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 2001  luglio 14 Sabato calendario

Politecnico di Torino Milano 2, abitare nel marchio (pubblicato su “Il Manifesto”, sabato 14 luglio 2001, p

Politecnico di Torino Milano 2, abitare nel marchio (pubblicato su “Il Manifesto”, sabato 14 luglio 2001, p. 12) Milano 2, sabato mattina. Piove. Il clima è fresco, in modo un po’ inusuale per una giornata di luglio. Poco più a nord, lo scopriremo solo più tardi, una tromba d’aria scoperchia la Dalmine. Qui, invece, si sta bene. Arriviamo in macchina, accompagnati da Cecilia. Durante il tragitto, abbiamo a lungo scrutato il paesaggio della periferia est milanese. Vi abbiamo cercato, senza ritrovarle, le tracce di un resoconto di viaggio che abbiamo letto qualche tempo fa. Un testo che evocava una sorta di percorso iniziatico. L’avvicinamento progressivo a qualcosa di nuovo e al tempo stesso familiare. “Appena oltre il Lambro ritrovi la dolce Bassa natìa con un brivido lungo e impensato. La strada è ampia, a duplice corsia. Patetiche braide – i cassînn – sopravvivono in un paesaggio che ancora le capisce, cioè le comprende e le contiene. Tuttavia se ne stanno umili e pudiche in disparte, e proprio dal loro intonaco dimesso intuisci il miracolo imminente. Ecco infatti, oltre la curva, un rosseggiare improvviso di case non altere ma nobili, e così improvvidamente intonate con il tradizionale mattone lombardo che le prospettive scandinave della nuova città non ti allarmano per nulla”. Sono parole di Gianni Brera. Stampate in un volume che si intitola Milano 2: una città per vivere. Pubblicato nel 1976, a quartiere quasi ultimato e in buona parte già abitato, dalla Edilnord Centri Residenziali, la società di Silvio Berlusconi responsabile dell’operazione. Redazione: Giorgio Medail e Paolo Berlusconi. Molte fotografie, di qualità diseguale (Paolo Berlusconi compare anche tra i fotografi). Testi che saccheggiano il gergo delle relazioni tecniche degli architetti e degli urbanisti. Occasionalmente, brevi inserti letterari firmati da Gianni Brera, appunto, e da Natalia Aspesi, Graziano Cavallini, Marco Mascardi, Enzo Siciliano, Isa Vercelloni. Cecilia è cresciuta a Milano 2. Una copia del volume campeggia anche nella libreria dei suoi genitori. Chiunque avesse acquistato un alloggio ne riceveva una. La storia dei genitori di Cecilia è la storia di una di quelle circa duemila famiglie (poche provenienti da Milano, molte da fuori) che nel corso degli anni Settanta hanno decretato il successo di una delle speculazioni immobiliari più spettacolari dell’hinterland milanese. È la storia della scelta di andare a vivere in un luogo capace di offrire servizi e qualità dell’abitare che non sembrava possibile trovare altrove, a Milano e dintorni. I genitori di Cecilia erano sposati da poco quando i primi appartamenti furono messi in vendita. Acquistarono il proprio alloggio sulla carta, disposti ad aspettare alcuni anni (trascorsi in affitto) prima di poterne prendere possesso. Decisiva per la scelta dell’ubicazione del lotto, la presenza di un pioppo, che sarebbe però stato abbattuto di lì a poco. Sappiamo di trovarci in un quartiere simbolo. Qui molto è cominciato, a partire da quella Telemilano che, pensata inizialmente come emittente via cavo, servizio aggiuntivo offerto ai residenti, diverrà in seguito il primo mattone dell’impero televisivo Fininvest. C’erano state prima altre iniziative, tra queste la lottizzazione di Basiglio, ma è Milano 2 l’operazione che, negli anni Settanta, fa di Silvio Berlusconi uno dei nomi più chiacchierati dell’imprenditoria edile italiana. Un signore capace di tirare su, con capitali svizzeri e ottime entrature politiche, una sorta di nuova città con un’aggressività imprenditoriale e promozionale che apparivano già allora peculiari. Riletto oggi, a distanza di venticinque anni, Milano 2: una città per vivere sembra anticipare molte cose. Basterebbe lo slogan di apertura: “Milano 2: un’esperienza completa e affascinante, una proposta da meditare, un suggerimento concreto per il futuro della città”. Che a sua volta riprendeva quelli pubblicati nelle inserzioni su giornali come il Corriere della Sera. Insistenza sulla novità del progetto, con toni quasi utopici (“Milano 2: un nuovo modo di costruire”; “Una proposta abitativa d’avanguardia”); ricorso continuo alla legittimazione fornita dai saperi tecnici (“Soluzioni urbanistiche veramente inedite”); abuso della retorica del fare (“Dopo tante parole finalmente un’iniziativa concreta”); spudorata capacità di negare ogni evidenza (“Un’alternativa all’espansione edilizia disordinata e parassitaria”). Molto dell’armamentario comunicativo del Berlusconi “presidente operaio” è già leggibile in questi frammenti. L’appartamento dei genitori di Cecilia si trova nella parte più esterna di Milano 2, in uno dei gruppi di edifici che delimitano il quartiere. Edifici di pregio, anche se meno prestigiosi delle lussuose garden houses – le torri isolate nel verde, con alloggi di grande taglio e piscina sul tetto. Verso l’interno del complesso, l’appartamento affaccia su una sorta di corte-giardino, molto verdeggiante. Verso l’esterno, su un vasto campo coltivato. Non tutti hanno avuto la stessa fortuna, e altri proprietari di edifici situati nei lotti perimetrali devono fare i conti con presenze ingombranti come quella dell’ospedale San Raffaele – pure provvidenziale per ottenere, all’epoca, lo spostamento delle rotte degli aerei in decollo da Linate. L’effetto di chiusura comunque funziona. Una volta entrati a Milano 2 non si percepisce il mondo esterno. Gli alberi, molto cresciuti, conferiscono buona consistenza al trattamento paesaggistico. Cecilia ci racconta delle famiglie che vengono la domenica a stendere la tovaglia del picnic nel prato di fronte a casa loro, come se fosse un parco. I terreni su cui sorge Milano 2 erano stati acquistati nel 1968 dalla Edilnord dal conte Leonardo Bonzi, che aveva a sua volta provveduto a renderli edificabili attraverso alcune convenzioni stipulate col Comune di Segrate a partire dal 1963. In un vecchio libro del 1981, Alessandro Balducci e Mario Piazza avevano ricostruito con efficacia il contesto in cui anche quest’operazione si collocava. La proliferazione di convenzioni tra amministrazioni e proprietari di terreni era in quegli anni un fenomeno generale nell’area milanese. La “compromissione giuridica” di molte parti della periferia operata tramite le convenzioni aveva di fatto preparato per l’immissione sul mercato fondiario, nel corso degli anni Sessanta, una riserva di terreni sui quali avrebbero preso forma alcune tra le più importanti speculazioni del decennio successivo. Al tempo stesso, gli anni della costruzione di Milano 2 erano anni di ricomposizione degli attori presenti sul mercato immobiliare dell’area milanese. Un periodo in cui la molteplicità e la frammentazione di iniziative e imprenditori che avevano caratterizzato gli anni del boom lasciava posto a un mercato più selettivo, caratterizzato soprattutto da poche operazioni di grande portata, promosse da alcune tra le maggiori società immobiliari italiane. Una situazione che mutava i rapporti di forza tra promotori, istituzioni locali, partiti politici. Fu proprio la lottizzazione di Milano 2 promossa dalla Edilnord berlusconiana a inaugurare, nell’area milanese, un “modello di urbanizzazione a larga scala” divenuto in seguito comune. Alcune peculiarità sembravano allora distinguere la Edilnord da altri operatori del mercato edilizio: un’ampia disponibilità di capitale finanziario, una crescente tendenza verso la diversificazione delle proprie attività e, almeno a Milano 2, una concentrazione sulle fasi iniziali (organizzazione, progettazione) e finali (gestione) dell’operazione, delegando a imprese esterne la fase della costruzione vera e propria. Le architetture di Milano 2 non erano “firmate”: a progettarle era l’ufficio tecnico della Edilnord, anche se due tra i molti architetti e ingegneri coinvolti nell’operazione, Giancarlo Ragazzi ed Enrico Hoffer, otterranno consacrazione tardiva sulle pagine di Una storia italiana, l’agiografia berlusconiana distribuita in occasione delle ultime elezioni. La campagna promozionale per la vendita degli alloggi giocava in compenso con forza sulla corporate identity, sulla partecipazione al progetto di aziende i cui nomi fossero riconoscibili: Max Meyer e Louis de Poortere, B Ticino e Saint Gobain. Si possono riconoscere negli edifici del complesso elementi e soluzioni linguistiche prese a prestito da alcune ricerche architettoniche di punta di quegli anni, specialmente da quelle che più si erano poste, in area lombarda, il problema di elaborare linguaggi e soluzioni per una committenza “borghese”. Si potrebbero fare alcuni nomi: Luigi Caccia Dominioni, Vico Magistretti, Ignazio Gardella, i Bbpr, l’universo del “neoliberty”. Un progetto in cui Caccia Dominioni e Magistretti avevano avuto un ruolo importante, quello per il quartiere di San Felice a Segrate (1967-70), costituisce probabilmente l’antecedente più immediato dell’operazione. Ma tutto si gioca ora su di un piano diverso, che non è più quello dell’architettura “alta” o della coerenza linguistica dell’oggetto: si tratta piuttosto di un’edilizia speculativa che incorpora nel progetto elementi eterogenei ma riconoscibili, già entrati in qualche modo in un immaginario condiviso. È così anche per il colore rossastro degli intonaci, chiamato a evocare una presunta milanesità. “I colori […] sono quelli della città, di quando la città non era stata mangiata dal fumo delle macchine e delle ciminiere”, scrive Natalia Aspesi, poco dopo aver accostato una “Milano 1 per trovarsi al centro di tutto” a una “Milano 2 per ritrovare se stessi”. Sono meccanismi che non siamo abituati a studiare: si sa poco sui modi in cui il mercato edilizio del secondo dopoguerra ha affrontato il problema dell’elaborazione di modelli abitativi e architettonici adatti a una committenza alto- e medio-borghese. Sono forme di costruzione di un gusto, di definizione di modelli di consumo, di pressione sociale (non solo speculativa) sullo spazio urbano che hanno avuto un grande impatto sulle trasformazioni del territorio italiano. La lettura di un luogo come Milano 2 ci sembra insomma porre dei problemi di attrezzatura culturale. La strada centrale, che Cecilia percorre in automobile, è ribassata di un paio di metri rispetto al resto del complesso. La rete dei percorsi pedonali e ciclabili non la attraversa a livello, ma tramite una serie di ponti. La percorribilità pedonale del quartiere era uno degli aspetti su cui la campagna promozionale degli anni Settanta insisteva di più, con implicazioni al tempo stesso ecologiche e di lifestyle. “La rivincita sulle auto”; “Milano 2: operazione aria pulita”. La separazione dei percorsi pedonali e veicolari era ovviamente presentata come una soluzione rivoluzionaria, profondamente innovativa. Nessuno ci aveva mai pensato prima: “Milano 2 è il primo esempio di città dotata di un triplice sistema stradale completamente differenziato”. Quello della specializzazione funzionale dello spazio stradale era in realtà da molto tempo un tema non solo ricorrente, ma persino banale del dibattito urbanistico. Milano 2 ne fa un’applicazione sistematica e vagamente spettacolarizzata, come si conviene alla volgarizzazione di una soluzione che, ormai slegata da ogni ricerca disciplinare, serve soprattutto a costruire un’immagine di qualità. Cercare un raffronto con i possibili modelli di nuove città o di garden suburbs inglesi o scandinavi del secondo dopoguerra sarebbe tempo perso. Secondo i promotori dell’operazione, a beneficiare della separazione tra i sistemi di circolazione dovevano essere soprattutto i bambini. “Una città per i bambini”, “A scuola da soli”, “Il diritto di giocare”. Promesse mantenute, ci racconta Cecilia. In un quartiere chiuso, e senza il pericolo dell’attraversamento stradale, accadeva spesso che i bambini fossero autorizzati a uscire di casa da soli. La loro meta era generalmente il parco giochi. Lo visitiamo, e scopriamo che è molto cambiato. Il fortino degli indiani è bruciato. Del ranch dei cow-boys, del laghetto, della pompa di benzina non restano più molte tracce. Abbiamo negli occhi le fotografie, molto animate, pubblicate sul volume del 1976. Ora gli stessi luoghi ci sembrano irriconoscibili. Il fatto è che Milano 2 sta invecchiando, ci spiega Cecilia. Nella nostra visita non incontreremo nessun bambino. Forse per effetto del suo stesso successo, il quartiere ha conosciuto poco ricambio di popolazione. Un destino paradossale, per un luogo in cui lo spazio dei bambini costituiva una sorta di surrogato dello spazio pubblico e in cui asili, scuole, parchi gioco erano forse i veri servizi offerti ai residenti. Sul campo da calcio oggi non c’è nessuno. Mentre lo attraversiamo Cecilia ci racconta che, la domenica mattina, può capitare di vederci giocare Raimondo Vianello. L’immagine ci sembra un buon simbolo di ciò che sta accadendo. Nel parlare con chi ha abitato a Milano 2 colpisce la percezione di un senso di radicamento, sia pure problematico. La strategia di “creazione di un luogo” e di organizzazione della domanda che era al centro della campagna promozionale ha in qualche modo funzionato, un fatto che non si misura solo sul successo incontrato all’epoca dalla speculazione berlusconiana. In molti si sono in qualche modo riconosciuti nel quartiere, forse soprattutto grazie al potente collante costituito da una quasi totale assenza di differenziazione sociale. Cecilia ci racconta che la prima percezione dell’esistenza di un “mondo esterno” a Milano 2 la ebbe con l’arrivo alle scuole medie: collocate all’interno del quartiere, e però comunali, queste presentavano una popolazione studentesca più diversificata. L’uniformità sociale di Milano 2 non significava comunque esclusività: il profilo degli abitanti era fortemente schiacciato su uno spettro molto limitato di professioni e attività. Non tutti si sono in seguito riconosciuti nelle scelte politiche di Berlusconi, né si sono tutti sentiti “milanesi”. Ma il ricordo che conservano di Milano 2 rimane spesso positivo: positivo come può essere il vivere in una società apparentemente priva di contrasti e differenze. Tanto questi immaginari sociali che le forme architettoniche chiamate a evocarli ci sembrano, a volte, terribilmente déjà vu. Milano 2 è forse solo un’incarnazione, fra molte, del sogno borghese degli anni Settanta? Certo non è un “American-style garden suburb”, come ha scritto di recente il report sull’Italia di The Economist. Non è neppure uno spazio chiuso e protetto, una “gated community” all’italiana simile a quelle che si stanno diffondendo sempre più anche nel nostro paese in questo inizio di millennio: la presenza di un esiguo numero di sorveglianti (i “verdoni”, ci dice Cecilia, così chiamati per via della caratteristica divisa verde) non è riuscita a tener lontana la paura degli “albanesi” neppure a Segrate. Ciò che differenzia Milano 2, che rende questo luogo a suo modo paradigmatico, è il salto di scala dell’intera operazione, non soltanto quella edilizia e immobiliare. Milano 2 è il simbolo di una strategia di comunicazione in cui le scelte architettoniche e progettuali risultano soltanto la parte di un tutto e i cui tempi sono enormemente dilatati. Per certi versi, Milano 2 aiuta a comprendere attraverso quali strade il potere (politico come economico) tenta di costruire oggi le sue forme di legittimazione: con la creazione di un consenso a più dimensioni, in una condizione di apparente appiattimento di frizioni e contrasti sociali e ideologici. Ci sono alcuni errori che è oggi importante non commettere, nell’avvicinarsi a Milano 2. Il primo è quello di considerare Silvio Berlusconi e il quartiere da lui costruito come due sinonimi. “Un nuovo modo di concepire la città, il sogno di Berlusconi urbanista”, è la definizione di Milano 2 letta recentemente in Una storia italiana. Ma anche molta letteratura di segno opposto è spesso caduta nella trappola della personalizzazione, facendo del quartiere “la scandalosa speculazione finanziaria” di un “palazzinaro” “coperto da prestanome e coi capitali di anonime finanziarie svizzere” (Giovanni Ruggeri, Berlusconi. Gli affari del Presidente, Kaos 1994). La questione ci sembra più banale e più complicata al tempo stesso. Milano 2 è un pezzo di città, che riflette solo in parte le logiche del suo promotore e finisce per portare le tracce di una stratificazione complessa di culture: culture tecniche, politiche, visive; degli architetti che hanno partecipato al progetto, o di una clientela composita, le cui aspirazioni e stili di vita non sono state necessariamente convergenti. D’altra parte, la storia del Berlusconi “palazzinaro” non coincide del tutto con quella del Berlusconi imprenditore televisivo o del Berlusconi uomo politico, anche se ne contiene molte premesse e lascia tuttora aperte molte questioni irrisolte. È piuttosto parte di una storia diversa, quella delle forme e del ruolo che un certo tipo di speculazione edilizia e fondiaria ha avuto nelle trasformazioni delle città italiane, e in particolare delle loro periferie, negli anni del secondo dopoguerra. Mentre con Cecilia lasciamo Milano 2, passando accanto alla moschea di via Fratelli Cervi, pensiamo che ci piacerebbe (Inch’Allah) vivere in un paese in cui sulla ricostruzione di questa storia fosse possibile suscitare un dibattito anche indipendentemente dalle congiunture dello scontro politico. Filippo De Pieri Paolo Scrivano