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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

Fermi tutti perché sono troppo severe, dice delle proposte di legge su corruzione, prescrizione e falso in bilancio chi vede una minaccia alle imprese in qualunque recupero di rigore

Fermi tutti perché sono troppo severe, dice delle proposte di legge su corruzione, prescrizione e falso in bilancio chi vede una minaccia alle imprese in qualunque recupero di rigore. Fermi tutti perché quelle norme sono troppo poco severe, protesta al contrario chi mai è sazio di pene draconiane, prescrizioni eterne e intercettazioni indiscriminate. In realtà, se si guarda senza pregiudizio l’attuale versione dei testi al banco di prova dopo due anni di sonno in Parlamento e un anno di annunci a Palazzo Chigi, vi si trova un po’ di tutto. Misure promettenti, a cominciare dall’attenuante premiale per gli imputati che con le proprie informazioni spezzino l’asse corruttore-corrotto. Ma anche furbizie, e i «vorrei ma non posso» frutto di troppi compromessi. Si può alzare quanto si vuole per la corruzione la pena minima-massima da 1-5 anni (com’era fino al 2102) a 4-8 anni (com’è oggi dopo la legge Severino) o a 6-10 anni (come propone ora il governo), e ha senso obbligare chi vuole patteggiare a restituire prima il profitto della tangente: ma ormai tutti hanno compreso che a prosciugare le tangenti attorno ai grandi appalti ben più gioverebbe impedire almeno che i «general contractors» continuino a scegliersi il direttore dei lavori che in teoria dovrebbe controllarne tempi e costi d’esecuzione; o fare ordine in un codice degli appalti di 1.560 commi (più 1.392 del regolamento di attuazione), modificato in 560 punti in 8 anni. Così come il predicato rispetto delle regole sarebbe più persuasivo se la politica tenesse ad esempio presente, specie dopo che tre giorni fa la Consulta glielo ha ricordato dichiarando incostituzionale un decreto del governo Monti e le successive proroghe dei governi Letta e Renzi, che senza concorso pubblico non si possono fare o sanare 1.200 nomine di dirigenti delle Agenzie fiscali, ora a rischio paralisi per quelle eccezioni su eccezioni. Che la salvezza non possa arrivare soltanto dalle leggi in sé, del resto, lo testimoniano le aspettative riposte nella tenaglia normativa fra autoriciclaggio (condotta di chi cerca di occultare la provenienza illecita di ciò che ha guadagnato dalla commissione di un reato) e rimpatrio volontario dei capitali dall’estero entro settembre: grandi potenzialità ma controversi nodi interpretativi stanno producendo tanti convegni tra giudici-avvocati-commercialisti per capirci qualcosa, e sinora una sola contestazione di autoriciclaggio ad opera del pool romano di Nello Rossi. Può accadere anche al nuovo falso in bilancio, benché sia lodevole l’inversione di tendenza di rinvigorire il reato depotenziato nel 2001 da Berlusconi, prevedendo (senza più soglie di punibilità) sino a 8 anni di carcere per gli amministratori sia delle società quotate, sia delle società non quotate ma controllanti (per esempio le casseforti familiari delle grandi dinastie imprenditoriali), sia dei gestori di risparmio pubblico e degli esercenti su un mercato regolamentato italiano o europeo. Quando infatti la relazione che accompagna l’emendamento del governo spiega di aver ricopiato la condotta punibile (l’esposizione di «fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero») dall’attuale formulazione del reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle Autorità pubbliche di vigilanza, tace però che la sta amputando di quattro paroline non da poco: fatti materiali non rispondenti al vero, «ancorché oggetto di valutazioni». A tenore letterale, dunque, resterebbe non punibile una importante fetta di falsi in bilancio: quelli per «valutazioni» (ad esempio tramite l’esagerazione o sottovalutazione della stima del magazzino o dell’ammortamento dei crediti o del valore di immobili e partecipazioni), che persino nella legge Berlusconi erano rimaste penalmente rilevanti seppure sopra la robusta soglia del 10% di scostamento dalla realtà. È un’incertezza ben più significativa, a ben vedere, della diatriba sulla non possibilità di intercettazioni per il falso in bilancio nelle società non quotate, dove il massimo di pena è stato appositamente limato a 5 anni. E si aggiunge all’altra incertezza di come distinguere, sempre nelle non quotate, i falsi in bilancio di «tenue entità» (per i quali i magistrati potranno disporre la non punibilità) da quelli di «lieve entità» (che resteranno reato ma con pena ridotta fra 6 mesi e 3 anni). La moda dell’inasprimento delle pene è poi selettiva nel lasciare ferma e bassa (1-3 anni, quindi niente intercettazioni e misure cautelari) il reato di «traffico di influenze illecite», nel 2012 richiesto (questo sì) dall’Europa per arginare «cricche», «reti gelatinose» o «sistemi» che le varie inchieste faticano a inquadrare: la norma non verrà migliorata, sebbene la Cassazione l’anno scorso abbia rilevato che il traffico di influenze illecite, nel 2012 «presentato all’insegna del rafforzamento della repressione, ha prodotto almeno in questo caso l’esito contrario», di fatto derubricando condotte prima inquadrate almeno nel reato di millantato credito (1-5 anni). Il potere di interdizione delle mutevoli alleanze politiche frena infine le scelte di fondo sulla prescrizione, flagello da 1 milione e 552.000 di procedimenti estinti in 10 anni, il 73% in fase preliminare. La proposta legislativa sul tavolo preferisce continuare ad alimentare la patologica soluzione da un lato di alzare ancora le pene solo di alcuni reati, allo scopo di allungarne surrettiziamente la prescrizione (che per la corruzione giungerebbe a 20 anni); e dall’altro di congelare la prescrizione per tutti i reati dopo la sentenza di primo grado, ma facendola ripartire se l’Appello non si celebra entro due anni e la Cassazione in un anno. È un ibrido che sottovaluta come ad affossare i processi siano soprattutto i tempi morti tra una fase di giudizio e l’altra, dovuti a carenze organizzative e farraginosità procedurali che verrebbero lenìte, molto più che qualunque faccia feroce sulle pene, già dalla rivisitazione di impugnazioni-nullità-notifiche, e dalla copertura degli 8.000 cancellieri mancanti (1.000 dei quali ora attesi in esodo dalle Province e dalla Difesa). Ma soprattutto è un ibrido che non metterà al riparo né i processi dalla marea di impugnazioni strumentali ad approdare all’agognato e solo dilazionato tempo scaduto, né gli imputati da un supplemento di graticola: esigenze che invece forse sarebbero entrambe più tutelate da un termine di prescrizione magari relativamente breve (6/7 anni per arrivare a una sentenza definitiva) ma calcolato a partire non dalla data di commissione del reato, bensì da quella di iscrizione nel registro degli indagati.