gradito per nuora una ragazza madre. Quando si ritrovò incinta, si mise a pregare di venir presentata alla suocera il più tardi possibile: una gravidanza
fra i trentaquattro e i trentacinque anni, a quei tempi,
era un pericoloso azzardo. Maria passò alcuni mesi a letto per cautela, si vedeva brutta, sformata, e proprio non ci teneva a conoscere la contessa in quelle condizioni.
Udo Maria Udo Maria Gregory Franck de Beurges nacque il 23 ottobre 1956, alle 7.50. Era un bambino grosso e sano, che somigliava tutto a sua madre. Udo pagò 57.000 franchi per la clinica, 28.480 per la levatrice e 97.500 per rimettere in piedi Mariuccia, per giorni affidata alle arti del dottor Roger Brandeis e incapace di alzarsi dal letto. Ancora malconcia, Maria convocò Cicci per compilare il biglietto con cui rendeva partecipi amici e conoscenti del lieto evento. “Le jour du 23 Octobre 1956, à Antibes, est né Udo Maria Gregory Franck de Beurges”.
Nozze Diciassette mesi dopo la nascita del bambino, il 20 marzo 1958, Udo e Maria divennero marito e moglie, a Milano, in municipio. Erano presenti le amiche della sposa, le sue sorelle, sua madre, ma non la suocera. «Tua madre verrà?» aveva chiesto Mariuccia a Udo. «Le cerimonie la annoiano. Mi sono risparmiato di avvertirla».
Suocera Con il passare del tempo, Maria capì che il conte l’aveva sposata solo per toglierle il bambino. Fra loro, si era messo di mezzo la madre di Udo, la contessa Maria Carolina Franziska Frank vedova Rosenthal e vedova de Beurges. Il giorno in cui alla contessa giunsero accurate informazioni su Mariuccia, la dama di compagnia dovette sorreggerla e somministrarle i sali. La gentildonna si confinò nel proprio letto, lamentò un inesistente attacco di cuore e Udo dovette correre al suo capezzale. Appena la contessa de Beurges seppe della relazione con Maria, tagliò i fondi a Udo, lasciando che seminasse conti un po’ ovunque, senza saldarglieli. Alla nascita di Udo Maria Gregory, maman si fece ricoverare in clinica lamentando un altro crepacuore. E lì decise che bisognava prendersi il bambino ed eliminare la madre. Fu lei a pretendere che il piccolo rimanesse a Juan-les-Pins; e fu lei che cominciò a spedire Udo da una città all’altra d’Europa, inventandosi incontri di lavoro per la Rosenthal, al solo scopo di tenerlo lontano da Mariuccia. Dopo il matrimonio fu lei a stabilire che Udo sarebbe andato a vivere in Sudafrica, pena il taglio dei viveri a oltranza. E che anche il bambino sarebbe vissuto lì.
Separazione Il 7 settembre 1959, Maria depositò la sua richiesta di separazione presso il tribunale di Milano, auspicando che, in attesa della sentenza, fosse disposto che Udo junior restasse dov’era, con Madame Brosst. Voleva essere tutelata da ogni trasferimento del bambino. Il 23 settembre 1959, mercoledì, considerata l’assenza di Udo Franck de Beurges, il tribunale di Milano si trovò nell’impossibilità di intraprendere il previsto tentativo di conciliazione e dichiarò la separazione di fatto dei coniugi, affidando il bambino alla madre. Maria impazzì di gioia. Però, doveva trovare il modo di riprendersi Udo junior e non voleva farlo finché l’ex marito era in Costa Azzurra. Purtroppo, Udo senior si fermò abbastanza a lungo da venire a sapere che Maria aveva ottenuto la separazione e l’affido del figlio. Sua madre, la contessa Rosenthal de Beurges, quando
ne venne informata, fu perentoria: si doveva prendere il
bambino e portarlo via. Subito. Il 17 ottobre, il conte ubbidì. Liquidò Madame Brosst e prese con sé Udo Maria Gregory. Il 23 ottobre 1959, Maria, con la Lancia Flaminia carica di regali di compleanno (il figlio quel giorno compiva tre anni) trovò Villa El Djézaïr sbarrata e si sentì come se le avessero strappato il cuore dal petto. Udo Franck de Beurges, nel frattempo, aveva portato il bambino in Sudafrica.
Segreti Quando Maria morirà, nel 2009, nessuna delle persone a lei più vicine, salvo quelle che erano state testimoni dirette della sua prima vita, aveva mai sentito parlare di un figlio in Sudafrica o di un ex marito tedesco.
Casinò Una sera, al casinò di Montecarlo, Cristina Bozzo Magliano presentò a Maria, che ancora stava con Udo, Renato Angiolillo. Il senatore, non bello, ma sfrontato e imponente, un monocolo con la montatura in oro all’occhio sinistro, era elegantissimo nel suo smoking tagliato da un sarto napoletano.
Leggende Al tavolo del baccarà Angiolillo vinse tre mani di seguito.
«Senatore, me l’avevano ben detto che lei è un giocatore
fortunato.»
«Abile, contessa. La fortuna è dei mentecatti.»
«Pardon. Devo allora dedurne che sia falsa anche l’altra affascinante leggenda che la riguarda.»
«E quale sarebbe?»
«Che lei giri con le tasche piene di pietre preziose, i suoi
portafortuna.»
«Questa sì che è bella! No, quello che se ne riempie le tasche è mio fratello Amedeo, il più napoletano di noi due. Io ne tengo una sola alla volta, ma per il puro piacere di ammirarla. Se ha voglia di accompagnarmi alla roulette e se vinco,
gliela mostro.»
Puntò sull’11 e il 10. Uscendo dall’Hotel de Paris, dove abitualmente prendeva alloggio, s’appuntava sempre i due numeri che segnava l’orologio di fronte all’albergo e giocava quelli. Andò bene. E quando infilò la mano nella giacca, ne venne fuori un piccolo lucente rubino del quale, nell’euforia dell’ulteriore vincita, fu lieto di fare omaggio a Mariuccia. Poi le chiese di rivederla l’indomani, per una passeggiata.
Primo incontro Nonostante Maria si presentasse già come contessa de Beurges, e più tardi racconterà di aver conosciuto Angiolillo nel 1959, quel loro primo incontro avvenne, in realtà, nel 1957, addirittura un anno prima del matrimonio con Udo. Lo conferma Ljuba Rosa che quell’anno sposò Ettore Tagliabue e fece il viaggio di nozze a Montecarlo. Fu proprio lì, a passeggio sul porto, che Ljuba incontrò Maria e Renato. Tagliabue e Maria avevano definitivamente superate le reciproche incomprensioni, perciò quella mattina decisero di proseguire la promenade tutti insieme. Ljuba racconterà che a un certo punto si fermarono di fronte alla vetrina di Hermès. Renato entrò, si fece tirare fuori tutte le borse e scelse la più bella per regalarla a Maria, non prima di avervi fatto apporre le iniziali di lei in oro: era una grossa Kelly nera, il modello di Hermès lanciato nel ’56 da Grace, principessa di Monaco. L’acquisto fu subito emulato da Tagliabue, il quale ne comprò una gemella per la sua fresca sposa. Postdatare il suo primo incontro con il senatore Angiolillo, sembrò sempre opportuno a Maria, che molto teneva alla sua reputazione.
Uniti Dovette passare del tempo, comunque, almeno due anni, prima che i due decidessero di unire i loro destini. Anche se nel ’57 l’unione di Maria e Udo era già in crisi e loro non si erano nemmeno sposati.
Malaparte Sul letto di morte, Curzio Malaparte blaterava le cose più diverse: affermava di essere ateo, si dichiarava figlio del diavolo, sosteneva di essere buddista.
Seminario Renato Angiolillo era un personaggio già da bambino. Nato il 4 agosto 1901, a Ruoti, un paesino in provincia di Potenza, ultimo di quattro fratelli e quattro sorelle, figlio di un avvocato, a tredici anni orecchiò di essere stato destinato al seminario. Salì, dunque, su un treno a carbone e scappò di casa. Scese a Napoli, cercò il fratello Amedeo e ottenne di poter restare con lui.
Morti Renato Angiolillo, all’università, s’inventò un commercio inusuale: la sera, andava al comune, controllava chi fosse morto e si presentava a casa dei parenti per vendere dei libricini di preghiere sul cui frontespizio aveva fatto incidere il nome del caro estinto. Con i morti, ebbe sempre una certa dimestichezza commerciale. Si mise a vendere ai familiari dei defunti anche le giacenze dell’editore Laterza, fingendo che i libri fossero stati ordinati prima della dipartita. E, più avanti, «Il Tempo», il quotidiano da lui fondato, si specializzò in necrologi a pagamento. Diversamente dagli altri giornali, che quasi li nascondevano, Angiolillo li pubblicava di spalla in seconda pagina, rendendoli evidentissimi. Comperare il giornale diventava quasi un obbligo per la nobiltà e la borghesia romane che volevano tenersi aggiornate sui lutti cittadini. «I muorti so’ ’a vita do’ giornale» diceva Angiolillo.
Antifascista 1 Renato Angiolillo, giovanissimo, aveva sposato la figlia di un possidente terriero sorrentino, Olga De Gregorio, che gli diede due eredi, Mario e Gaetano. Gli anni di Mussolini li visse rocambolescamente, poiché, da liberale antifascista, continuò a scrivere quel che gli pareva. Scampò a un primo mandato di cattura grazie a una soffiata del conte Garzilli, podestà di Sorrento, il quale informò del pericolo suo suocero, cosicché lui e Olga, incinta di Mario, poterono riparare a Messina. La coppia rientrò poi a Napoli, e lì Renato fondò «Il Vecchio Paese». In poco tempo, ne fece un’importante voce dell’antifascismo e lui finì al confino a Bari con il divieto di scrivere sui giornali. Sulle prime aprì una pizzeria, quindi si inventò il mestiere di pubblicitario, all’epoca pressoché inesistente, e pubblicò un volume, Puglia d’oro, in cui illustrava il
profilo delle aziende e degli imprenditori pugliesi, ricavandone un bel po’ di soldi. La capacità di arrangiarsi e far denaro nei modi più disparati non lo avrebbe mai abbandonato. Un giorno, mentre assisteva a un dressage, cioè a una gara di addestramento per
cavallo e cavaliere, un concorrente si sentì male, e lui, che non aveva mai montato nessun cavallo, si offrì di sostituirlo. Non si trattò di una goliardata fine a se stessa: il regolamento assicurava un buono in denaro al cavaliere che avesse superato iprimi duecento metri. Renato, abbracciato all’equino, riuscì nell’impresa: volò nei campi solo a traguardo raggiunto, portandosi a casa l’assegno.
Antifascista 2 Quando la moglie Olga morì di un’epatite fulminante a soli trentatré anni, Renato mise i figli in collegio a Cava de’ Tirreni e si stabilì a Roma, dove lavorò nel cinema, poi trafficò con la stampa clandestina e si scontrò di nuovo con il regime. Stavolta, evitò la cattura grazie alla nuova compagna, l’austriaca Olga Tschenet, che intrattenne in tedesco le SS che le si erano presentate alla porta, mentre lui scappava dai tetti, rifugiandosi dal vicino di casa Peppino De Filippo, suo sodale di partite a carte. In quell’appartamento in via Eustachio Manfredi al 17, a qualche civico dal suo che abitava al 31, Renato Angiolillo restò a lungo, avendo a disposizione un armadio in cui nascondersi alla bisogna.
Duemila lire Fu a un tavolo di poker con i De Filippo e altri compagni di giocate che Angiolillo sbancò il proprietario della tipografia Il Vascello. Vinse duemila lire in contanti e un mezzo chilo di cambiali: era il capitale con cui avrebbe fondato «Il Tempo».
Firme Angiolillo rese subito grande «Il Tempo», anche accaparrandosi, o scovando, le migliori firme dell’epoca: «il conte rosso» Guido Piovene, Luigi Barzini junior, Enrico Falqui, Curzio Malaparte, Vittorio Zincone, Gian Luigi Rondi, Giuseppe Prezzolini, Leo Longanesi. Scrivevano per lui fieri comunisti, come Alberto Moravia, e anche ex fascisti e repubblichini, incluso Pino Rauti, futuro segretario dell’Msi, nonostante il giorno in cui il cadavere di Benito Mussolini venne esposto a piazzale Loreto, «Il Tempo» avesse titolato: Giustizia è fatta.
Senatore Nel 1948, Renato Angiolillo fu eletto senatore in una lista indipendente, con la complicità della Dc, che per agevolarlo, aveva rinunciato a presentare la propria. Si era poi iscritto al Pli e si ricandiderà, senza successo, nel ’53, poi chiudendo definitivamente con la politica attiva. Tuttavia, l’appellativo di «senatore» gli sarà sempre tributato in segno di rispetto.
Salumiere Renato Angiolillo era maestro nel cogliere ogni minima mutazione degli umori del Paese. Diceva: «Fare i giornali è come fare il salumiere. Devi tenere sul banco gli ziti, gli spaghetti e i rigatoni, perché ogni cliente ha la sua preferenza. Ma, in ogni momento, devi sapere qual è il cliente migliore e devi essere pronto a dargli quello che vuole». E ancora: «La verità non esiste: esiste solo quello che vogliono i lettori».
Ricco Diventato ricco in pochi anni, oltre a trasferire la sede del «Tempo» a Palazzo Wedekind, nel cuore politico di Roma vicino a Palazzo Montecitorio, Angiolillo aveva comprato Villa Torlonia, sull’Appia Antica, in quella che era all’epoca la Beverly Hills d’Italia, affollata di divi del cinema e di nuovi magnati. La tenuta gli piaceva perché era strategicamente a un passo dalle Capannelle e il senatore si fece vanto, quando aprì la sua scuderia,
la Don X, di poter portare i cavalli all’ippodromo sulle
loro zampe, risparmiando sul trasporto. Quei purosangue avevano nomi ispirati alla terminologia giornalistica come Elzeviro, Bodoni, Terza Pagina e Vignetta. Disco Rosso gli fece vincere il Gran Premio Città di Varese e Marino lambì il Gran Premio d’Italia.
Dormire Angiolillo dormiva quattro ore per notte, a volte
nella villa sull’Appia, più spesso al Grand Hotel.
Pietre La maharani di Baroda, figlia del maharaja di Pithapuram e moglie di Pratap Singh Gaekwad, ultimo maharaja di Baroda e ottavo uomo più ricco del mondo, la cui famiglia per secoli aveva regnato su quel pezzo d’India che custodiva le leggendarie miniere di Golconda da cui si estraevano le pietre preziose che ornavano le corone dei sovrani di tutto il mondo. Quando, nel 1947, l’India aveva raggiunto l’indipendenza dall’Impero britannico, suo marito aveva dovuto rinunciare al trono e la coppia aveva stabilito la propria residenza a Montecarlo, dove aveva trasferito molti dei tesori di Baroda. La maharani, per vivere all’altezza dei fasti millenari del casato, ogni tanto vendeva qualche gemma.
Lei e la duchessa Wallis Simpson si detestavano ed evitavano di salutarsi. Sita Devi, così si chiamava la principessa indiana, aveva infatti ceduto a caro prezzo a Harry Winston un paio di cavigliere di smeraldi e diamanti, trasformate dal gioielliere in collane e poi acquistate dalla duchessa di Windsor. Nel 1957, a un ballo newyorkese, Wallis le sfoggiava al collo e alcune ospiti si stavano complimentando con lei, quando la maharani s’avvicinò al gruppo di signore ed esclamò con nonchalance: «Quelle pietre ornavano giusto i miei piedi non troppo tempo fa». La duchessa non glielo perdonò mai.
Proposta di nozze Angiolillo chiese a Maria di sposarlo, durante un viaggio in treno, offrendole un anello con una pietra gigantesca. Lei gli disse: «Fammici pensare, Renato».
Villino Giulia Quando Maria vide il Villino Giulia affacciato sulla scala di Trinità dei Monti, all’inizio del 1960, ne restò
incantata. La casa era tutta un’infilata di saloni, ricoperti
da pavimenti in marmo bianco di Carrara bordati di greche ocra o verdi, arricchiti da colonne in marmo verde del Brasile. Le pareti erano ornate di stucchi e antichi bassorilievi. Ogni sala aveva un camino. Visitando il piano più alto, il terzo, Maria scoprì due grandi camere da letto, munite di stanze guardaroba e bagni dai colori leziosi, uno rosa e uno azzurro. «Allora, Mariu’. In questa casa io devo ricevere e mi serve una moglie. Ti sei decisa?» le chiese quel giorno il senatore, piantandosi in mezzo alla stanza da letto padronale. «Che ruvidezza, Renato! Mi stai proponendo un matrimonio d’amore o un rapporto d’affari?» «Ti sto proponendo di essere la signora di questa villa e di questo cuore.» «Adesso va meglio.» «Mariu’, la vecchiaia avanza, la passione passa, ma i patti, quando sono chiari, restano.» «Sei un gran personaggio...» «Allora?» «Allora, penso che in questa casa potremo essere una splendida coppia.» «Affare fatto, dammi la mano.»
Matrimonio Il 28 aprile 1960, alle ore dieci, Maria e Renato si unirono in matrimonio nella basilica di Santa Maria sopra Minerva. Celebrava monsignor Marcello Magliocchetti, presidente del tribunale di appello del vicariato di Roma, già cameriere segreto soprannumerario di Sua Santità Pio XII. I testimoni erano il presidente del Consiglio Tambroni e la
quarantunenne Maria Di Bernardo, moglie di Franco Palma, proprietario della Squibb, l’azienda che produceva il celebre dentifricio, quell’anno primo contribuente di Roma, con un reddito dichiarato di centocinquantasette milioni di lire. Il matrimonio di Maria, di fatto, era semiclandestino (era ancora sposata con l’altro).
Arcipapessa Isabelle Colonna, vedova del principe Marcantonio Colonna, conosciuta anche come l’Arcipapessa o «la regina supplente». I pranzi dell’Arcipapessa erano leggendari, impostati come in un altro secolo. Le sedie accostate al tavolo da pranzo avevano la spalliera alta, la doppia sella di vitello giaceva su un vassoio quadrato che i camerieri – uno ogni quattro commensali – dovevano tenere con la sola mano destra, lasciando la sinistra appoggiata alla schiena. Fra i trenta ospiti le signore indossavano l’abito lungo, come l’inflessibile padrona di casa.
Ospiti 1 In una delle poche interviste che rilasciò nella sua vita, Maria, ormai da tempo signora Angiolillo, quando Alain Elkann le chiese chi fossero stati gli ospiti della sua prima festa al Villino Giulia, rispose snocciolando sei nomi di politici fra i più
importanti dell’estate del 1960: «Saragat, Segni, Fanfani, Merzagora, La Malfa, Malagodi». Ma in verità non furono quelli i primi ospiti del Villino Giulia. All’inizio, non senza un certo rammarico, la neosignora Angiolillo si ritrovò la casa invasa da giornalisti, scrittori e gente di cinema. Il che non corrispondeva esattamente alle sue ambizioni.
Ospiti 2 L’anno in cui Maria approdò a Roma e prese possesso della casa su piazza di Spagna, erano ospiti abituali Vittorio De Sica, Totò, i fratelli De Filippo, Aldo Fabrizi e Federico Fellini, già buoni amici del marito. Anche Federico Fellini si vedeva spesso.
Acrobazie Maria a stento si trattenne dallo sbottare la
volta che qualcuno, a casa sua, prese a spettegolare sul rientro a Roma di Roberto Rossellini. Durante un viaggio in India, il regista si era innamorato di Sonali, sposata e già madre, e fin sulla via del ritorno aveva deciso di andare a vivere a Parigi con la bella indiana, provocando un enorme scandalo. Fellini raccontava di aver chiesto al collega quali eccezionali doti possedesse Sonali per avergli fatto dimenticare addirittura Ingrid Bergman. E Rossellini, con sguardo sognante, gli aveva risposto: «Ha la saggezza antica dell’Oriente e la calma profonda dell’Oceano Indiano». A quel punto Federico gli
aveva chiesto a bruciapelo: «Va bene, ma come scopa?». E lui, ringalluzzendosi, aveva esclamato: «Ah, la vedessi che acrobata! Tutte le posizioni conosce... Tutte».
Fanfani Poco dopo la caduta di Tambroni, Angiolillo riuscì ad avere a cena tutti coloro che avevano affossato colui che solo una manciata di mesi prima era stato suo testimone di nozze: il vittorioso Fanfani e i due suoi principali sostenitori, il segretario del Psdi Giuseppe Saragat e il segretario del Pli Giovanni Malagodi, oltre che il presidente del Senato Cesare Merzagora; insomma, la formazione che a Maria piacque ricordare nell’intervista con Elkann e che includeva gli autorevoli nomi del ministro degli Affari esteri Segni e del direttore della «Voce Repubblicana» Ugo La Malfa.
Menu Per quella cena Maria aveva preparato un menù francese, come sapeva essere consuetudine dalla principessa Isabelle Colonna, nella cui nobile dimora si parlava e si mangiava solo francese. Si era informata attraverso la servitù. E si era procurata da un antiquario sontuose tovaglie in pizzo Valencienne, simili a quelle con le quali si apparecchiavano i tavoli a Palazzo Colonna.
Moglie Durante quello e gli altri primi pranzi, Renato continuava a introdurla agli ospiti dicendo: «Ti presento Maria». Non «mia moglie», soltanto «Maria». Renato non aveva rivelato d’essersi sposato nemmeno ai figli.
Beneficenza Maria prese l’abitudine di far avere la colazione ai barboni che stazionavano in piazza di Spagna. E poi di comprare qualunque cosa si vendesse agli eventi di beneficenza promossi dalle nobildonne romane: sculture, quadri, vecchi centrini all’uncinetto. Lo faceva sia che il ricavato andasse agli orfanelli romani, ai poveri dell’India, o alle missioni cattoliche in Africa, ma agiva discretamente, mandando magari a pagare
un maggiordomo. La neosignora Angiolillo prese anche a fare beneficenza alla basilica di Santa Maria sopra Minerva, quella dove s’era sposata. Elargiva donazioni anonime e sempre generose.
Cero Ogni tanto, andava ad accendere un cero davanti al sepolcro di Santa Caterina da Siena e pregava. Pregava per il piccolo Udo che si trovava chi sa dove, pregava per Marco rimasto a Milano con la nonna, e pregava per sé, per la sua anima perduta.
Mensa Renato amava apparire tirchio, ma non lo era affatto. Il giornalista Igor Man, suo corrispondente per «Il Tempo», ricordava spesso di quando, agli albori del giornale, pretendeva che i redattori andassero a cena con lui dal costosissimo Nino, in via Borgognona. Angiolillo non si offriva di pagare il conto, però, e nessuno voleva seguirlo. Così, istituì «la mensa»: i giornalisti gli versavano le trecentocinquanta lire che avrebbero pagato alla Taverna Margutta e lui consentiva loro di mangiare da Nino «senza limiti», purché non prendessero per frutta la banana. Piero Accolti, Enrico Falqui, Carlo Belli e lo stesso Igor Man obbedivano senza fiatare, con sua grande soddisfazione. Solo Adriano Grande, il poeta fondatore della rivista «Circoli»,
distratto com’era, regolarmente afferrava dal cesto la più gialla e grossa. Angiolillo sbiancava d’ira. Sulla via del ritorno al giornale, poiché allora si chiudeva anche alle due o alle tre di notte, mentre Grande confabulava con Falqui, ringhiava: «Quello là, quel poeta di merda, io lo caccio, se tocca ancora le banane».
Befana Angiolillo aveva istituito «La Befana del Tempo» per elargire doni ai bambini, e con Maria aveva fondato «Il cuore di Roma» per premiare i cittadini onesti, specie quelli che collaboravano con la giustizia.
Pisello Quando Angiolillo aveva saputo che il cronista Moggia faticava a mettere insieme il pranzo con la cena perché aveva undici figli, per sostenerlo senza umiliarlo, aveva improvvisato una finta scommessa: «Offro centomila lire a chi di noi ha il pisello più lungo» aveva proclamato. Dopodiché, impantanato nell’impossibilità di procedere alla verifica, aveva decretato vincitore «il più prolifico».
Pazzo «Quando ho cominciato a fare “Il Tempo”, avevo in tasca solo duemila lire. Tutti mi davano del pazzo» (Angiolillo).
Henry Ford A Montecarlo, Cristina Vettore parlava solo di Henry Ford: «Henry mi ha promesso che porta il suo panfilo in Costa Azzurra»; «Henry è un genio: dirigeva la Ford a soli ventisette anni»; «Henry è un amore: mi guarda estasiato, come se fossi una dea». Al ristorante chiedeva pane di soia, perché Henry mangiava solo pane di soia; al bar esigeva latte di soia perché Henry beveva solo quello. Quando la vedevano arrivare, i camerieri tremavano.
Princie Mentre tutti erano convinti che Angiolillo si fosse rovinato col gioco, lui un giorno partì, dopo tre giorni tornò, e invitò Maria a bere un Martini al Cafè de Paris. Mariuccia sentì che il bicchiere del suo Martini pesava più di quanto avrebbe dovuto e tintinnava. Armeggiò nel bicchiere e, aiutandosi con un lungo stecchino per le olive, estrasse una catena d’oro dalla quale
pendeva un enorme diamante di un rosa mai visto. Era il famoso Princie, 34,65 carati, taglio cuscino, due centimetri per due e mezzo. Colorazione IIa: la più pura.
Perdita A Capodanno del 1961, Renato Angiolillo, in una sola sera, perse, pare, un centinaio di milioni, una cifra enorme per l’epoca. Maria lo scortò in camera, muta, e non gli rivolse la parola per giorni.
Miracolo italiano Erano gli anni del boom economico, il «miracolo italiano». Nel 1960, il «Financial Times» aveva tributato alla lira «l’Oscar delle monete». Fra il 1953 e il 1961, la produzione industriale aveva segnato un più 84 per cento, mentre i salari erano cresciuti del 49 per cento. Il parco auto degli italiani era raddoppiato, la vendita di abbigliamento e scarpe triplicata, la produzione petrolchimica aumentata di ventitré volte in otto anni. Maria era rimasta impressionata da quanto le aveva detto, una sera al casinò, Giovanni Borghi, «il signor Ignis»: nel 1957 erano usciti dalle fabbriche italiane trecentosettantamila frigoriferi, ma entro il 1963 ne sarebbero stati prodotti un milione e mezzo l’anno.
Livree Si respirava ottimismo, fiducia, voglia di spendere. Maria non volle essere l’unica ad angustiarsi. Così si adoperò affinché i suoi pranzi fossero all’altezza di quelli di Isabelle Colonna. Selezionò lei stessa il personale, scegliendo camerieri che avessero lavorato dalla principessa o al Quirinale, e fece cucire per tutti delle livree su misura, verdi e con i fregi dorati, di foggia ottocentesca.
Il Rieccolo Spesso Fanfani rovinava al suolo e quando gli «amici» accorrevano sperando di vederlo sfracellato per sempre, lui apriva un occhio, abbozzava un mezzo sorriso che avrebbe spaventato Satanasso in persona e diceva: «Rieccomi». Da qui il soprannome che gli diede Montanelli: il «Rieccolo».
Ministro dei Trasbordi Gronchi aveva un’amante a Livorno e, con l’auto del Quirinale era solito partire per Antignano, trecento chilometri a nord di Roma, dove balzava sulla berlina del ministro dei Trasporti, suo amico, per raggiungere la signora in incognito.
Per questo Montanelli aveva coniato il nomignolo di «ministro dei Trasbordi» per il complice del capo dello Stato.
Chi conta Nei primissimi anni Sessanta, si alternarono in casa Angiolillo quasi tutti i maggiorenti della Dc, senza distinzione di corrente. Tambroni fu ospite assiduo fino alla morte avvenuta nel ’63. Fedele al motto «a casa mia entra solo chi conta», Angiolillo tenne la barra su Fanfani virando al momento opportuno su Andreotti, diventato presto lo sponsor principale del «Tempo».
Voti Deputato a ventotto anni e subito dopo sottosegretario alla Presidenza con De Gasperi, il giovane Andreotti acquistò in breve un grande potere. Legatissimo al Vaticano (da Pio XII a Benedetto XVI), accompagnava sempre De Gasperi a messa.
Si diceva che il presidente del Consiglio parlasse con Dio e il suo giovane allievo con il prete. «È vero» ammise Giulio più tardi, «ma il prete vota, Dio no.»
Livia Sposato nel ’45 con Livia Danese, Andreotti ebbe sempre fama di marito fedele, anche se da giovane sottosegretario allo Spettacolo fu tentato da molte attrici. Quando uno degli autori di questo libro dopo molto tempo lo riferì alla moglie, la signora
rispose, con ironia: «Vuole farmi venire dei sospetti dopo sessant’anni di matrimonio?».
Mix A casa Angiolillo, il mix dei primi anni era composto da ambasciatori, nobili, politici, grandi imprenditori. I principi, tranne i Pallavicini, c’erano tutti: i Belmonte, gli Orsini, i Ruspoli, i Boncompagni, gli Aldobrandini, i Torlonia, i Lancellotti, gli Alliata, i Del Drago, i Potenziani, i Giovanelli e c’era, talvolta, Sua Altezza Reale il duca Enrico d’Orléans, pretendente al trono di Francia, con la gentile consorte, Maria Teresa di Wurttemberg.
Isabelle Colonna Isabelle Colonna (l’Arcipapessa), che poco o nulla si muoveva dal suo palazzo, arrivò nella casa della Trinità dei Monti il 4 dicembre 1961. L’evento aveva dell’eccezionale e Maria non ci avrebbe mai sperato. La collocò al posto d’onore, fra il marito Renato e Randolfo Pacciardi, che era stato il primo vicepresidente del Consiglio accanto a De Gasperi. Quella sera, la signora Angiolillo era elegantissima, in lungo, aveva un tono adeguatamente composto, gioielli splendidi, con orecchini a goccia di smeraldo che dovevano superare i 40 carati e un anello con un altro smeraldo da 20 carati. I camerieri erano impeccabili, il placement degli ospiti era intelligente. Isabelle Colonna decise che la ragazza era da sgrezzare, ma aveva buone
potenzialità.
Serate diverse Considerata l’importanza degli invitati e il rilievo che andava assumendo il suo salotto, per Maria ogni pranzo era una vera fatica. E ormai ne dava uno al mese, ogni volta con dodici ospiti. Stremata dall’ansia, temeva fino all’ultimo che mancasse qualche commensale, o si creasse qualche incidente diplomatico. Compilando le liste degli ospiti ai pranzi, imparò a conoscere la complessa geografia delle alleanze, delle amicizie e delle inimicizie. Così come aveva appreso che fra i Pallavicini e i Colonna era necessaria una scelta di campo, imparò, per esempio, che Fanfani e Andreotti andavano invitati in serate diverse.
Libro dei pranzi Il primo libro dei pranzi fu inaugurato da Maria il 13 aprile 1961. Maria aprì la copertina verde e, sulla prima pagina di sinistra, appuntò la data, l’indicazione che si trattava di un pranzo e non di una colazione, e riportò menù e i vini. Ovvero: crema al pomodoro, sfoglia Trinità dei Monti, stracotto di manzo, asparagi di Albenga, salsa tartara, torta Maria Luisa, frutta assortita. Il bianco era un Traminer non meglio precisato, ma Maria imparò dalla seconda cena a non lasciarsi sfuggire alcun dettaglio. Il rosso uno strepitoso Cheval Blanc 1954, lo champagne il Krug 1949. Nella pagina di destra, dov’era stampata la sagoma di un tavolo, segnò i nomi degli ospiti e riportò il placement di ciascuno. A quel pranzo, l’ospite di maggior rilevanza fu il politico più di ogni altro intimo di Renato. Giovanni Leone, presidente della Camera e futuro presidente della Repubblica, conosceva Angiolillo dai tempi dell’università.
Annullamento A un certo punto Udo fece sapere a Maria che le avrebbe accordato l’annullamento solo se lei avesse acconsentito a non veder mai più suo figlio e a non cercarlo. Al bambino avrebbero detto che era morta. La richiesta di annullamento fu inviata al tribunale svizzero di Moesa due giorni dopo, l’11 novembre. Maria dichiarò che nel periodo in cui aveva incontrato Udo, e ne era diventata la moglie, era incapace di intendere e di
volere. Sostenne che la morte dell’uomo che avrebbe dovuto sposare, nel 1953, le aveva scosso profondamente i nervi, causandole disturbi psichici. Il 24 ottobre 1962 i giudici di Moesa dichiararono nullo il matrimonio, affidarono il bambino al padre in via esclusiva, e condannarono Maria a pagare le spese del processo.
Matrimonio registrato Il matrimonio con Angiolillo poté essere registrato solo nel 1964, quando la sentenza di annullamento fu finalmente riconosciuta dal tribunale di Milano.
Andreotti e Fanfani Il 13 maggio 1964, alla tavola degli Angiolillo, sedevano, caso straordinario, sia Andreotti, allora ministro della Difesa, sia Fanfani, provvisoriamente sprovvisto di incarichi di governo. Curatissimo il menù: ristretto di tartaruga, gamberi all’indiana con riso pilaf, noce di vitella tartufata con salsa périgourdine, asparagi d’Albenga in salsa avorio, soufflé ghiacciato con crema di lamponi. Si scelse il meglio della Borgogna con un Puligny-Montrachet 1953 e di Bordeaux con il consueto Château Cheval Blanc dello stesso anno. Il Krug era del ’55.
Il Tempo A metà degli anni Sessanta, Renato Angiolillo rientrò in possesso delle quote del «Tempo» vendute all’armatore genovese Fassio nel 1958. Era tornato in grande spolvero economico.
Consigli Maria seguì sempre i consigli dell’Arcipapessa, a volte appuntandoli nei suoi libri dei pranzi, come quando scrisse che il soufflé andava servito assieme alla torta o il tuorlo d’uovo messo nell’insalata grattugiato e non a pezzetti.
Settantasei stanze Il 23 maggio 1965, la colazione per i neosposi Ford. Cristina Vettore: «Ah, Mariuccia, tu non sai... Henry mi ha regalato una collana di diamanti e smeraldi grossi come chicchi d’uva e, a Detroit, ha una casa in stile georgiano... Devi venire a vederla: Grosse Pointe Farms ha set-tan-ta-sei stanze: settantasei.»
Selvaggia Presto Cristina passò per essere una delle donne più eleganti del mondo. Elegante, però «selvaggia, esotica, non addomesticabile», come la definì il biografo dei Ford Robert Lacey. Al primo ricevimento alla Casa Bianca, dal presidente Lyndon Baines Johnson, diede scandalo: di quella serata, due foto fecero il giro del mondo. In una, la spallina dell’abito eccessivamente scollato della signora Ford era scivolata, lasciandola in semitopless; in un’altra, sembrava che lei e Johnson si baciassero sulla bocca. Henry la rimproverò duramente: «Il nostro problema non è andare sui giornali, ma starne fuori» le disse. Quindi, le vietò di uscire per un anno. Ma durò appunto, solo un anno.
Tre tavoli A dicembre 1967, Maria imbandì tre pranzi di Natale da trentasei persone l’uno, nell’arco di soli nove giorni. Per la prima volta, inaugurò serate da tre tavoli, ognuno con decorazioni di fiori e frutta, denominandoli «uva», «sorbes» e «ciliegie marine». E, per la prima volta, dispose su ogni posto menù scritti in francese. L’aveva convinta Isabelle Colonna. Maria aveva timidamente obiettato che lei non era né di madrelingua francese né un’aristocratica, e che perciò aveva sempre preferito scriverli in italiano, ma l’Arcipapessa era stata lapidaria: «Noi siamo quello che mostriamo di essere».
Annus horribilis Il 1969 fu un annus horribilis per il senatore. Angiolillo dovette vedersela con un mercato che cambiava. La Poligrafici Editoriale di Attilio Monti rilevò «Il Telegrafo» di Livorno e «Il Giornale d’Italia» di Roma, raggiungendo le seicentomila copie di diffusione quotidiana. «Il Tempo» rischiava una nuova crisi e Angiolillo temette di perdere l’appoggio di Henry Ford. Si adoperò, dunque, per agevolare un’importante operazione di Henry in Italia: l’acquisto della Lancia da parte della General Motors. Mise in campo tutte le sue conoscenze, diede pranzi e colazioni al Villino Giulia, invitando tutti gli interlocutori che potessero rivelarsi utili al progetto di Ford. Convinse l’ambasciatore Egidio Ortona, che era un habitué della casa, a nominare Cristina commendatrice della Repubblica, in virtù degli aiuti da lei mandati nella Firenze colpita dall’alluvione. Nonostante i suoi sforzi, però, la Lancia passò alla Fiat di Gianni Agnelli.
Gioielli Fu allora che Renato Angiolillo decise di far periziare i gioielli che costituivano il tesoro di famiglia, comprati nel corso degli anni e spesso pagati a rate. Si rivolse a Harry Winston, il più grande gemmologo esistente. La lista includeva ventiquattro voci, ma una era una parure di quattro pezzi e tre voci indicavano «completi», senza specificare di quanti pezzi fossero
composti. La stima complessiva, firmata a Ginevra il 25 agosto 1970, era di 10.173.800 franchi svizzeri. Al cambio dell’epoca, facevano quasi un miliardo e mezzo di lire, esattamente 1.474.772.794 lire. Il senatore ebbe modo di fare un rapido calcolo: lo stipendio medio di un operaio ammontava, più o meno, a centoventimila lire, pari a un introito annuo di circa un milione e
quattrocentomila lire. Quel suo tesoro, dunque, valeva mille anni di lavoro di una persona comune.
Donne Maria capiva subito quando il marito s’invaghiva di un’altra: in quelle occasioni, non proprio rare, Renato non conteneva tutto il suo buonumore, si faceva più scanzonato e rincasava ogni sera tardissimo. «Ne ha una nuova» diceva Maria alla sorella. «Gliele fai passare troppo lisce» rispondeva Nuccia. E Maria: «È sempre stato così: le mogli devono fingere di non sapere. E quelle più intelligenti vogliono sapere il meno possibile, almeno finché non fiutano un pericolo serio».
Elena 1 Quando Renato si invaghì di una signora che chiameremo Elena, fu un dramma. Ricca e capricciosa, costei era dotata di un corpo spettacolare che le era valso in gioventù una particina in un film e un ottimo matrimonio. Era stata l’amante di un celebre ammiraglio, eroe di guerra: era molto attratta da quell’audace militare, ma se ne lamentava, perché, a suo dire, non aveva un portafoglio adeguato ai suoi gusti e alle sue necessità. Aveva perciò stabilito che il prossimo «amico» avrebbe dovuto essere ricco e generoso. Il primo regalo che suggerì a Renato fu un favoloso cappotto
di zibellino di Balzani, la pellicceria di lusso che serviva
tutta la Roma bene. Renato sborsò diversi milioni per comprarglielo. Dopodiché, Elena dovette affrontare il problema di giustificare agli occhi del marito l’arrivo in casa di un capo così importante. Chiese dunque al pellicciaio di spalleggiarla in uno stratagemma: disse al consorte che Balzani aveva uno zibellino che veniva via per niente e lo pregò di passare in boutique a vederlo. Il marito acquistò lo zibellino alla cifra irrisoria di mezzo milione di lire e, a sua volta, pregò il pellicciaio di non rivelare a Elena che lo aveva comprato dicendole invece che era già stato venduto a un altro acquirente: il tradito aveva intuito il trucco e si era preso lo zibellino per regalarlo a un’amante. Elena si ritrovò doppiamente beffata, senza la sua pelliccia e senza nemmeno poter rinfacciare al marito di averla regalata a un’altra. Mentre Renato Angiolillo, che aveva già saldato, finì alleggerito di parecchi soldi, e con un’amante furiosa, per giunta.
Elena 2 Con Elena, il senatore perse ogni prudenza che s’addicesse a un uomo sposato. La portava a cena a casa degli Alecce della farmaceutica, che conoscevano bene pure Maria, confidava le sue pene d’amore a principesse che poi riceveva a casa con la moglie. La sera tardi, si introduceva nella casa dell’amante, arrampicandosi sul balcone incurante dei suoi settant’anni e degli acciacchi dell’età.
Elena 3 Nei due anni in cui si frequentarono, Angiolillo coprì Elena di regali. Dopo la beffa dello zibellino, il primo fu una trousse d’oro zecchino, poi arrivarono i gioielli. Le donò un grosso brillante a forma di cuore, quindi un grosso smeraldo e ancora un grosso zaffiro, ordinato da Bulgari. Angiolillo pagò tutto a rate, come sempre era solito fare. Le aveva promesso che l’avrebbe adornata con pietre di ogni colore. Alla fine dell’estate del 1972, per completare il tributo di passione, alla collezione mancava ancora un rubino. Renato portò Elena a Ostia, alla Vecchia Pineta, e tirò fuori dalla tasca anche quello.
«Che cos’è questa nocciolina?» sibilò lei.
«Nocciolina? Sono 10 carati.»
«Non è all’altezza delle altre pietre: sei diventato tirchio,
vuol dire che non mi ami più!»
La belle Hélène, indignata, gettò la pietra per terra.
Il senatore dovette mettersi in ginocchio a cercare il rubino nella sabbia, furioso per essersi preso del tirchio. Quando infine lo recuperò, se lo rimise in tasca.
«Ah, mi tratti così? Sappi che questo rubino non lo vedi
più.»
«E tu non rivedrai più me.»
Renato Angiolillo realizzò che quella donna lo avrebbe fatto diventare matto, ma qualche giorno dopo, pur di non perderla, giurò a se stesso che presto le avrebbe comprato un altro rubino. Enorme.
Paura Stavolta era impossibile che Maria non sapesse della sbandata del marito. La stessa Elena, attraverso arzigogolati giri di amiche comuni, si premurava che fosse informata di ogni incontro e di ogni dono. Per la prima volta dopo dieci anni di matrimonio, Maria ebbe paura che Renato potesse lasciarla. Telefonava a Cicci anche cento volte al giorno e, a lui, rinfacciava
ogni ritardo, ogni disattenzione, ogni informazione maliziosa che le giungeva.
Aereo Angiolillo era terrorizzato dagli aerei: non ne aveva
mai preso uno
Neoplasia L’8 aprile 1973 Renato Angiolillo fu ricoverato alla clinica Valle Giulia e, il giorno dopo, i chirurghi intervennero a cranio aperto. Trovarono un voluminoso ematoma intracerebrale. Il 12 il senatore non aveva ancora del tutto ripreso coscienza e fu operato di nuovo. Il senatore fu dimesso dalla clinica il 6 maggio. Il 7 luglio, cadde il governo Andreotti II e Angiolillo venne nuovamente ricoverato: mostrava un’emiparesi alle gambe e un lieve rallentamento psichico. Per la terza volta, il 10 luglio, finì sotto i ferri. I chirurghi estrassero una neoplasia e non gli suturarono il cranio, nell’eventualità di un altro intervento. Morì alle 17.20 del 17 agosto.
Funerali Era il 18 agosto, ma ai funerali di Renato
Angiolillo sfilarono tutti: Fanfani, che era rimasto vedovo
l’anno prima e Andreotti, entrambi provvisoriamente senza incarico; il primo ministro Mariano Rumor, che da un mese e mezzo presiedeva un nuovo governo di centrosinistra; la First Lady del Quirinale donna Vittoria Leone. Arrivarono cinquemila fra telegrammi e biglietti di condoglianze. Il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon scrisse direttamente a Maria: «L’improvviso decesso di suo marito mi ha profondamente rattristato. Era un campione della libertà e della pace che godeva di altissima stima non solo in Italia, ma in tutto il mondo».
Testamento Subito dopo le esequie, venne il momento di aprire il testamento del senatore. Nello studio del notaio Franci, Maria apprese che Renato aveva lasciato la villa sull’Appia ai figli, il Villino Giulia a lei e si era preoccupato anche di confermare la lettera redatta nel gennaio 1961, in cui dichiarava che tutti i mobili e le suppellettili che ne costituivano l’arredo erano di proprietà della moglie. Le quote del «Tempo» andavano per due quinti a lei e per i restanti tre quinti ai tre figli. Del favoloso patrimonio in pietre preziose, valutato un miliardo e mezzo di lire, che il senatore aveva accumulato per il terrore di tornare povero, non si faceva menzione nel testamento. Per evitare le tasse, ovviamente. Questo comportava che i gioielli non restavano a Maria, ma agli eredi di sangue, ai figli. Quando Gaetano andò a trovarla e le chiese dove fossero i gioielli, lo guardò dapprima senza capire. Poi, ebbe un sussulto d’orgoglio: «Li ho sempre portati e continuerò a portarli finché muoio» gli rispose.
Costi Avere ereditato la splendida casa di Trinità dei Monti non faceva di Maria una ricca vedova, ma una vedova con molti costi da sostenere. Maria calcolò che i quattro o cinque miliardi scarsi che avrebbe incassato dalla vendita del «Tempo» non le sarebbero bastati per mantenere il Villino Giulia e sua madre fino alla fine dei suoi giorni. In più, era ossessionata dal pensiero
di Marco: suo figlio ormai lavorava, ma in lei sopravviveva
ugualmente l’antico terrore della ragazza madre con la
responsabilità del suo futuro. In ogni caso, Maria non voleva rinunciare al suo tenore di vita, ai pranzi, ai vestiti, al suo mese d’agosto all’Hotel de Paris a Montecarlo. Inoltre, continuavano ad arrivare fatture da pagare di Renato, che aveva conti aperti ovunque. Battevano cassa sarti, ristoranti e gioiellieri. Il senatore aveva lasciato in sospeso quasi diciotto milioni di lire da Bulgari. Scorrendo la fattura, Maria vi trovò conti di monili che non erano stati comprati per lei e l’ultima rata da trecentocinquantamila lire di uno zaffiro acquistato per Elena. La vedova Angiolillo provò a inviare il conto ai figliastri, poi si arrese: se non avesse pagato, sarebbe scoppiato uno scandalo.
Sovvenzionare A un certo punto Maria ebbe l’idea di far sovvenzionare i suoi pranzi da qualche ricco imprenditore che avesse bisogno di frequentare gente potente, «ma sta in Brianza o a Milano, e non ha nessun contatto a Roma.» Sua sorella Nuccia le disse: «Pensaci bene: senza Renato e senza possedere più “Il Tempo”, verranno lo stesso tutti i potenti?». Replica di Maria: «Sicuro: il direttore del giornale resta il mio amato Gianni Letta. Lui verrà e quindi verranno tutti gli altri. A lui, non c’è mica bisogno di dirgli che i pranzi non li pago io...»
Rizzoli 1 Presto al Villino Giulia ripresero i ricevimenti, con i Rizzoli ospiti finanziatori. Un giorno, Andrea Rizzoli colse la moglie Ljuba mentre scriveva un biglietto di ringraziamento che avrebbe fatto avere a Maria insieme a un mazzo di fiori. «Ljuba, smettila di mandare fiori all’Angiolillo. Non hai capito che quei pranzi li paghiamo noi?» le disse il marito. I Rizzoli, intanto, avevano comprato il «Corriere della Sera».
Rizzoli 2 Rassicurata nelle finanze, elaborato lentamente il lutto per la perdita del marito, Maria andò incontro a un periodo di tranquillità. Quel che ancora non sapeva, né molti altri del resto, era che il «Corriere» dei Rizzoli perdeva cinque miliardi l’anno, e che pressato dalle banche, era finito nelle mani del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. E anche in quelle di Licio Gelli, il potentissimo capo della loggia massonica P2.
Proporzioni Nel salotto Angiolillo, la proporzione fra aristocratici e resto del mondo si andò via via ribaltando, a svantaggio dei primi. Il direttore del «Tempo» Gianni Letta era ospite fisso, mentre fra i politici, oltre all’onnipresente Giulio Andreotti, erano invitati tutti i ministri democristiani di maggior calibro in quegli
anni: Antonio Bisaglia, che Maria riteneva «un furbastro
che ci avrebbe rimesso la zampa» e che fu, alternativamente, all’Industria o alle Partecipazioni statali; Filippo Maria Pandolfi, abile ad assicurarsi sempre dicasteri «pesanti» come le Finanze o il Tesoro; ecc
Anguille Il posto d’onore spettava non di rado a Flaminio Piccoli o ad Arnaldo Forlani, i pesi massimi della Dc dell’epoca, entrambi assai abili a non esporsi su nulla. Maria diceva: «Sguisciano come anguille».
Niente Lo stesso Forlani le raccontò che, una volta, un cronista gli aveva rimproverato una certa vaghezza, apostrofandolo con un: «Segretario, non sta dicendo niente». Ma lui, prontissimo, gli aveva risposto: «Ah, sapesse, carissimo, potrei andare avanti così per ore».
Sublime snobismo Di Susanna Agnelli, Maria ammirava il «sublime snobismo».
Troppi capelli Di Afef diceva: «Gran donna, ma troppi capelli».
P2 1 Nel 1974, c’era stato il primo pranzo nella villa sopra piazza di Spagna di Andrea Rizzoli, il secondo marito di Ljuba, che aveva intanto comprato il «Corriere», facendo un pessimo affare. Appena entrato, aveva trovato un deficit di gestione di cinque miliardi l’anno e un debito di novanta al quale non sapeva
come far fronte. L’anno dopo, a casa Angiolillo, arrivò anche il figlio Angelo, che erediterà nel ’78 la presidenza del gruppo, ma che fu al fianco del padre, dal primo momento, alle prese con i debiti. Già intorno a Natale del ’75, poiché le banche non volevano più finanziarlo, Angelo aveva accettato di incontrare Licio Gelli, il «venerabile» della loggia massonica P2. Al giovane Rizzoli, la loggia era stata descritta come una specie di circolo elitario composto da gentiluomini. Ma, quando anni dopo si ritroverà interrogato dalla commissione parlamentare d’inchiesta avviata nel 1981 per far luce sulla P2, avrà maturato un’idea più chiara del «circolo» in cui si era cacciato: «Quando cercavamo di ottenere finanziamenti senza passare attraverso Gelli e Ortolani ci veniva immancabilmente risposto di no» spiegherà.
P2 2 Ereditata nel ’70 la P2, che aveva una sua storia centenaria, in un decennio Gelli ne aveva fatto uno spettacolare centro di potere. Quando nell’81 la guardia di finanza sequestrò nella sua villa di Castiglion Fibocchi, nell’aretino, la lista degli affiliati, vi trovò 962 nomi: tre ministri, cinquantanove parlamentari, un giudice costituzionale, quattro editori, trenta giornalisti (fra cui
otto direttori di giornale), parecchi dirigenti di aziende pubbliche e centosettantanove alti ufficiali, poliziotti, carabinieri. Per capire quanto fosse ramificato il potere di Gelli, basti ricordare un episodio raccontato a uno degli autori di questo libro da Giulio Andreotti: «Quando si sparse la voce che esistevano foto di Giovanni Paolo II che nuotava in piscina, mi adoperai per bloccarne la pubblicazione. Era un doveroso atto di riguardo verso il pontefice. Chi venne a portarmi le foto? Gelli. Me le consegnò con la preghiera di farle recapitare in
Vaticano...».
P2 3 Intorno al Natale del 1975, dunque, Angelo Rizzoli fu ricevuto da Gelli nello studio di Umberto Ortolani, dove – così almeno racconterà lui – trovò anche il direttore della Banca nazionale del lavoro, il presidente della Comit, il direttore del Monte dei Paschi, il presidente del Banco Ambrosiano. Il
trentaduenne Rizzoli annusò per la prima volta il profumo del vero potere. Si iscrisse al «club» e, nel giro di tre anni, ottenne ventotto miliardi da Calvi dell’Ambrosiano e venti dalla Comit, transitati attraverso l’Istituto per le opere di religione, lo Ior, sempre per tramite di Calvi. In breve, Angelo divenne ostaggio
di quest’ultimo, di Gelli e di un altro iscritto alla P2, Bruno
Tassan Din, dirigente del settore finanziario della Rizzoli, che dovette nominare amministratore delegato e direttore generale, come pretesero i suoi creditori. La tessera 532 della P2 gli sarebbe costata la rovina economica e la perdita del «Corriere» e avrebbe indirettamente causato alla vedova Angiolillo pene che mai avrebbe immaginato di dover sopportare. Mentre Angelo si limitò a cenare da Maria poche volte, Tassan Din e Calvi presero possesso del suo salotto. A causa loro, la vedova Angiolillo stava per trovarsi coinvolta in un paio di inchieste sul più colossale crac bancario che il Paese avesse mai conosciuto, inchieste affollate di omicidi impuniti, suicidi veri o inscenati, tangenti, spregiudicate collusioni fra finanzieri, banchieri, mafiosi, politici, cardinali e massoni; insomma, in un paio di scandali – quello della P2 e quello del Banco Ambrosiano – che resteranno fra i più inquietanti della storia d’Italia.
Calvi 1 Roberto Calvi, detto «il banchiere di Dio» per i rapporti con la finanza vaticana, era a capo del primo gruppo bancario italiano, un impero che, nel momento in cui franò, nel 1981, controllava depositi per quattordicimila miliardi.
Calvi 2 Quando Maria lo conobbe, ne notò subito l’aria dimessa. Era sempre vestito di grigio, sempre carico di borse di cuoio troppo gonfie, il cappello stretto sulla testa troppo grossa. I giornali lo chiamavano anche «il banchiere dagli occhi di ghiaccio». In effetti, risultava freddo e scostante: qualunque cosa gli riferissero la trovava ovvia, qualsiasi informazione gli dessero
già la conosceva.
Calvi 3 Ai pranzi, Calvi se ne stava in disparte, con aria supponente. Maria spesso faceva sedere Ljuba Rizzoli fra lui e il cardinale Casaroli, ma Ljuba trovava il banchiere insopportabile: diceva che si infervorava soltanto quando le raccontava dei maiali che macellava nella sua tenuta di Lodi, per farne salsicce.
Calvi 4 In quanto presidente dell’Ambrosiano, fondato nel 1896 da un terziario francescano, intitolato a Sant’Ambrogio e da sempre considerato «la banca dei preti», era inevitabile che Roberto Calvi incontrasse l’arcivescovo americano Paul Marcinkus. Accanito giocatore di golf, collaboratore di Montini nella segreteria di Stato, Marcinkus era stato incaricato da Paolo VI di dirigere il settore che si occupava della sicurezza personale del papa, ruolo che gli valse il nomignolo di «gorilla». La sua ascesa fu inarrestabile e, nel 1971, fu «promosso» presidente dello Ior, l’Istituto per le opere di religione che amministrava le finanze del Vaticano.
Telefonata Nel 1982, una telefonata in cui Tassan Din e Maria cercano il modo di mettere una pezza ai «guaietti» di Calvi aprirà il libro Il banco paga, di Leo Sisti e Gianfranco Modolo, andando a costituire il primo, fondamentale, capitolo dello scandalo del Banco Ambrosiano. Il nucleo scottante della conversazione tra la vedova Angiolillo e Bruno Tassan Din riguardava, infatti, Roberto Calvi. Quando Tassan Din chiamò Maria, il banchiere di Dio aveva,all’apparenza, solo un guaio alla procura di Milano: un’inchiesta per esportazione illegale di valuta. Ma le sue vere preoccupazioni erano altre e non riguardavano affatto l’inchiesta di Milano quanto la procura di Roma, dove erano in corso, invece, le indagini sulla bancarotta del siciliano Michele Sindona, un altro piduista, che diventerà sinistramente celebre nell’86, quando morirà avvelenato in carcere da un caffè al cianuro e il suo decesso, che aveva tutto il sapore dell’omicidio, sarà archiviato come suicidio.
Calvi e Sindona Ciò che in quell’ottobre 1979 non era ancora noto, era che, per anni, insieme, Calvi e Sindona avevano combinato colossali malaffari e si trovavano ormai ai ferri corti. Calvi doveva molto al collega siciliano: era stato lui a presentarlo a Gelli e a introdurlo ai segreti dei paradisi fiscali, agli astuti meccanismi dei depositi fiduciari, mettendolo in contatto con banchieri internazionali decisamente disinvolti. Però, non era stato riconoscente, anzi, si era rifiutato di salvarlo: quando Sindona gli aveva chiesto di mettere duecentocinquanta miliardi nella liquidazione della sua banca, che gli avrebbero consentito la cancellazione dell’accusa di bancarotta fraudolenta e la revoca del mandato di cattura, Calvi glieli aveva negati. In realtà, l’ambizioso, e a quanto pare ingrato, Calvi pensava di rimpiazzare Sindona in certi affari non proprio limpidi
con la politica e il Vaticano e di appropriarsi, come poi fece, di quello che era stato il disegno di Sindona a partire dal 1969: creare, con l’appoggio dello Ior, un fronte compatto di finanza cattolica, patrocinato soprattutto da Andreotti. Progetto che andò in porto in pochi anni. Sindona era vendicativo. Nel 1977, ricercato e latitante, si era ormai convinto di essere stato scaricato dal venerabile Gelli a favore di un Calvi in vertiginosa ascesa. Il suo primo sgambetto all’ex socio fu di far tappezzare le vie di Milano intorno a Piazza Affari con dei tazebao che accusavano Calvi di aver prelevato cifre enormi dai conti esteri di Sindona. Sui manifesti, erano specificati anche dettagli di operazioni che, se verificate, avrebbero portato il presidente del Banco Ambrosiano a un’incriminazione come esportatore di valuta, truffatore ed evasore fiscale.
Ricatto Nel 1979, Sindona riparò a New York e da lì provò a ricattare chiunque, Gelli, Andreotti, il Vaticano, lo stesso Calvi, il quale, ben conoscendo il personaggio, lo sapeva capace di tutto ed era convinto che fosse stato lui a far assassinare Ambrosoli, come sarà confermato dalle sentenze. Il 16 ottobre Sindona si fece ritrovare dalla polizia americana in una cabina telefonica di Manhattan, segno questo della sua intenzione di vuotare il sacco. Fu allora che Calvi, terrorizzato, cominciò a tormentare Maria: aveva bisogno di una talpa dentro la procura di Roma che potesse anticipargli le mosse di Sindona. Maria, che conosceva tutti e tutti coltivava, seguendo la logica del «non si sa mai», era amica del capo della procura Giovanni De Matteo. E si era già fatta un’idea su come sperare di avere qualche confidenza dal magistrato: trovando un lavoro a suo figlio, alla Rizzoli o al Banco Ambrosiano.
Vicolo cieco La «questione “Corriere”», pur spericolata, era il minore dei suoi problemi. Calvi aveva i nervi a fior di pelle perché nell’Ambrosiano si annidava un buco colossale: Gelli e Ortolani l’avevano pressato non solo per Rizzoli, ma perché finanziasse una miriade di altre operazioni ben più discutibili. Ai conti della banca aveva attinto lo Ior per sostenere Solidarnosc in Polonia e alcune dittature in America Latina; aveva fatto
ricorso Licio Gelli, per foraggiare il regime militare argentino. E Cosa Nostra era proprietaria di enormi depositi che lui non era in grado di restituire. Il banchiere di Dio temeva di finire in un vicolo cieco, come Sindona. Perciò aveva assunto guardie del corpo, fatto blindare la sua Mercedes e dotato sia l’ufficio sia il suo appartamento di sofisticati sistemi anticimici
e antintrusione. A volte, si stendeva sul letto e diceva alla moglie: «Temo che mi ammazzino. Temo di non vederti più».
Marcinkus Conosceva anche Marcinkus, Maria? Alla domanda di un giornalista dell’«Espresso», nel 1982, risponderà che non lo conosceva affatto. Eppure, un suo ospite si ricorda di una colazione organizzata da Maria con Marcinkus e Andreotti. A un’altra domanda dell’«Espresso», ovvero se Calvi incontrava
a casa sua Andreotti e Casaroli, la vedova Angiolillo
rispose che non ricordava, che avrebbe dovuto consultare
la sua rubrica dei pranzi. Ma le rubriche dei pranzi di quegli anni sono andate perse, così come quelle degli anni di Tangentopoli. Tutte le altre, invece, Maria le conservò sempre, raccolte in volumetti di marocchino rosso o lino verde con la scritta ma table.
Arresto Il 20 maggio 1981 fu il giorno in cui tutto precipitò. Qualche minuto prima delle sette e mezzo, alcuni militari della guardia di finanza bussarono a casa di Roberto Calvi, in via Frua 8, a Milano, e lo arrestarono. Il sostituto procuratore Gerardo
D’Ambrosio ipotizzava che, nella cosiddetta Operazione Toro, grazie a Calvi una quantità di miliardi avesse preso il volo verso l’estero a spese degli azionisti della Centrale.
Lista 1 La lista degli affiliati alla P2, trovata il 17 marzo nella villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. In quell’occasione era stato rinvenuto anche il nastro con la registrazione della telefonata durante la quale Maria e Tassan Din avevano cercato il modo di mettere una pezza ai «guaietti» di Calvi.
Lista 2 Nella lista pubblicata su tutti i giornali, la vedova Angiolillo lesse i nomi di parecchi suoi ospiti: Calvi; Tassan Din; Angelo Rizzoli; il direttore del «Corriere» Franco Di Bella; il segretario generale della Camera Francesco Cosentino; il ministro Mario Pedini; il ministro Gaetano Stammati, ecc. Maria non si raccapezzava: che cos’era mai quella P2?
Sorella Quando Calvi dopo un tentativo di suicidio in cella fu dimesso dall’ospedale e rientrò in cella, Maria gli telefonò spesso, facendosi passare per la sorella. «Forza, coraggio» gli raccomandava, «vedrai che sistemiamo tutto.» Lo raccontò lei stessa in un’intervista, in tempi in cui tutti, invece, facevano a gara per smarcarsi da quello che era diventato di colpo il banchiere del diavolo.
Impiccato Il 18 giugno, a Londra, fu rinvenuto un corpo penzolante sotto il ponte dei Frati Neri, appeso con una corda arancione a un traliccio: indossava un vestito grigio, due paia di mutande bianche, una sull’altra, una camicia a righe blu, scarpe sportive e calze nere, non aveva cravatta né cintura, la giacca era abbottonata storta. Nella patta dei calzoni era infilato mezzo mattone, un quarto di mattone era nella tasca destra dei pantaloni e un altro quarto nella tasca sinistra. Indosso al morto un portafoglio con cinquantaquattromila lire, venti scellini e una grande quantità di franchi svizzeri, dollari e sterline. Al polso, l’orologio Patek Philippe era fermo all’1.52. Il cadavere era quello di Roberto Calvi.
Omicidio Dopo vent’anni una perizia eseguita sui resti del corpo avrebbe stabilito che Calvi era stato ucciso per strangolamento in un cantiere vicino al ponte, e che non aveva mai toccato i mattoni che aveva addosso, né l’impalcatura alla quale fu trovato appeso, poiché sotto le unghie delle mani non vi erano tracce né di ruggine, né di altre polveri. Fu un omicidio, dunque, che resterà sempre impunito perché in tutti i gradi di giudizio furono assolti sia l’affarista Flavio Carboni, sia il mafioso Pippo Calò, sia Ernesto Diotallevi, accusati dalla procura di Milano di essere a vario titolo coinvolti nell’omicidio del banchiere. Tutte le volte che qualcuno chiese a Maria chi avesse «suicidato» Calvi, lei rispose: «Dio solo lo sa».
Interrogatorio Alla fine di novembre del 1982, Maria fu convocata a Milano dai pm che indagavano sul crac del Banco Ambrosiano. Doveva essere sentita solo come testimone, quindi senza un legale, ma cercò comunque l’avvocato Consolo. «Che vogliono da me, Giuseppe? Io ho solo dato una mano a un amico in difficoltà. Sarà un male fare una telefonata? Sarà un male rispondere a una moglie disperata? Ora vado e gliela faccio vedere io.» «Le cose sono più delicate, Maria» le spiegò l’avvocato. C’era l’ipotesi di tentata corruzione verso il procuratore De Matteo, bisognava capire come sarebbero state lette le presunte interferenze sul governatore e sul direttore generale della Banca d’Italia. Studiarono ogni mossa e ogni contromossa. Maria indossò un tailleur scuro, una sola spilla sobria e si presentò davanti ai giudici. Fu interrogata per dodici ore. Riuscì a tenere sempre la stessa linea, senza mai mostrare un cedimento.
Bancarotta Nel febbraio 1983 Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din vennero arrestati per bancarotta.
Quattro pranzi Maria riprese a dare pranzi con il contagocce. In tutto il 1983 ne organizzò solo quattro.
Berlusconi Al primo dei due pranzi di Natale dell’era craxiana, il 14 dicembre dell’83, invitò Silvio Berlusconi, che era ancora soltanto un imprenditore, seppure già ricchissimo. Nel 1982, già proprietario di Canale 5, aveva comprato Italia 1 e si preparava a creare un impero delle televisioni. Il Cavaliere fu collocato al tavolo numero uno, ma non ai posti d’onore che spettarono all’ambasciatore americano Maxwell Raab e al direttore generale della Banca d’Italia Lamberto Dini (sistemati alla destra e alla sinistra di Maria) e all’uomo chiave della transizione dal franchismo alla democrazia spagnola, Manuel Fraga Iribarne, capotavola opposto alla padrona di casa. Alcune tartarughe bollirono per un paio d’ore per approntare un consommé accompagnato, insieme al saumon flambé, da un Pouilly Fumé Ladoucette del ’79, mentre si attinse alle prestigiose cantine di Romanée-Conti (Domaine St. Vivant, 1970) per nobilitare il filet de boeuf à l’Estragon.
Spadolini La vedova Angiolillo tremava ogni volta che l’ex direttore del «Corriere» Spadolini, ormai passato alla politica e diventato ministro della Difesa, si presentava al Villino Giulia: una volta aveva fatto franare una preziosa sedia del Settecento francese sotto il peso della sua stazza.
Rotolini Quando al Villino Giulia arrivò Teresa Ciancone,
la nuova governante, le insegnò, per prima cosa, a preparare i rotolini di mille lire. L’aveva imparato da Renato: il senatore girava sempre senza portafoglio, e spediva poi la segretaria Ottilia a pagare i suoi conti, ma teneva sempre in tasca delle banconote arrotolate per le mance. Teresa ne preparava ogni mattina a decine, da cinquemila e da diecimila lire. Maria cominciava a distribuirle appena fuori dalla porta, dove l’attendeva ogni giorno una pletora di zingarelle che chiedevano l’elemosina. Ne lasciava anche ai ragazzi che, davanti
all’Hassler, avevano il compito di aprire le portiere delle auto, anche se lei arrivava in hotel a piedi, con una passeggiata di pochi minuti. Quando Teresa la accompagnava a Montecarlo per le vacanze estive, la vedova Angiolillo si preoccupava immancabilmente di elargire una mancia al parcheggiatore Filippo. E la governante: «Ma signora, noi siamo senza macchina...».
Udo Maria A trent’anni, quando venne a sapere dalla matrigna che sua madre non era morta, Udo Maria Gregory l’andò a cercare e la trovò. Si incontrarono nella hall dell’Hotel Hassler. Lui le chiese più volte perché lo aveva abbandonato. Maria taceva o tergiversava. Mormorò che era tutto molto complicato, che era passato troppo tempo, che non erano cose che si potessero spiegare, o capire, dopo trent’anni. Poi andarono a casa di lei
«Che lavoro fai?» chiese.
«Vendo moto.»
«Moto?»
«Motociclette.» Udo Maria Gregory mimò tristemente la
posa di un centauro.
Com’era potuto accadere che suo figlio, erede di metà della fortuna della contessa Rosenthal de Beurges, vendesse motociclette, si domandò Maria. Quale altro conto la sorte le stava presentando?
«Sei venuto a cercare soldi?» domandò.
«Sono venuto a cercare mia madre e a sapere perché mi ha abbandonato.»
«Allora io non posso fare niente per te.» Maria si alzò dal
suo divanetto Luigi XV, in segno di congedo. Se quel ragazzo non aveva bisogno di soldi, non c’era davvero niente che potesse fare per lui. Tutte le buone ragioni che l’avevano costretta a rinunciare a lui, sarebbero suonate incomprensibili. Udo salutò senza troppe cerimonie.
Scomparsi Dopo gli anni di Tangentopoli e della P2 gli uomini della Prima Repubblica erano scomparsi da casa Angiolillo. Andreotti rifiutava con garbo gli inviti per non imbarazzare i presenti. Gli altri erano politicamente scomparsi, inghiottiti con i cinque partiti che avevano governato l’Italia per mezzo secolo. Gli unici ospiti degli anni d’oro non ancora inghiottiti dalla Storia erano Giovanni Spadolini, generalissimo ormai senza esercito che sarebbe morto all’alba della Seconda Repubblica. E Mino Martinazzoli, fragile segretario perbene di quella Dc che stava rinominandosi Partito popolare per far dimenticare lo strazio di Tangentopoli
Caltagirone La vedova Angiolillo si sentiva persa: tutti i suoi riferimenti erano venuti a mancare. Di nuovo, come quando erano arrivati i socialisti, il suo salotto rischiava il tracollo, se lei non avesse saputo riposizionarlo. Ma ormai aveva superato i settant’anni, era stanca. Poi arrivò Francesco Caltagirone. «Maria, ho bisogno di te, devi aiutarmi» le disse. Le mise a disposizione una somma mensile, e ogni mese Maria gli chiedeva chi volesse incontrare.
Bicchieri e valletti Nelle cene in casa della vedova Angiolillo i bicchieri, oltre quello per l’acqua, erano immancabilmente quattro: vino bianco, vino rosso, Sauternes Château d’Yquem (servito con la crema di formaggio), champagne per il brindisi finale. Piatti della metà dell’Ottocento in porcellana e bordi d’oro della Compagnia delle Indie, bicchieri in cristallo di Boemia anche quelli rifilati in oro zecchino, menù stampato in francese. All’ingresso, un valletto presidiava il vassoio d’argento con i cartoncini che indicavano il tavolo a cui ciascuno era destinato scritti da un calligrafo. Ogni nome era preceduto dal titolo accademico, politico o nobiliare.
Orario L’orario indicato per la cena era molto romano, ma comunque inusuale: le 21.15. Al contrario dell’uso borghese, l’ora non era orientativa, ma indicava tassativamente il tempo entro cui gli ospiti avrebbero dovuto raggiungere la casa. Alle 21.30 si andava a tavola. Alle 21.35, Maria si agitava per il ritardo dell’ultimo o penultimo ospite. Alle 21.45 veniva servito il consommé, un’ora dopo si risaliva in salotto per i sigari
e la conversazione nei salottini. Tra le 23.15 e le 23.30 gli ospiti salutavano.
D’Alema Nel novembre del 95 D’Alema entrò per la prima volta in casa di Maria.
Spezzaferro La prima volta che andò ospite a casa Angiolillo, nel novembre 1995, D’Alema rivelò da dove nasceva il nomignolo di «Spezzaferro» che era comparso sui giornali: «Per allentare la tensione, spezzo con le mani in otto frammenti i tappi dell’acqua minerale». E aggiunse serio: «Fini non ne sarebbe capace».
Ulivo Il 17 dicembre del ’96 al Villino Giulia si dava il primo pranzo natalizio con L’Ulivo al potere. Ora governavano quelli che Maria aveva chiamato per decenni «i comunisti... quelli dall’altra parte».
Altri ospiti Tra il ’97 e il ’98 accanto a Maria c’erano il ministro Tiziano Treu e il generale Nicolò Pollari, allora capo di stato maggiore della guardia di finanza e destinato nel 2001 ad assumere la guida dei servizi segreti. Giorgio Napolitano tornò il 12 febbraio 1998 da ministro dell’Interno, sistemato accanto a Maria, al tavolo uno, battezzato per l’occasione «Camelia»,
lo stesso a cui sedevano il banchiere Cesare Geronzi, Gianni Letta, Edwige Fenech e Fedele Confalonieri, che aveva ereditato la guida di Mediaset e Fininvest dopo «la discesa in campo» di Silvio Berlusconi. C’era spesso anche Pier Ferdinando Casini, simpatico a Maria al punto che, la sera in cui si accese un sigaro anzitempo in sala da pranzo, lei non gli disse niente.
Donne Ogni tanto, la Angiolillo ospitava colazioni per sole donne. Vi intervenivano Franca Ciampi, moglie dell’allora ministro del Tesoro, Clio Napolitano, essendo il marito ministro dell’Interno, o Simonetta Scalfari, moglie del fondatore della «Repubblica» Eugenio.
Stizza Più volte, nei suoi libri dei pranzi, lei e la sorella annotavano parole di delusione più o meno stizzita all’indirizzo di coloro che disdicevano un pranzo o una cena all’ultimo minuto. Il 17 dicembre 1998, Nuccia scriverà: «Mancati Franco Tatò e Sonia Raule, Maria è nervosa e ha ragione. Sono dei farlocchi. Anche Francesco Caltagirone e Lilli Gruber non sono venuti». Chi le procurava molte pene era Francesco Rutelli, sindaco di Roma dal 1993 al 2001. A Maria stava simpatico, ma le dava sempre buca. Fu presente a un pranzo il 17 luglio 1998, seduto fra Maccanico e la marchesa rossa Verusio, ammessa al Villino Giulia da quando la sinistra era al governo; poi il 12 dicembre dello stesso anno, a margine della minuta del pranzo il cui ospite d’onore era stato Napolitano, Maria vergò, contrariata: «Quante volte è mancato Rutelli (per febbre)?».
Nuovo ingresso Un nuovo ingresso importante, a futura memoria, avvenne l’11 febbraio del ’99. D’Alema aveva scelto come vicepresidente del Consiglio Sergio Mattarella che sarebbe diventato presidente della Repubblica e il cui padre era già stato al Villino Giulia negli anni Sessanta. Maria lo collocò alla sua destra, accanto alla principessa Odescalchi e di fronte a Franco Bassanini. Al suo tavolo, intitolato «Gennaio», con decorazioni in tono, Mario Draghi e Fiorella Padoa Schioppa, mentre la moglie di Mattarella, Marisa, guidava il tavolo «Marzo» accanto a Gianfranco Fini. Piatto principale, una magnifica sella di vitello à l’Orloff, cucinata secondo un’antica ricetta francese e accompagnata da un grande vino di Pauillac, lo Château
Lynch-Bages del ’92.
Bossi Il centrosinistra s’allargò via via nelle presenze, ma il 19 maggio del ’99 ci fu l’ingresso al Villino Giulia di Umberto Bossi. «S’è comperato il vestito blu che gli mancava» annotò Maria sul taccuino dei pranzi. Teneva all’ospite, ma sentiva che non avrebbe legato con lui: «Non mi è simpatico» scrisse infatti nello stesso appunto, sottolineando la frase con un tratto di penna. Seduto alla destra di Maria, Bossi subì per la breve durata del pranzo le aristocratiche attenzioni della baronessa Carla von Stohrer. Pur avendo una spiccata preferenza per le osterie e dissacrando comunque con il suo comportamento qualunque luogo pubblico, quella sera Bossi si comportò a tavola in maniera ineccepibile.
Centrodestra Domenica 13 maggio 2001 Berlusconi seppe d’aver vinto le elezioni sette ore prima della chiusura dei seggi. Il ritorno del centrodestra al potere allargò la presenza di nuovi ministri al Villino Giulia. Furono invitati nei mesi successivi, oltre ai già abituali Fini, Urbani e Prestigiacomo, lo stratega organizzativo di Forza Italia Claudio Scajola, il nuovo ministro
degli Esteri Franco Frattini che aveva già sostituito l’irrequieto Ruggiero, il ministro dell’Interno Beppe Pisanu, quello delle Comunicazioni Maurizio Gasparri, il titolare dell’Ambiente Altero Matteoli, il presidente dei senatori Renato Schifani e altri ancora.
Paparazzi La prima volta che il paparazzo Umberto Pizzi era comparso fuori dal portone del Villino Giulia, Maria si era dovuta sedere, si era sentita mancare le ginocchia. Sapeva benissimo chi fosse, lo aveva visto a tanti eventi mondani e lui l’aveva immortalata al volo, mentre addentava una tartina o rimbrottava bonariamente qualcuno, con il ditino alzato. Pizzi era specializzato
nel cogliere l’attimo più imbarazzante, il dettaglio più
grottesco. A lei, fotografava sempre le scarpe, realizzate su misura dal calzolaio Albanese, in fogge fantasiose, d’ispirazione settecentesca, con ricami, pietre dure o cristalli luccicanti e ormai sempre con tacco da quattro centimetri: con l’età, aveva dovuto rinunciare a quelli alti.
Paparazzi 2 Il primo pranzo di Natale del 2008 fu funestato da una grottesca incursione che Maria non trovò affatto divertente. Il 16 dicembre, davanti all’ingresso del Villino Giulia dov’era allestito un presepe a dimensione umana, comparve un banchetto pieno di libri intitolati Cafonal: raccoglievano il peggio delle foto rubate su quella che i due autori, Roberto D’Agostino e Umberto Pizzi, chiamavano «la Roma godona». Accanto al banchetto, nella penombra, si scorgevano D’Agostino, con il suo pizzetto brizzolato e mefistofelico, i pantaloni scozzesi e la kefiah, e Umberto Pizzi con la sua macchina fotografica e un cappuccio da Babbo Natale. La loro intenzione era quella di farsi pubblicità andando a vendere il libro proprio a coloro che l’avevano ispirato.
Maria Angiolillo uscì dal Villino, quasi barcollante: «Siete
impazziti?». D’Agostino le si buttò ai piedi, in ginocchio: «Signora, la prego: accetti in dono questo nostro libro che celebra lei e il suo stupendo mondo...». E lei, ritraendosi: «Vi scongiuro... Mi rovinate la serata... Così i miei invitati invece di guardare il mio presepiuccio, guardano voi...».
Tintura Quando giunse Paolo Bonaiuti, D’Agostino urlò: «Ahò, ma che tintura usi per i capelli?». E Pizzi: «Lo sai che sembrano i capelli di Pupo?». Bonaiuti rise.
Attovagliare Maria Angiolillo non faceva altro che «attovagliare» potenti, come scriveva Dagospia.
Ultimo pranzo Maria Angiolillo dette l’ultimo pranzo della sua vita giovedì 1˚ ottobre 2009.
Morte Maria era tornata la sera prima da un breve ricovero in ospedale, che sembrava senza importanza. L’indomani mattina, tuttavia, Teresa Ciancone, la governante di una vita, l’aveva trovata riversa a terra nella sala da bagno attigua alla camera da letto, la spazzola e le forcine sul pavimento. Maria si stava
preparando a uscire. La morte l’aveva sorpresa dieci minuti dopo le dieci del 14 ottobre 2009.
Pranzi in paradiso Maria Angiolillo era l’unica persona che Enea Gambogi, la sua storica segretaria, e poi Patrizia Chilelli, la nuova, erano autorizzate a passare ad Andreotti in qualunque momento. «Presidente, Consolo ha chiesto un minuto di silenzio in aula.» Patrizia gli porse un foglio con la notizia d’agenzia.
«Ha detto davvero “un nome noto a chi ha seguito la storia dell’ultimo secolo”?»
«Così c’è scritto.»
«Quanti anni aveva Maria?»
«Ottantotto. Ma credo ne dichiarasse ottanta.»
Il presidente ghignò. «Darle un secolo d’età... Se Maria offre pranzi pure in Paradiso, Consolo può star sicuro che è depennato per l’eternità.»
1600 ricevimenti In mezzo Maria secolo aveva imbandito almeno dodici pranzi e venti cene l’anno. Faceva trentadue, da moltiplicare per cinquanta. Più o meno, milleseicento ricevimenti.
Asta 1 Alla sua morte Christie’s si aggiudicò la vendita di ogni arredo, di ogni suppellettile e di ogni superstite ricordo conservato nel Villino Giulia. L’asta fu battuta a Londra nove mesi dopo la morte di Maria, il 15 luglio 2010. La titolarono «A View from the Spanish Steps – The Collection of Maria Angiolillo». Totalizzò 3.494.087 sterline, pari a 4.179.520 euro.
Asta 2 La tela settecentesca di Giovanni Paolo Panini, con figure classiche e rovine di templi e piramidi, che accoglieva gli ospiti nell’ingresso del Villino Giulia, realizzò l’equivalente di 173.000 euro. Il tavolo da pranzo in marmo e alabastro degli anni Venti, il «numero uno», a cui sedeva sempre Maria con gli ospiti di maggiore riguardo, fu venduto a 116.000 euro. I due comodini intarsiati del 1785, per quasi cinquant’anni posti
ai lati del suo letto, segnarono forse il record di prezzo per dei comodini: 159.000 euro. La zuppiera d’argento, italiana, del 1780, in cui la signora Angiolillo serviva sempre la sua celebre soupe à la tortue copiata a Isabelle Colonna, realizzò 73.000 euro. Andò via tutto: il salottino Luigi XV con stoffe rosse Aubusson,
del 1760, che aveva accolto tanti potenti lombi nella
stanza più riservata della villa di Trinità dei Monti, fu battuto a 44.000 euro; le preziose sedie del Settecento francese per le quali Maria tremava ogni qualvolta vi si accomodavano Giovanni Spadolini o Giuliano Ferrara furono vendute a 6000 euro l’una.
Top five Classifiche degli ospiti dell’ultimo decennio della signora, dalla fine del 1999 al 2009. La «top five» vede in testa Sandra Carraro con 93 presenze, il costruttore Francesco Bellavista Caltagirone con 86, l’avvocato e parlamentare di An Giuseppe Consolo con 70, Gianni Letta – braccio destro di Berlusconi – con 61, e uno degli autori di questo libro, Bruno Vespa, con 51.