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 2015  marzo 15 Domenica calendario

Igor Markev e il caso Moro

Notizie tratte da: Giovanni Fasanella, Giuseppe Rocca, La storia di Igor Markevič. Un direttore d’orchestra nel caso Moro, Chiarelettere 2014, pp. 487, 16,90 euro.

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• «In guerra assai più che non in pace tutto si lega ed è destinato a durare» (Raimondo Craveri, La campagna d’Italia e i servizi segreti, 1980).

• «Perché proprio lì, in via Caetani? Perché le Brigate rosse abbandonarono la Renault con il corpo di Aldo Moro in pieno centro a Roma, nel punto più presidiato di una città in stato d’assedio? La mattina del 9 maggio 1978 l’opinione pubblica non fece neanche in tempo a porsi la domanda che i notiziari, insieme all’annuncio dell’assassinio, avevano già dato la risposta. Moro – martellarono radio e televisione – era stato trovato “giusto a metà strada” fra le sedi del Pci e della Dc: con quel cadavere, le Br avevano voluto inserire un cuneo simbolico tra i due partiti. Quell’interpretazione, subito avallata anche da autorevoli opinionisti, divenne ben presto la verità ufficiale: una verità tanto ribadita da resistere per oltre vent’anni. Via Caetani, però, non si trova tra via delle Botteghe Oscure e piazza del Gesù, dov’erano allora i quartier generali del Pci e della Dc. Basta dare un’occhiata a una qualunque piantina di Roma. (…) Una banale svista topografica, certo. Tutt’altro che banale, però, l’effetto che ha prodotto. Col senno di poi, si può dire che quell’errore, spostando tutta l’attenzione sulla lettura politica dell’azione terroristica, ha contribuito a oscurare il luogo in cui è stato trovato il cadavere».

• «Oggi sappiamo, infatti, che gran parte della vicenda Moro si svolse proprio attorno a quella via. Sappiamo che, se il povero corpo dello statista democristiano venne abbandonato sotto le spesse inferriate di Palazzo Caetani, non fu per un calcolo politico dei brigatisti, ma per tutt’altre ragioni. E sappiamo che quelle ragioni, nascoste troppo a lungo sotto la coltre di un impenetrabile segreto, vanno ricercate fra i misteri di quel palazzo, nelle biografie dei suoi inquilini e frequentatori, tra le relazioni che vi si sono intrecciate nel corso di quasi un secolo».

• «L’autopsia e i risultati delle perizie scientifiche, del resto, stabilirono fin da subito che il presidente democristiano era stato ucciso praticamente sul posto e che la sua ultima prigione doveva trovarsi a non più di cinquanta metri. Che ci fosse uno stretto legame tra quel luogo e il sequestro, lo dimostra anche il fatto che, Moro ancora vivo, il Sismi ne cercasse la prigione proprio a Palazzo Caetani. Ed era arrivato lì seguendo il filo di un nome, quello insospettabile e famoso del direttore d’orchestra Igor Markevič. Ma il servizio segreto non si era spinto oltre quella soglia. E, per vent’anni, di quelle indagini non si è saputo mai nulla».

• «Nella primavera del 1999, quando il nome del Maestro di origine russa venne per la prima volta collegato pubblicamente al caso Moro, si disse addirittura che fosse lui il Grande Vecchio delle Br, l’inquisitore che aveva interrogato l’ostaggio dentro la prigione del popolo. (…) Ma quell’ipotesi tanto clamorosa si rivelò ben presto fragile e poco credibile. E, infatti, il senatore Giovanni Pellegrino, allora presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo, non tardò a correggerla. Nel libro-intervista Segreto di Stato, pubblicato l’anno dopo da Einaudi, attribuì al direttore d’orchestra un ruolo assai diverso, anche se non meno sorprendente: quello del “misterioso intermediario”, entrato in scena nella fase più critica del sequestro, quando le rivelazioni di Moro ai suoi carcerieri trasformarono improvvisamente il caso in un esplosivo affare internazionale».

• «L’ostaggio non aveva parlato solo della corruzione italiana, ma anche dei piani militari della Nato e, soprattutto, del più sensibile dei segreti atlantici: l’esistenza della rete Stay-behind e della sua filiazione italiana, Gladio. Un segreto che andava difeso a ogni costo. Secondo Pellegrino, il “misterioso intermediario” era riuscito a disinnescare gli effetti delle rivelazioni e a portare Moro a un passo dalla salvezza. Ma, sul filo di lana, il colpo di coda di qualcuno aveva capovolto l’esito di una trattativa laboriosa, nella quale erano stati coinvolti i servizi segreti di mezzo mondo».

• «Questa ipotesi ha ricevuto autorevoli avalli. Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca del sequestro, in una pubblica dichiarazione giudicò complessivamente “limpida e onesta” la ricostruzione di Pellegrino. Paolo Emilio Taviani, custode di molti misteri italiani e fondatore di Gladio (con Enrico Mattei e lo stesso Moro), pur gravemente malato, volle incontrare il presidente della Commissione stragi nella sua casa romana nel quartiere Trieste. E, in una lunga e piacevolissima conversazione, tenne a dire che l’ampio scenario delineato in Segreto di Stato era “preciso, credibile ed equilibrato”. Anche l’ammiraglio Fulvio Martini, per molti anni direttore del Sismi, invitò a casa Pellegrino. Sul suo tavolino, una copia del libro, gonfia di post-it e zeppa di appunti a margine, ne rivelava un’accurata e partecipata lettura. “Ammiraglio – gli chiese scherzosamente il senatore, – quanto avrò capito di quello che è successo in Italia? Sarò almeno al quaranta-cinquanta per cento?” Martini sorrise: “Quaranta-cinquanta per cento? Molto di più: siamo almeno al novanta”».

• «L’ipotesi avanzata da Pellegrino sul ruolo di mediatore svolto da Markevič nel caso Moro si iscrive, dunque, in un contesto di altissima plausibilità, ma apre a sua volta mille nuovi interrogativi. Perché affidare un compito così delicato a un musicista e non, per esempio, a uno sperimentato diplomatico o a uno scaltro uomo di intelligence? Chi gli commissionò quella operazione? Perché, seguendo Markevič, si arriva a Palazzo Caetani, proprio nel luogo dove si è consumato l’ultimo atto di quella tragedia? Un direttore d’orchestra, una storica dimora romana, una formazione armata: che cosa tiene insieme questo strano triangolo? Quali segreti, insomma, nasconde la biografia di Markevič? (…) Sotto le molteplici fasi di quell’esistenza, si intravede un filo rosso che dalla Parigi degli anni Trenta porta dritto al caso Moro: solo attraversando quelle lontane vicende, a prima vista estranee al sequestro del presidente democristiano, è possibile trovare la spiegazione e la giustificazione del ruolo di un musicista come Markevič in quella trattativa così complicata».

• «Guardando Markevič con la lente d’ingrandimento, infatti, nel corso dell’indagine si dilatano contemporaneamente anche gli sfondi: il microcosmo degli emigrati russi in Svizzera, costretti a vivere col passaporto Nansen degli apolidi, ma visceralmente attaccati alla patria perduta; i salotti parigini degli anni Trenta, brulicanti di diplomatici e spie, occultisti e avventurieri, regine della mondanità e regine vere, grandi massoni e grandi banchieri, ambigui artisti e non disinteressati mecenati, politici potenti e più potenti faccendieri; la Firenze occupata dai nazisti e pullulante di partigiani e agenti segreti alleati, incaricati di agire dietro le linee nemiche; la Roma del dopoguerra, con il suo cuore pulsante proprio a Palazzo Caetani, e quella violenta degli anni Settanta; una Monaco e la sua principessa Grace Kelly soffocate da strani intrighi…».

• Come quelle di Icaro, personaggio con il quale Markevič ha sempre sentito una profonda affinità, «anche le ali di Igor prendono fuoco nei punti più alti del volo: ora per aver troppo osato, come quando smette di comporre perché, forse, si sente inadeguato a mete eccessivamente alte; ora per l’accanimento della sorte, che lo colpisce, al culmine della sua fama, nel punto più prezioso per un musicista, l’udito. Sul finire degli anni Settanta, però, quando la sordità sembra averlo tagliato fuori dai grandi circuiti, all’improvviso e del tutto inaspettatamente, gli si presenta la possibilità non solo di rientrare in gioco, ma anche di realizzare il suo capolavoro segreto: la trattativa intorno alla salvezza e ai documenti di Moro. A offrirgli questa occasione è, forse, una chiamata, che gli giunge da Palazzo Caetani. E proprio qui finiscono con l’annodarsi tutti i fili che hanno legato Markevič ai coprotagonisti della sua storia».

• «Da oltre un secolo questa massiccia costruzione, attorno alla quale si salda il labirinto di fabbricati della cosiddetta Insula Mattei, è una sorta di Farnesina occulta. Negli anni vi hanno trovato ospitalità numerosi diplomatici, alti rappresentanti di ordini cavallereschi, istituti internazionali, sedi coperte di servizi segreti, logge massoniche. E l’Insula sembra, in qualche modo, la monumentalizzazione della storia stessa dei Caetani. (…) Il dominus di Palazzo Caetani, nel 1978, è un appartato nobile inglese che ha preso in moglie Lelia, figlia di Roffredo e Marguerite. È così diventato parente di Igor che, a sua volta, ha sposato Topazia, cugina di Lelia. (…) È Sir Hubert Howard, che è già stato partner di Markevič in un’altra trattativa segreta, condotta a Firenze durante la guerra. Potrebbe essere lui, ora, il potente Signore di Gladio: proprio il guardiano, cioè, che deve sorvegliare su quell’ordine che le rivelazioni di Moro hanno rischiato di scardinare».

• Al musicologo Michele Dall’Ongaro, amico di gioventù del figlio Oleg Caetani, Igor Markevič sembrava «un druido», «un monaco», «un personaggio assolutamente magico»: «Comunicava un grande senso di controllo e di sobrietà. Era oculato nel denaro (ma non avaro: capace, anzi, anche di grandi generosità), parco nel mangiare… salvo quando si trattava di After Eight. Per quei cioccolatini alla menta aveva una passione smodata!».

• «“Grande e freddo controllo di una passionalità sfrenata”: in questo Dall’Ongaro individua il punto di forza di Igor Markevič, paragonandolo a “una centrale atomica sotto pressione”. “Un uragano controllato” annota il musicologo André Cœuroy sulle pagine di “Beaux-arts”. Markevič, dunque, come un ossimoro. L’opposizione o la conciliazione (magari armata e in equilibrio instabile) di forze conflittuali è il filo rosso che serpeggia in tutte le testimonianze sul “Markevič degli altri”, come lo stesso Igor definiva il Markevič che si offriva al pubblico dal podio».

• «Lo stesso Markevič, del resto, su un dépliant degli anni Quaranta preparato dalla sua agenzia artistica, aveva voluto inserire il lapidario giudizio di un periodico tedesco (l’“Utrechtsch Nieuwsblad”): “Ora diabolico, ora angelico, egli ci rivela la scintilla del genio”. Si accettava, dunque, in questa ambivalenza? Nei suoi scritti viene spesso ribadita la consapevolezza di questa intima pluralità. Arriva perfino a dichiarare di aver “conosciuto tutto, tranne la coerenza” o a rivendicare “una sorta di bisessualità, caratteristica di ogni natura creatrice”».

• «Un aristocratico d’altri tempi, coltissimo, raffinato, seducente, al quale avevano obbedito le orchestre più prestigiose del mondo, al quale era toccata in sorte l’amicizia o la frequentazione dei nomi più sonori del Novecento. Quest’uomo, già assiduo frequentatore dei salotti più esclusivi, amava arroccarsi in una semplice casa su uno strapiombo, sopra Saint-Cézaire-sur-Siagne, in Costa Azzurra (ma nell’entroterra, sulle Alpi Marittime), cui si arrivava senza macchina, remota come un castello o un eremo. A fare cosa? A scrivere, soprattutto. “Scrivere era la cosa che amava di più” dice Oleg». Markevič scrisse infatti due autobiografie, a distanza di molti anni l’una dall’altra: la prima, Made in Italy, nel 1948, la seconda, Être et avoir été, nel 1980. Ne sarebbe dovuta seguire una terza, sui suoi ultimi anni di vita, ma la morte improvvisamente sopraggiunta il 7 marzo 1983 gli impedì di scriverla, o di pubblicarla.

• «Quest’uomo così evidentemente imperscrutabile è il primo a interrogarsi continuamente sul suo stesso enigma. “Un uomo non è, forse, prima di tutto, il suo vocabolario? Conoscere la storia del mio sarebbe come possedere la chiave di questa costruzione misteriosa che sono io. Anche a me, come a voi lettori, è purtroppo negato il potere di decifrare che cosa ci diciamo, l’universo e io”. (…) “Un segreto istinto mi suggerisce talvolta che io non sarò vissuto che in funzione di un capitolo finale, che darà valore e giustificazione agli altri capitoli riuniti”».

• Igor Borisovič Markevič nacque il 27 luglio 1912 a Kiev, in Ucraina, figlio primogenito di Boris Nikolaievič e di Zoja Ivanovna Pokhitonova. «Nel suo atanor, nel vaso alchemico in cui si è formato il suo essere, si sono fusi i patrimoni genetici più vari e contrastanti. Due etmani, capi indiscussi della comunità cosacca, e uno svagato pittore tartassato da un’energica moglie finlandese, pioniera in medicina e divorzio. Un rigoroso storico e un utopista dell’indipendentismo panslavo. Un bisnonno massone ed etnomusicologo, e suo figlio, senatore e violoncellista possessore del mitico Stradivarius n. 7. Una celebre poetessa ucraina e una zingara stupenda, chiusa in un harem come in una conigliera a figliare ventiquattro volte. Pigri latifondisti e affrancatori di contadini. Rudi domatori di cavalli e raffinati amici di Gogol’, Puškin, Tolstoj, Glinka, Rubinštein, Rimskij-Korsakov, Ljadov… Un mosaico, da cui Markevič rifiutava di trarre un’identità sociale. (…) In Made in Italy ha lasciato scritto: “Io sono figlio di proprietari terrieri dell’Ucraina e me n’è rimasto un profondo amore per la campagna. Ho la fortuna di non essere più schiavo delle mie proprietà, come un Tolstoj che trovava in esse un ostacolo alle proprie convinzioni”».

• «Benché profondo e addirittura biologico, tuttavia, il rapporto con l’Ucraina si configura per Markevič sempre e solo come nostalgia per un’Antica Madre perduta. Non vi rimane, infatti, che per i primi due anni di vita. (…) Malato di tubercolosi, a ventidue anni Boris Nikolaievič decide di dedicarsi totalmente al pianoforte e, dopo aver ceduto proprietà e privilegi al fratello maggiore, va a perfezionare la sua formazione artistica e a curare i suoi polmoni sotto i più miti cieli di Francia, portandosi dietro moglie e figlio. (…) La permanenza è però di breve durata, perché, nell’inverno del 1915, aggravatosi ulteriormente il suo stato di salute, Boris Nikolaievič è costretto a seguire il consiglio dei medici e a recarsi in Svizzera». Qui, essendo nel frattempo scomparsa la Russia che conoscevano, decidono di fermarsi, e si stabiliscono a Villa Maria, sorta di dacia isolata nei pressi di Vevey. Per mantenersi, Boris comincia a dare lezioni private di musica, e Zoja impianta un allevamento di polli.

• «Igor trascorre l’infanzia tra i rigori del clima e della ristrettezza, in scuole mediocri, tra rapporti sociali radi e poco stimolanti, senza poter neppure molto giovarsi del dono paterno per la pedagogia. Una merce, questa, che Boris è costretto a vendere a gran fatica, nel gelo di quelle stanze che infierisce sui suoi poveri bronchi di tisico: di tempo e di forze, dunque, non ne restano che pochissimi per il figlio. Igor, tuttavia, conserverà come viatico e talismano tutti i più piccoli semi che il destino concede al padre di donargli. Molti di essi, accuratamente coltivati, germoglieranno fino a conformare i più importanti aspetti della sua personalità adulta e del suo lavoro futuro».

• «Sapendo di non avere più tempo per una pedagogia lunga e strutturata, Boris si serve degli scacchi per rivelare a suo figlio il modello di ogni altro metodo. (…) Su una scacchiera invisibile, Boris e Igor si comunicano le mosse a voce, potando le siepi, pulendo un sentiero, facendo qualunque altra cosa. La concentrazione, la memoria, l’ideazione, la dedizione totalizzante, il “muoversi nell’astrazione” che questa modalità di gioco richiede e sviluppa sono i parametri di qualunque altra partita, di qualunque altro operare. Anche la musica, Boris l’insegna al figlio senza strumento, chiedendogli di raffigurarsi l’immagine del suono nella sua mente, di concepire la melodia prima di realizzarla come il Discobolo di Mirone, colto nel momento di stasi in cui progetta il suo lancio. Nel “druido” Igor, questo procedimento porta a una lucida religione della mente, quasi a una sorta di magia della razionalità».

• «Quando muore, nel 1922, Boris ha solo quarantasette anni. Il primogenito non ne ha che dieci, Nina solo sei. L’ultimo nato, Dimitri (diventato, poi, un noto violoncellista), non ha neanche compiuto una settimana di vita. (…) Principe di un castello diroccato, Igor studia nel Collegio di Vevey, sperimenta i primi amori, ancillari e non, affascina vecchie signore dilettanti di musica (una di loro, afflitta da cecità, gli lascia in eredità il pianoforte), va per la prima volta a un concerto (quello dell’allora giovane Clara Haskil, che molti anni dopo, divenuta celeberrima pianista, sarà sua grande amica), ma soprattutto si mostra condiscendente verso le due passioni culturali di Zoja: i capolavori, in lingua originale, della letteratura russa e i testi di storia. Non accoglierà mai, invece, la visione cristiana della madre».

• Nonostante abbia dovuto abbandonare insieme ai figli Villa Maria per trasferirsi in un ancor più modesto appartamento, svolgendo ogni sorta di lavoretto Zoja riesce a mantenere la famiglia, e persino a pagare «per Igor – che studia pianoforte presso una modesta insegnante del luogo – delle costose lezioni supplementari con un giovane destinato a una brillante carriera, Paul Lyonnet. Un altro grande Maestro, dopo Boris, da cui Igor apprenderà soprattutto quella dissociazione muscolare, posta da lui a fondamento della sua tecnica direttoriale. Con lui, però, capisce anche che non si sente (né si sentirà mai) un pianista. Ha già cominciato a pensare per suoni, con l’ossessione di un drogato».

• Un giorno passa per Losanna il grande pianista Alfred Cortot, e, «grazie all’interessamento di amici comuni, il sommo interprete di Chopin concede un’audizione al quindicenne Igor che, nel negozio di pianoforti Foetlish, esegue per lui la sua prima composizione. Il Maestro ne è colpito e gli chiede di ripeterla. Chiama, alla fine, Zoja Ivanovna e le domanda il permesso di occuparsi personalmente dell’educazione di suo figlio. Promette che lo farà accettare nella prestigiosa École Normale de Musique di Parigi e, per non mettere a disagio la vedova, le prospetta una degna soluzione economica: il ragazzo non pagherà alcuna retta, godendo di un prestito d’onore. È così che nell’autunno del 1927 i Markevič subaffittano l’appartamento svizzero e si trasferiscono in square des Batignolles a Parigi. (…) Alla Normale, Cortot affida Igor a Madame Kastler per lezioni di piano che non vanno, però, molto al di là di oneste esercitazioni. Per quelle di armonia, contrappunto e analisi musicale, invece, lo assegna alla classe della leggendaria Nadia Boulanger, forse la più geniale didatta musicale del suo secolo».

• «Le lezioni di Nadia illuminano la mente, ma anche l’udito di Igor, che si affina e si potenzia fino a percepire l’oceano sonoro in cui siamo immersi, gli infiniti brusii della natura e soprattutto le mille, entusiasmanti voci di Parigi, “la più bella sinfonia concreta”. L’adolescente comincia a uscire di casa, a immergersi nella città, a svicolare, a conoscere posti nuovi, a diventare amico di molti nomi, letti fino a quel momento solo su giornali o locandine. (…) L’incontro più straordinario, però, è quello che, varcati da poco i sedici anni, gli combina una strana pronuba del destino, quella che – come dirà Igor – modella con un colpo di pollice la creta della sua vita: Aleksandrina Trusevič, sedicente segretaria di Sergej Pavlovič Djagilev, in realtà solo una delle infinite comparse del grande carrozzone dei Balletti russi, tuttofare industriosa dai tratti e dall’energia di contadina». Entusiasta delle composizioni di Igor, Aleksandrina gli suggerisce di scrivere un pezzo appositamente per Djagilev, col quale riesce quindi a fissargli un appuntamento.

• Quel giorno Djagilev, dopo aver portato Igor a rifocillarsi in pasticceria, «ansioso di ascoltare la sua musica, lo conduce al più vicino pianoforte, quello della sua amica Coco Chanel. Intimidito dai solerti maggiordomi e inebetito dal profumo delle tuberose, il giovane compositore esegue i suoi pezzi davanti a un Djagilev ora serio e concentrato. Preso da un entusiasmo addirittura smanioso, l’impresario è soprattutto colpito da uno dei brani e vuole farselo ripetere. Igor gli dice che è la Sinfonietta, composta espressamente per quell’occasione, e conquista ulteriormente l’ascoltatore con la profondità e l’ampiezza delle sue teorie musicali. “Non ci lasceremo più, vero?” implora infine Djagilev, estasiato e disarmato. È così che, appena uscito da sotto l’ala della mamma e dal suo villaggio alpino, Igor si ritrova all’improvviso sotto i riflettori del gran mondo, preso per mano dal leggendario Djagilev, l’arbitro della vita teatrale e musicale parigina».

• Per promuovere la propria immagine nei più esclusivi salotti delle capitali culturali e mondane d’Europa, Djagilev ha elaborato la strategia «del calabrone», per la quale impiega «una fitta scacchiera di amiche, confidenti e informatrici, tutte signore del gran mondo lusingate dall’essergli complici. “In ogni città importante – annota Igor, quasi a ben apprendere quest’arte di pubbliche relazioni – egli contava almeno su una dama, che nominava ape regina. Andava dall’una all’altra e ronzava loro le sue buone novelle, incaricandole di produrre il miele più efficace possibile”. A Parigi può contare sulla principessa di Polignac, sulla contessa di Greffulhe, su Coco Chanel, su Misia Sert, sulla principessa di Noailles. A Londra su Lady Cunard, Lady Juliet Duff, Lady Ripon...»

• «Djagilev lo innalza immediatamente al rango di enfant prodige, di nuovo genio della musica, scrivendo il suo nome ancora oscuro accanto a quelli già luminosissimi che rendono così preziosi i suoi cartelloni. Lo presenta a Larionov, a De Chirico, a Darius Milhaud, a Max Jacob; gli fa dare lezioni dal compositore Vittorio Rieti; gli propone di scrivere un balletto con coreografie di Lifar e scene di Picasso; gli fa firmare un lauto contratto per il debutto a Londra del suo Concerto per piano».

• Ben presto Igor è «tutto preso da eventi che solo pochi mesi prima non avrebbe neanche osato sognare, frastornato dall’intimità con un uomo così potente che sembra fargli toccare il cielo con un dito. Il ragazzo lo chiama Cincillà, nomignolo scherzoso e segreto che gli hanno affibbiato gli amici più cari per via dei due dentoni anteriori e della ciocca bianca irta sulla fronte. Vanno insieme in giro per l’Europa, frequentano gli alberghi e le case più esclusive, parlano con Richard Strauss, con Sergej Prokof’ev… Igor vede eseguito il suo Concerto per piano al Covent Garden di Londra. È un sogno a occhi aperti, per lui. E lo è quasi di più per Sergej Pavlovič: “È tutto troppo bello” gli sussurra tremante. “Ho paura”».

• «I corpi maschili e giovani gli appaiono [a Djagilev – ndr] come sacramento della vita. Si dedica a guidarli, a farli sbocciare, con una cura più ingenua che perversa, officiando anzi per essi una sorta di vera e propria liturgia. “Mi prestavo ai suoi desideri fisici – ricorda Markevič – tanto per la fascinazione da lui esercitata su di me che come ci si piega a un rituale”. Prevedendo e temendo gli sviluppi erotici di questo rapporto, Zoja Ivanovna scrive una lettera accorata a Djagilev, scongiurandolo di rispettare suo figlio. L’infuriato impresario si sente intimamente offeso da quelle che gli appaiono insinuazioni indegne dei suoi reali sentimenti e Igor è lacerato tra la dedizione alla madre, mai venuta meno, e l’attaccamento al nuovo amico. Vince, infine, quest’ultimo e Sergej Pavlovič ottiene da lui una netta presa di posizione a suo favore, che gli pare sancire l’indissolubilità della loro unione. Si sente tanto definitivamente sposato con Igor che, quando questi gli confessa di avere una fidanzata, lui gli propone di vivere insieme tutt’e tre».

• Il 19 agosto 1929, Djagilev muore a Venezia. «È ospite del Grand Hotel des Bains, al Lido, e si spegne ridendo e cantando la Bohème. La predilezione del monarca ha già procurato a Igor le gelosie e le ostilità dei cortigiani e degli artisti che si sono sentiti messi da parte. Qualcuno ora arriva addirittura a tacciarlo di essere stato, per eccesso di libidine, la causa della morte di Djagilev. (…) Appresa dai giornali la notizia, anche Igor tenta di affogarsi nel lago presso la diga di La Tour, ma è portato a riva da alcuni pescatori».

• «Ripensando, da vecchio, alla prematura fine di quella folgorante relazione, che – per usare le sue parole – lo aveva lasciato più orfano di quando era morto suo padre, Markevič confessa di aver provato a tutta prima un forte risentimento. Si era sentito tradito e abbandonato da chi aveva approfittato della sua ingenuità, spingendolo su una strada contraria alla sua natura. Ben presto, però, si era ricreduto, considerando che la sessualità di Djagilev era forse ancora più ingenua e adolescenziale della sua».

• «Dopo la morte dell’impresario, però, Igor non resta del tutto solo. Misia Sert, la Polignac, la Noailles, la Greffulhe e le altre “api regine” gli vengono incontro per accogliere e proteggere l’orfano di Djagilev. Gli commissioneranno delle opere, lo soccorreranno nei momenti difficili, gli apriranno porte insospettate, lo guideranno nella città tentacolare, la vitalissima Parigi degli anni Trenta. Praticamente il centro del mondo».

• È proprio nella Parigi degli anni Trenta che Markevič entra per la prima volta in contatto con alcuni membri della famiglia romana dei Caetani, stringendo presto amicizia con Roffredo Caetani, compositore tenuto a battesimo da Liszt («assiduo frequentatore di Palazzo Caetani a Roma, in cui spesso teneva concerti»), e, soprattutto, con sua moglie Marguerite Chapin Gibert, colta americana di New London (Connecticut). Assiduo frequentatore della loro Villa Romaine a Versailles («casa italiana sul suolo di Francia» secondo Ungaretti), sempre aperta ad artisti e intellettuali di ogni nazione, secondo quanto racconta egli stesso in Être et avoir été Markevič stringe presto con Marguerite «un’amicizia a tutta prova»: «Faceva parte di quegli americani che sanno vivere in Europa, spesso distanziando di molto gli europei stessi e applicandosi ad apportarvi il meglio di sé. (…) Mi capiterà di diventare nipote di Roffredo e Marguerite, sposando la loro nipote Topazia, nel 1947. La famiglia contava due figli: Lelia, che dipingeva gradevoli paesaggi, e Camillo, che doveva morire nella stupida guerra dichiarata da Mussolini contro la Grecia».

• Nel 1932 «i Caetani decidono di tornare a Roma e alla bellissima oasi di Ninfa, nel loro feudo di Sermoneta, che assorbirà per molto tempo tutte le cure di Marguerite. Nello stesso anno, al Festival Vicomte de Noailles a Hyères, viene eseguito un piccolo brano di Markevič, Galop, con lo stesso autore al pianoforte e la direzione di Désormière. Pare che la composizione sia stata commissionata proprio da Marguerite. Prima di partire, forse, la principessa ha voluto suggellare quell’“amicizia a tutta prova”, di cui parla Igor nelle memorie. Ancora una volta, dunque, una donna si è presa cura di lui».

• «Lo tacciano di arrivismo, lo accusano di essere presuntuoso, spregiudicato, cinico. Un amico – si racconta – lo vede salutare un critico, particolarmente acrimonioso, e lo rimbrotta: “Perché saluti un imbecille simile?”. Igor risponde calmo: “E perché ci tieni tanto ad avere gli imbecilli contro di te?”».

• «Il giovane musicista impressiona tutti, con quel profilo “da rondine in collera”, con il prestigio che gli deriva dall’essere stato l’ultima scoperta di Djagilev. Lui ne è consapevole e gioca a fulminare con lo sguardo strumentisti e pubblico. Al Festival Vicomte de Noailles, Marie-Laure [la viscontessa di Noailles, già sposata e madre di due bambine, divenuta poi sua amante – ndr] lo vede eseguire al piano il suo Galop e ne riceve un’emozione sensuale: “Sa carezzare i tasti di avorio come se spogliasse la musica per renderle la sua libertà nell’ebbrezza di un abbraccio”».

• «Quando, però, lo presenterà a Laure de Chevigné, la nonna si solleva un po’ sui cuscini del suo letto di malattia per squadrarlo bene e, con un ultimo guizzo di albagia, esprime la sua delusione: “E sarebbe questo il tuo famoso Markevič? A me pare solo un chierichetto”. Marie-Laure sa che dietro questo verdetto ci sono altri discorsi che tante volte l’esperta dama di mondo le ha fatto: “Tutto quello che so – amava ripeterle – l’ho imparato facendo all’amore, bambina mia. Certe cose te le può insegnare solo un amante. Un marito, no. Il mio amante dopo… mi portava anche al Louvre… non è che si può stare sempre abbracciati”. Come a dire che quell’untorello, quel “gigolò da banco di scuola”, come lo definisce qualcun altro, ha ben poco da dare a una Chevigné».

• «Incuranti di tutti, i due continuano a stare insieme. Per Marie-Laure comincia una rigenerante metamorfosi, che sembra darle per la prima volta serenità e concretezza. Lei che – come dice Igor – non ha mai saputo che farsene delle sue dieci dita, accudisce alla casa, bada alla spesa, scopre una nuova attenzione alle cose, cura il suo amato, gli fa conoscere la pittura senese (che a sua volta ha imparato ad amare da Berenson), gli fa leggere Il paradiso perduto di Milton, suggerendogli di trarne un oratorio. Vanno in giro con una fiammante Bugatti a conoscere quella folta colonia di artisti e mecenati internazionali che ha scelto la Svizzera sia come rifugio che come crocevia di importanti relazioni».

• Nel frattempo però Markevič ha stretto un’intima amicizia con Jean Cocteau, bizzarro poeta, artista e regista appassionato di esoterismo e dal 1918 Gran Maestro del Priorato di Sion («una setta segreta tra le più misteriose», la cui simbologia è incentrata sulla Tavola Rotonda e sul Graal). Nel 1934, «perseguitato da creditori e strozzini, “demoralizzato per il mondo e i suoi disordini”, Cocteau prende pipe per oppio e nécessaire per scrivere e disegnare, e si accampa a Villars da Igor. Com’era prevedibile, Marie-Laure viene a piantonarli, affittando con le figlie uno chalet lì vicino. Igor, però, esasperato, le dice che non ha nessuna intenzione di lasciare Jean. Con sua meraviglia, la “viscontessa del bizzarro”, come l’ha definita il suo biografo, questa volta non ruggisce, non si infuria. Se ne va e, con grande signorilità, farà giungere a Markevič un contratto vertiginosamente favorevole (una buonuscita?) da parte di suo marito per Il paradiso perduto, che lei gli aveva commissionato. Jean e Igor si trasferiranno per quasi un anno a Corsier, nella casa di Zoja Markevič, in un’amicizia “molto fraterna”».

• Nel corso della loro convivenza a Corsier, tra l’altro, Cocteau inizia Markevič ai misteri dell’esoterismo, dischiudendogli quel «patrimonio di conoscenze e di relazioni» che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. In particolare, è lui a introdurlo negli ambienti della Round Table, «una organizzazione segreta (tra alta finanza, esoterismo e massoneria) che aveva come obiettivo il governo mondiale da parte di una federazione dei paesi di lingua inglese»: contigui al gruppo sono anche il diplomatico Esme Williams Howard e lo storico dell’arte Bernard Berenson, che a breve si legheranno a Markevič, «il secondo direttamente, il primo attraverso suo figlio Hubert, che gli diventerà cugino acquisito. (…) Da questa epoca comincia una lunga muta che porterà Igor, durante la guerra, “a fare pelle nuova”».

• «Quanta parte abbia la dimensione esoterica nel pensiero e nella poetica di Markevič è dimostrato, del resto, proprio da quello che è forse il suo capolavoro, l’oratorio Il paradiso perduto. Nelle sue memorie Igor dice di aver perseguito, con questa composizione, l’idea di un’orchestrazione sacrale e cita significativamente come modello il preludio del Lohengrin, l’opera forse più densa di contenuti mistici: “La grazia del Graal, dapprima lontana, si avvicina al mondo per abbracciarlo interamente. Ora, il modo in cui Wagner disegna l’idea come un triangolo per l’orecchio, facendolo nascere dall’alto della scala sonora per poi amplificarlo, gli assicura una realtà trascendente che resta insuperata. Qui la musica è conoscenza”. Conoscenza che, come si vede, è legata a simboli iniziatici come il Graal, il triangolo e la scala».

• «“Una superba, piccola gorgone pronta tanto alla passione che alla fuga, i cui grandi occhi di felino proiettano la loro giungla sulle cose, facendo sembrare artificiale tutto quello che guardano”. Quest’ardente medusa, il cui sguardo selvaggio attizza l’algido magnetismo di Igor, è Kyra, la figlia del grande Vaclav Fomič Nižinskij. Dopo un balletto di comparse adolescenziali, è lei la prima, vera protagonista della vita sentimentale del giovane musicista, che con lei ritrova “la materia prima di cui è fatto l’uomo”». Il 20 aprile 1936 Markevič sposa a Budapest Kyra Nižinskaja, e da lei il 20 febbraio 1937 ha il suo primo figlio, Vaclav.

• Nel 1939 Markevič si trasferisce a Firenze, dove l’anno successivo lo raggiungono la Nižinskaja e il figlioletto. Presto i tre prendono a frequentare sempre più assiduamente Bernard Berenson (“B.B.” per gli amici), storico dell’arte ebreo lituano naturalizzato statunitense (affiliato alla Round Table), e la sua villa «I Tatti» di Settignano, al punto di esserne stabilmente ospitati per vari anni presso il Villino, una dépendance della villa. Qui Markevič continuerà a risiedere anche dopo la separazione dalla moglie, la quale, lasciato il piccolo Vaclav al padre, si trasferirà dapprima a Roma e poi, al termine della guerra, a San Francisco, dove trascorrerà il resto della vita.

• «Igor e B.B. hanno in comune un tratto importante: la particolare, straordinaria capacità di utilizzare una memoria mirabilmente addestrata (ovvero dispongono di un’analoga struttura mentale). Entrambi sono giunti a dotarsi di una sorta di terzo occhio, una visione interiore che consente loro una funzione in più: quella di astrarre e connettere i dati della visione fisica. Per il musicista questa visione sceglie come suo strumento prima la scacchiera immaginaria, il gioco alla cieca insegnatogli dal padre, poi una partitura e un’orchestra invisibili. Allo stesso modo, lo storico dell’arte si crea nella sua immaginazione una galleria ideale. Egli è “l’uomo che manda a memoria i quadri”, secondo la definizione del critico Fabrizio d’Amico. Per supplire alla carenza e all’inadeguatezza delle immagini nei libri d’arte del tempo, Berenson immagazzina nella sua memoria, con straordinaria precisione, i quadri che man mano vede durante le sue esplorazioni. La sua mente si arricchisce così di sinapsi, che conferiscono al connaisseur quella geniale capacità di relazionare un pittore a un altro, un’opera a un’altra, un dettaglio a un altro. Igor e B.B., dunque, si riconoscono come intimamente simili. Su questo basano una lunga amicizia».

• Quando, tra il settembre 1943 e il settembre 1944, Berenson – in quanto ebreo e statunitense – deve rifugiarsi presso la vicina villa del marchese e ministro di San Marino Filippo Serlupi Crescenzi, protetta dall’immunità diplomatica, e i nazisti prendono possesso di Villa «I Tatti» installandovi un loro comando, è proprio Markevič a gestire le mille relazioni di B.B. e a fare le sue veci, tenendolo costantemente informato su tutto, sacrificando anche la propria attività artistica.

• «Nel Villino vengono intanto ospitati e rifocillati molti partigiani e si tengono riunioni redazionali di giornali clandestini, con i quali Markevič ha cominciato a collaborare. Identificandosi ancora una volta con il suo Icaro, Igor, infatti, sta cambiando pelle. E come ogni mutazione, anche questa contempla morte e rigenerazione: “Durante i primi anni di guerra – scrive chiudendo le sue memorie – assistevo con profonda angoscia al naufragio di una civiltà che fu la mia. Mi sentivo inghiottito con lei, senza speranza di rinnovamento e senza aver avuto il tempo di essere realmente compreso né di vedere la mia opera prendere il suo posto”. Spezza dunque la sua penna di compositore. Una decisione che forse è suicidio creativo, forse solo volontà di rinascere in una dimensione totalmente diversa: “Nel 1941 ho spesso il sentimento della mia morte. Nel 1942 l’incontro con dei tenenti della Resistenza italiana fa nascere in me un uomo nuovo”». Particolarmente stretti sono i rapporti di Markevič con i Gruppi di azione partigiana o patriottica (Gap) fiorentini; è probabilmente grazie a essi che entra in contatto con l’avvocato torinese Raimondo Craveri, esponente del Partito d’azione e genero di Benedetto Croce, di cui, nel 1937, ha sposato la primogenita Elena.

• «Oltre che scrivere sul “Partigiano” e su altri fogli, Igor, con una bicicletta prestatagli da un amico, va su e giù per le colline a trasmettere informazioni, a ragguagliare Berenson, a prendere disposizioni e direttive, a raccogliere aiuti per la causa. Compone un inno partigiano e arriva perfino a partecipare a un picaresco attentato alla linea Arezzo-Firenze, nel quale però viene fatto deragliare il treno sbagliato. La gente, che vede questo musicista straniero rischiare la pelle per una lotta non sua, gli tributa commoventi testimonianze di gratitudine e anche di rispetto. I contadini vanno a chiedergli ogni sorta di consiglio, quasi fosse un medico o un saggio dal sapere infinito. Igor è pienamente consapevole che questo periodo costituisce uno snodo fondamentale della sua vita e decide di chiudere in questo punto Être et avoir été, la prima parte delle sue memorie: “Appartenevo, ogni giorno di più, a un nuovo mondo, di cui la Resistenza antinazista appariva l’apprendistato”».

• «La “spoletta” Igor è in questo momento in grande fibrillazione. Va e viene da Villa Serlupi, il rifugio segreto di
Berenson. Frequenta il console svizzero. Fiancheggia la lotta partigiana ed è collegato con gli ambienti intellettuali antifascisti. È in contatto con l’Ori di Raimondo Craveri [Organizzazione della Resistenza Italiana: rete di coordinamento tra i partigiani legata agli americani – ndr] e con l’Oss americano [Office of Strategic Services: il servizio segreto americano durante la guerra – ndr]… E tutto questo, praticamente, sotto il naso degli alti ufficiali tedeschi, che si sono acquartierati in casa Berenson, a pochi passi dal suo Villino, nello stesso recinto de I Tatti».

• «È proprio la frequentazione del comando tedesco a I Tatti che gli consente di apprendere con anticipo di una retata, nella quale dovrebbe cadere anche Carlo Levi. L’autore di Cristo si è fermato a Eboli, che ora milita nel gruppo fiorentino di Giustizia e libertà, riesce a salvarsi solo perché Igor, inforcata immediatamente la bicicletta, è corso ad avvertirlo. A dimostrazione dell’affettuosa gratitudine che gli serberà per tutta la vita, Levi dipingerà per lui uno dei suoi intensi ritratti».

• Tra la primavera e l’estate del 1944, quando le forze angloamericane sono ormai in prossimità di Firenze, dove sono però ancora acquartierate le milizie naziste, ha luogo, sollecitata da ogni parte, una singolare trattativa tra gli eserciti nemici per rendere almeno di fatto Firenze «città aperta» ed evitare di farne un campo di battaglia, al fine di preservarne gli innumerevoli tesori artistici. «La trattativa non ha bisogno di passare le linee: a Firenze, benché all’apparenza isolato, c’è Bernard Berenson e, dopo tutto, è di arte che si tratta. E per interloquire con lui, sapendo ovviamente che il messaggio sarà subito smistato ai giusti destinatari, i tedeschi non devono andare lontano: a pochi passi da loro abita l’unico tramite di Berenson con il mondo, Markevič. Igor, dunque, è visto come rappresentante della parte alleata, in quanto portavoce di Berenson, ma di ritorno finisce per essere anche il tramite con i nazisti. (…) La spoletta Igor, dunque, ha portato i messaggi dei nazisti da I Tatti a Villa Serlupi, sapendo che a sua volta Berenson, attraverso i propri canali, li avrebbe trasmessi Oltrarno ai servizi segreti alleati, e cioè proprio alla divisione di Hubert Howard», ufficiale inglese del Psychological Warfare Branch (Pwb), il servizio segreto alleato impiegato nella guerra psicologica e nella propaganda.

• «Il ruolo delicato che Hubert John Edward Dominic Howard riveste è l’evidente punto d’arrivo di una sperimentata carriera di uomo di intelligence». Figlio di un barone e diplomatico inglese (Esme Williams Howard, affiliato alla Round Table) e di una principessa romana, Hubert Howard ha «stretti legami con l’Italia: suo padre è stato ambasciatore a Roma e la madre appartiene alla nobiltà di quella città. (…) Inoltre, ha buoni rapporti con la famiglia Caetani. Suo fratello Edmund, diplomatico a Roma, abita già da tempo a Palazzo Caetani. Hubert va a trovarlo, in quello stesso 1944, subito dopo l’entrata in Roma degli Alleati, e conosce Lelia Caetani, che sposerà nel 1951. Markevič a quel tempo avrà già preso in moglie la cugina di Lelia, Topazia, figlia di Michelangelo Caetani. E così i nodi si stringeranno attorno al Palazzo di Botteghe Oscure».

• Agli inizi della carriera ecclesiastica, monsignor Giovanni Battista Montini (il futuro papa Paolo VI) è per alcuni anni assistente ecclesiastico nazionale della Federazione universitaria cattolica italiana. Anche in seguito, «benché si sia ufficialmente dimesso dalla direzione, Montini è rimasto delegato spirituale della Fuci ed è stato lui nel 1939 a far nominare presidente dell’associazione uno studente di Giurisprudenza barese, che il prelato sta già seguendo con attenzione da quattro anni. Si chiama Aldo Moro. Nel 1941, da poco laureato e già chiamato alla cattedra di Diritto penale, ha dovuto lasciare l’incarico e andare al fronte. Per la sua sostituzione, Montini ha scelto un altro neolaureato in Legge, che non ha superato le selezioni per allievo ufficiale. È stato assegnato, perciò, ai servizi sedentari e qualcuno l’ha fatto distaccare al Vaticano come guardia palatina. È un romano, precocemente orfano e perennemente tormentato da forti emicranie. Proprio per questo è stato scartato all’ospedale militare del Celio, dove il capitano medico Ricci gli ha diagnosticato proprio un’oligoemia di Olesen, prevedendo come prognosi sei mesi appena di sopravvivenza. Il giovane è Giulio Andreotti e quando, nel 1959, diventerà ministro della Difesa, manderà a chiamare quell’ufficiale di sanità per dirgli che è ancora vivo. Si sentirà rispondere che il capitano Ricci non può venire: è morto prima lui».

• «“Stavamo in fila sull’attenti. Giacche da soldato grigio azzurre, gonne grigio azzurre e, grigio azzurro, un berretto che Topazia detestava; le cinque ambulanze in fila dietro di noi. Il vescovo militare ci ha dato la benedizione e siamo partite verso il Nord. Dopo poco la guerra è finita”. Quelle crocerossine si chiamano Marilise Carafa, Bubù Boncompagni, Topazia Caetani. Chi le descrive è la loro amica Suni, cioè Susanna Agnelli, che rievoca i giorni di una Firenze desolata, in mano a nazisti e cecchini, e le disperate condizioni degli improvvisati centri di assistenza, organizzati da Umberto Zanotti Bianco. Topazia è molto amica di Suni: è stato proprio alla sua festa dei diciott’anni, all’Excelsior di Roma, che la Agnelli ha avuto il primo bacio. Cora Antinori, la madre di Topazia, ha però sempre guardato con un po’ di sufficienza questa borghese che, benché nipote di senatore, non può farsi chiamare “donna” come sua figlia e le altre sue amiche. Spesso, negli anni adolescenziali, Suni ha confidato le sue storie a donna Marilise e a donna Topazia, che l’ha rimproverata di frequentare troppi ragazzi. “Non ha senso essere fedeli – risponde la pragmatica Agnelli – se non si è innamorati”».

• «Secondo Oleg, i suoi genitori si sono incontrati per caso su un treno e discorrendo Igor ha capito che la crocerossina è la figlia di quel signore paralizzato, Michelangelo Caetani, che aveva conosciuto anni addietro a Ninfa dai suoi amici e mecenati Roffredo e Marguerite. La giovane patrizia è conquistata dal bel tenebroso. (…) Michele Dall’Ongaro descrive la ragazza come antipodica a Igor: solare, estroversa, sorridente, con dei tratti piuttosto forti per un’aristocratica e una vaga somiglianza con Anna Magnani. Igor e Topazia si sposano nel 1947 nella chiesa ortodossa di Vevey. Cora, delusa e irritata dalla scelta della figlia, non va a quel matrimonio che per solidarietà viene disertato anche dai suoi parenti Antinori e Caetani».

• «Topazia Maria Benedetta Diana sembra voler tagliare i residui legami familiari quando accetta di andare a vivere col marito a Morges, sul lago Lemano (dopo la tradizionale luna di miele a Venezia, presso i conti Volpi di Misurata). (…) A Morges nasce Allegra, il 31 marzo 1950, e Susanna Agnelli le fa da madrina. Il 6 marzo dell’anno dopo, viene alla luce Nathalie. Vaclav, il figlio di Igor e Kyra, è mandato in un collegio inglese, ma passa da loro tutte le estati e si affeziona a Topazia, che chiama “mamma”. (…) Il 5 ottobre 1956 nasce Michel Ange-Oleg, che, al battesimo, è tenuto in braccio da Nadia Boulanger. Gli fanno da padrini Lelia Caetani e Lord George Henry Hubert Lascelles, VII visconte di Harewood».

• «Igor, intanto, che a Firenze ha cominciato a farsi un repertorio sinfonico, continua a estenderlo studiando con assiduità. Topazia ne protegge la concentrazione, assumendosi ogni incombenza pratica ed evitando che i bambini lo disturbino. A parte il divieto di giocare sotto le sue finestre, Allegra, Nathalie e Oleg sono lasciati liberi di scorrazzare nei prati, crescono all’aria aperta, vanno a scuola in sci: il ritratto, insomma, di una famiglia felice. La carriera di direttore comincia a decollare e ci si può permettere ben cinque persone di servizio».

• «Il Psychological Warfare Branch si scioglie il 31 dicembre 1945. Si tratta, in realtà, solo di una trasformazione. La necessità di questo cambiamento ci è mostrata con evidenza da un memorandum del 4 gennaio 1946 redatto dai ministeri inglesi degli Esteri e dell’Informazione e trovato a Richmond negli archivi di Kew Gardens. “Il 12 luglio 1945 abbiamo deciso di rafforzare la nostra propaganda in Italia, con l’obiettivo di convincere la popolazione dei vantaggi offerti dal modo di vita delle democrazie occidentali. Al contempo, consideriamo urgente conferire pari importanza alla divulgazione dei principi che caratterizzano le istituzioni della democrazia britannica. Nell’Europa centrale e in quella del sud-est, infatti, i nostri interessi strategici e politici rivestono una particolare importanza”. Già cinque mesi prima della chiusura del Pwb, dunque, l’Inghilterra sta programmando un consolidamento della sua campagna di persuasione nel nostro paese e sta anche anticipando che questa campagna non sarà più unitaria con quella degli Usa. La decisione è del 12 luglio 1945: cinque giorni prima dell’apertura della Conferenza di Potsdam».

• «Recenti studi su fonti archivistiche britanniche e italiane finalmente desecretate ripercorrono l’intreccio più che secolare fra gli interessi geopolitici del Regno Unito e il corso delle nostre vicende nazionali, mostrando quanto esso sia stato pervasivo e condizionante. Al centro delle comunicazioni nord-sud ed est-ovest, la penisola è stata ed è un territorio assai rilevante per gli interessi militari ed economici della Corona. “Le mire britanniche sull’Italia nascono, si può dire, con la stessa Italia. Anzi, l’Italia e la sua unità politico-territoriale sono in qualche modo il prodotto delle ambizioni inglesi”».

• «I servizi di Washington tengono sotto attento controllo anche le manovre occulte degli inglesi in Italia. Studiano il loro annodarsi con le trame di altre intelligence. (…) Infine elaborano un report dettagliato dei movimenti sottotraccia che hanno osservato nella penisola. “Al giorno d’oggi – vi si legge, – l’Italia è un vasto campo di battaglia politica e di intrighi tra le maggiori potenze, Russia, Gran Bretagna e Vaticano. [È la] conseguenza della fine del suo ruolo di grande potenza mondiale, della sua posizione strategica nel Mediterraneo e, infine, dell’assenza di un forte governo centrale. […] I vari servizi di intelligence puntano a controllare l’economia, la politica e la posizione strategica dell’Italia”. Ovviamente alle “maggiori potenze” va aggiunta la quarta, cioè il punto di vista di chi parla: gli Stati Uniti».

• «Tra il 1945 e il 1947, il Sis italiano (Servizio informazioni e sicurezza) si mostra impressionato dall’attivismo antibolscevico dell’intelligence britannica, che sta conglobando in un fronte armato clandestino europeo tutti i tenaci fautori dei vecchi e nuovi fascismi. È una sorta di internazionale nera, già pronta alle direttive della cosiddetta Dottrina Truman, enunciata in un discorso al parlamento statunitense il 12 marzo 1947. È l’avvio ufficiale di quella che Orwell, già due anni prima, aveva chiamato Guerra fredda».

• Nel gennaio 1948, in Inghilterra, «il Foreign Office costituisce segretamente l’Information Research Department (Ird) per contrastare il comunismo e la sua propaganda in Europa occidentale e in Medio Oriente, attraverso tecniche manipolatorie della pubblica opinione. (…) L’Ird presta particolare attenzione alla nostra penisola, dove esistono due pericolose entità: il più forte partito filosovietico e antiatlantico e l’Eni di Enrico Mattei, che persegue una politica petrolifera di fatto antagonista agli interessi britannici».

• Allo scopo di orientare in senso filo-atlantico l’informazione in Italia, all’inizio degli anni Cinquanta l’Usis (United States Information Service), agenzia statunitense di controllo e influenza di fatto subentrata al Pwb, «apre le prime cinque sedi italiane presso le ambasciate e i consolati di Roma, Firenze, Milano, Napoli e Palermo. Ogni giorno la capitale riceve per radiotelegrafo dalla sede centrale di New York un bollettino di informazioni. Sulla sua falsariga è redatto il “Notiziario quotidiano per la stampa”, inviato gratuitamente ai giornali. Le notizie privilegiano i vantaggi dell’adesione al Patto atlantico e poi alla Nato; la politica estera statunitense, soprattutto nei confronti dell’Europa occidentale, l’attività degli enti che erogano i fondi per la ripresa e la ricostruzione dai danni di guerra, previsti dal Piano Marshall».

• «Durante la presidenza Eisenhower, poi, la dotazione dell’Usis si accresce, toccando i due miliardi di dollari annui, e l’ingerenza sulla politica, sulla cultura e sulla vita sociale italiana raggiunge la massima pervasività. In questo clima a Villa Taverna arriva, per la prima volta, un’ambasciatrice. È la giornalista Clare Boothe Luce, una vera Giovanna d’Arco dell’anticomunismo. Sbandierando la sua insegna (“Always to aim at the top”), corazzata di indomabile risoluzione, di frenetico presenzialismo e di gesuitico apostolato, innalza quattro nuove roccaforti Usis, arma un esercito di 61 impiegati statunitensi e 237 italiani e parte lancia in resta contro i due paurosi dragoni italiani: Mattei e Togliatti. Contro i due è ordita una vera e propria strategia di character assassination».

• «La Luce perfeziona anche le modalità di guida dei giornali: al posto del “Notiziario quotidiano”, da cui estrarre dati per gli articoli, ora si invia loro direttamente pezzi già confezionati, scalette molto dettagliate o abbondanti materiali per lavorare su temi imposti. Uno dei suoi capolavori diplomatici è l’accordo con l’Ansa, grazie al quale riesce a veicolare le sue veline e i suoi comunicati in modo che essi giungano ai giornali da un’altra fonte, di riconosciuta autorità. (…) Quando, alla fine del 1956, Clare Boothe Luce riparte per l’America, annovera nel suo carniere di caccia la conquista di ben ventunmila proseliti in tutti i rami della politica, della finanza, dell’industria, della cultura e dell’informazione».

• «L’“ambasciata” dell’Usis ha sede nel Palazzo Antici-Mattei, in via Caetani 32, lo stesso indirizzo del
Centro studi americani (frequentato, tra gli altri, anche dal brigatista Giovanni Senzani)». E, guarda caso, Palazzo Antici-Mattei fa un unico corpo edilizio con Palazzo Caetani.

• Nel secondo dopoguerra, due tra le maggiori dame della vita culturale romana sono la bostoniana Marguerite Chapin, moglie di Roffredo Caetani e signora di Palazzo Caetani, e la sua intima amica Elena Croce, figlia del grande Benedetto e moglie di Raimondo Craveri, nonché regina di uno dei più importanti salotti intellettuali della città.

• Tra i frequentatori del salotto della Croce è anche Markevič, «che conosce Elena da lungo tempo: da quando anche lui aveva compiuto il rituale pellegrinaggio da don Benedetto, salendo al piano nobile di Palazzo Filomarino, a Spaccanapoli. Il filosofo gli era apparso nella penombra polverosa della biblioteca come l’illustrazione di una favola di Andersen: un grigio topone in vestaglia e papalina che ciabattava, carico di vecchi libri, con gli stivaletti slacciati, al fioco lucore di una lampada giallastra. L’impressione della sobrietà di vita e della frugalità di quel grande personaggio era stata poi rafforzata dal seguito di quella visita: introdotto, infatti, nell’intimità della sala da pranzo (anziché in salotto), aveva visto moglie e figlie intente ciascuna al proprio lavoro, come monache attorno alla tavola comune. Una delle ragazze si era alzata per “offrire qualcosa” all’ospite, tornando dopo molto tempo solo con un bicchiere d’acqua, mezzo versato nel piattino. Adesso che Igor rivede Elena nel suo ricco e luminoso salotto romano, si diverte a stuzzicarla, ricordandole lo “sfarzo” di quella prima accoglienza. Ridendo a sua volta, lei gli racconta altri episodi del francescanesimo del padre: quando era ministro della Pubblica istruzione, per esempio, prima di andar via, per ultimo, dal proprio ufficio, passava a spegnere tutte le luci lasciate accese dagli impiegati».

• «“Molti stranieri di passaggio o di stanza a Roma all’Usis, l’organismo dell’ambasciata americana che aveva sostituito il Pwb, si rivolgevano a Elena per essere aiutati a capire quali fossero gli intellettuali italiani che valeva la pena di conoscere, e chiedevano l’aiuto di Raimondo per sapere quali fossero i politici di cui fidarsi”. (…) La casa di Raimondo ed Elena è dunque un crocevia anche internazionale: Antonio Maccanico, per esempio, vi stringe amicizia con Henry Kissinger, allora noto solo come storico dell’Università di Harvard. Ma soprattutto c’è il presidente della Comit, Raffaele Mattioli, l’italiano dalle relazioni più cosmopolite. Con l’America ha rapporti antichi e consolidati. Tanto che nel 1944, a Liberazione non ancora ultimata, l’amministrazione Usa aveva voluto discutere con lui, a Washington, i piani economici della ricostruzione. Ora presiede l’Associazione italoamericana: vi collaborano Elena e Marguerite e ha sede nel Palazzo Antici-Mattei, attiguo alla residenza dei Caetani».

• All’epoca Mattioli, che ha da una costola della sua Comit ha appena fondato Mediobanca, è l’uomo più potente d’Italia, «il dominus che già da decenni tiene in pugno, come un nodo gordiano, i più contrastanti interessi, le più divergenti ideologie, i più conflittuali antagonismi. (…) Il potere di don Raffaele, dunque, è così grande da indurre i (pochi) denigratori a cercarne il fondamento in una sua vita occulta. (…) Senza addentrarsi in questi intricatissimi campi, si può ricordare solo la bizzarra disposizione testamentaria di Mattioli di farsi seppellire in piedi (per essere pronto alla Resurrezione), in una tomba dell’abbazia benedettina di Chiaravalle: nel Medioevo era stata il sepolcro di Guglielma (o Vilemina o Blazena Vilemina) la Boema, un’eretica che sosteneva di essere la reincarnazione femminile dello Spirito Santo».

• «Nella Roma degli anni Cinquanta, donne come Margherita Caetani, Elena Croce e Mimì Pecci Blunt affermano, seppure in vario modo, un protagonismo nuovo rispetto a quello delle “api regine” della Parigi d’anteguerra: più direttamente impegnato a trasformare la realtà culturale e politica e più autonomo da patronati maschili. In questi anni, Markevič ha assidua frequentazione con tali donne e con i loro ambienti, nonostante abbia casa fuori
dall’Italia. E proprio adesso, anzi, stringe un forte legame con Palazzo Caetani, trasformando in parentela due vecchie amicizie. Sposando donna Topazia Caetani, è diventato nipote acquisito di Marguerite, che conosce da quasi un ventennio. Nel 1951, poi, Hubert Howard, l’ex ufficiale del Pwb, ha preso in moglie Lelia, cugina di Topazia e figlia superstite di Marguerite e Roffredo. Con la morte in guerra di Camillo Gelasio, ultimo erede maschio dei Caetani, si sta sgretolando un casato dalla gloria plurisecolare. (…) Palazzo Caetani e le sorti della dinastia sembrano affidati ormai alla vitalità di tre stranieri»: Marguerite, Hubert e Igor, appunto.

• «A dirigere, Markevič è stato incoraggiato già prima della guerra da Arturo Toscanini, la cui figlia Wally è diventata sua amica. Più che amica, in verità. Molti anni dopo, nel 1979, la stessa Wally ne riderà con Oleg: “Eh! Eravamo giovani, allora. Tanto giovani…”».

• «Dopo Firenze, e dopo una piccola stasi di due anni, la carriera di Igor si avvia molto bene e dal 1949 al 1955 è un vortice ininterrotto di impegni artistici, spesso molto prestigiosi. È direttore stabile all’Avana precastrista, dirige a Stoccolma, Parigi, Montréal, Madrid, Strasburgo, Salisburgo, Colonia, Vienna; per la Rai esegue, a Roma, Icaro nella versione definitiva di poema sinfonico e non più di balletto. Nel 1956 gli viene affidata l’orchestra dei Concerti Lamoureux, che tiene stabilmente fino al 1962. (…) In seguito, nella metà degli anni Settanta, il governo franchista gli offre di formare l’orchestra della radio di Madrid. Markevič accetta, ma pone come condizione quella di non essere chiamato a dirigere per nessuna occasione politica. Ne approfitta per rilanciare la tradizione di un genere lirico-drammatico tipico spagnolo, la zarzuela, che rischia l’estinzione, e ne pubblica una preziosa antologia discografica. Il nazionalismo spagnolo ne è profondamente lusingato e il direttore è amatissimo» .

• La vita privata però non è altrettanto rosea. Il 26 dicembre 1959 è nato l’ultimogenito Timour, «segnato da un grave handicap che Igor non riesce ancora ad accettare. Lo sente come una profonda ferita al proprio orgoglio e cova un sordo risentimento per Topazia, quasi ne fosse lei responsabile». In quel periodo, inoltre, Markevič si sente particolarmente vulnerabile, perché costretto a celare, fin che possibile, un segreto angosciante: «È sempre andato fiero del suo udito prodigioso, di cui ha spesso esaltato la precisione e di cui ha sempre temuto la fragilità. Ed è proprio lì, nel senso più prezioso per un musicista, che la sorte ha voluto colpirlo: già da qualche anno ha cominciato a soffrire i primi sintomi della sindrome di Ménière e sa che il decorso, difficile da contrastare, porta fatalmente prima alla perdita dell’equilibrio e poi alla sordità. Tanto più che la malattia si è rivelata precocemente, essendo rara prima dei cinquant’anni».

• «Nel 1959 è morto Berenson e ora, nel 1963, se ne va anche Cocteau (l’anno prima, tra l’altro, anche il povero Timour ha concluso la sua breve esistenza). Come se non bastasse, la notizia dei suoi disturbi uditivi comincia a trapelare, ingigantita da alcune malelingue, procurando un rapido calo delle committenze. Il livello di vita della famiglia deve subire restrizioni, per cui si riduce la servitù alla sola cuoca Elena, che si adatta a sostituire anche i licenziati. (…) La situazione coniugale degenera irrimediabilmente; tre anni dopo, nel 1966, il matrimonio è già finito (il divorzio, però, verrà solo nel 1982, l’anno della morte di Igor), la casa smantellata, la famiglia dispersa. Oleg, che fino ad allora è cresciuto “libero come un’erba cattiva”, per usare il suo stesso paragone, è mandato in un collegio sui Pirenei, a La Coume, un posto scelto da Igor perché immerso nella natura. Topazia si occupa dell’educazione di Allegra e Nathalie».

• «Secondo Oleg, la separazione da Topazia ha contribuito ad accentuare il “lato introverso” del padre, tanto è vero che ora ha preso casa a Saint-Cézaire, in un luogo isolato e difficile da raggiungere. (…) Si è trasferito lì perché, nonostante tutto, gode ancora di molto credito e il principe Ranieri gli ha affidato la direzione stabile dell’Orchestra di Montecarlo».

• Oleg «passa le vacanze estive con il padre, che gli dà lezioni di direzione d’orchestra. Si appassiona a tal punto che, a soli dodici anni, sceglie di seguire le orme paterne e tre anni dopo si iscrive al Conservatorio di Nizza». Igor è «lusingato dalla scelta di Oleg: ha capito che il ragazzo ha buona stoffa e si dedica con grande impegno alla sua istruzione. (…) Fatto è che Oleg dirige in pubblico per la prima volta a quindici anni. La tecnica di base, nella propria preparazione direttoriale del concerto, continua a essere quella della visualizzazione della partitura con gli occhi della mente: si danno gli attacchi a un’orchestra inesistente, ma di cui si immagina il suono. Sul modello, come si è già visto, del gioco alla cieca su una scacchiera invisibile, insegnato al piccolo Igor da papà Boris Nicolaievič. A quattordici anni, Oleg è già in grado di dirigere una partitura complicata come Le Sacre du printemps di Stravinskij: dimostrazione dell’efficacia del metodo, senza nulla togliere alla naturale predisposizione dell’allievo».

• «Dopo il primo corso di Direzione del 1953, Igor ne ha tenuti molti altri. (…) Alla fine della sua carriera di didatta, potrà vantare un nutrito elenco di allievi, molti dei quali assurti a grandi vette: da Piero Bellugi, che è stato il primo, a Placido Domingo, da Giampiero Taverna a Wolfgang Sawallisch, da Maxim Šostakovič a Lev Markis, da Alexander Gibson a Herbert Blomstedt e Daniel Barenboim… Ai suoi corsi si iscrivono anche molte donne, ed è una grande novità per l’epoca: egli è convinto, infatti, dell’uguaglianza tra i sessi anche sul podio. Quando insegna Igor si sente libero e felice, forse persino più di quando dirige, tanto che, a Saint-Cézaire, ogni estate fa venire amici del figlio e altri giovani musicisti, ai quali trasmette gratuitamente il suo metodo».

• Nel 1973, in un momento di crisi, visto sfumare per il disinteresse dei principi di Monaco il suo sogno di fondare la prima scuola per direttori d’orchestra, Markevič accetta con entusiasmo una proposta proveniente da Roma, che gli offre la direzione stabile dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia. «Il suo primo atto da direttore è una lettera a ogni professore d’orchestra, nella quale espone l’obiettivo e indica metodi assolutamente attuabili per arrivarci. Niente grandi parole, niente astrusi concetti, neanche l’ombra dell’italica retorica. Solo una sorta di decalogo tanto concreto da sembrare rivolto a un gruppo di scolaretti: è interesse di tutti evitare perdite di tempo; il silenzio è uno degli elementi da cui si riconosce la classe di un’orchestra; per segnare i suggerimenti del maestro, su ogni leggio ci devono sempre essere una matita e una gomma, così non le si deve chiedere ai compagni, creando chiasso e disordine…».

• A Roma, «benché gli si riconosca unanimemente di aver rimesso in piedi una formazione allo sbando, il Maestro deve ancora combattere con un fondo di indomabile anarchia che vi continua a serpeggiare, fino a che non è costretto a gettare la spugna. Verso la fine del 1975, durante le prove del Boléro di Ravel, si consuma l’ultimo atto di una lotta, che si chiude con un colpo basso. “Più piano, più piano!” intima Markevič a un professore d’orchestra; questi, piccato, per verificare fino a che punto il Maestro ci senta, finge di suonare senza emettere alcuna nota. E quando Markevič continua a ripetere: “Più piano!”, l’altro ribatte che non stava suonando affatto. Tutta la formazione scoppia a ridere e il direttore, ferito, lascia la bacchetta sul podio e va a raccogliersi nel camerino. Chiama poi i rappresentanti sindacali e artistici dell’orchestra e chiede di aiutarlo a portare a termine il contratto fino alla scadenza, impegnandosi a non accettare eventuali rinnovi».

• Nel 1976, dopo decenni di rapporti altalenanti con il regime sovietico, per esaudire il desiderio del figlio Oleg di andare a perfezionarsi musicalmente in Urss, Markevič torna umilmente a rivolgersi alla madrepatria. «Si reca dunque all’ambasciata sovietica di Parigi, dove a fatica, esibendo anche l’amicizia con Kondrašin, ottiene il via libera per il figlio: Oleg parte per studiare a Mosca e Leningrado (dove resterà fino al 1981). (…) Quegli anni li ricorda come i più belli della sua gioventù e ne parla con un piacere quasi fisico: “Mi godevo la cultura al massimo. Sono stato l’unico occidentale che si è diplomato in Direzione d’orchestra in Unione Sovietica. Mia madre non voleva che partissi, poverina: era orripilata e piangeva. Mio padre, invece, mi diceva: ‘Se ci credi, devi vivere fino in fondo questa situazione. Lo so che un giorno vedrai le cose diversamente’. Altroché! Me ne accorsi subito. Appena diplomato, andai a lavorare a Berlino Est, come maestro sostituto. Be’… capii subito cosa significava parlare russo, a Berlino Est!”».

• Hubert Howard, «dopo avere sposato Lelia Caetani, con l’oculato pragmatismo del Lord di campagna ha preso in mano le finanze e l’amministrazione dell’antico casato romano, e alla morte dei suoceri è diventato il re di quel vasto patrimonio. (…) Ora il solenne palazzo non vede più l’andirivieni di intellettuali e signore e sembra ancora più tetro, come sprofondato in una sua vita misteriosa, di cui il feudo di Sermoneta, nell’Agro pontino, è diventato una dépendance ancora più segreta. È qui, infatti, che il nuovo padrone preferisce risiedere sempre più a lungo, occupandosi di un grande lavoro di bonifica, già intrapreso dai suoceri. Nel possedimento il fiume Ninfa aveva formato un acquitrino, che aveva invaso i resti di un borgo medievale. Marguerite e Roffredo avevano fatto incanalare le acque, cominciando a trasformare quella palude in uno stupendo giardino. Hubert e Lelia hanno continuato l’opera, rendendo Ninfa un’oasi naturale, con infinite specie protette, sia vegetali che animali. L’impegno ecologista di Howard è talmente appassionato da spingerlo a fondare l’associazione Italia nostra, insieme a Elena Croce, Giorgio Bassani e altri».

• «Nel maggio del 1978, in pieno sequestro Moro, Antonio Ruvolo e Giuseppe Corrado della sezione controspionaggio del Sismi si recano a Palazzo Caetani, in via delle Botteghe Oscure, per indagare attorno a un certo Igor, appartenente a quella famiglia. Hanno ricevuto dal loro diretto superiore, il generale Demetrio Cogliandro, un incarico della massima delicatezza: cercare, seguendo il filo di quel nome, la prigione dello statista democristiano, situata forse proprio in quel nobile edificio o negli immediati paraggi. (…) Gli agenti del Sismi, dunque, non devono fare molta fatica a trovare il loro uomo, perché i maschi sopravvissuti si contano sulle dita di una mano e portano tutti, comunque, un altro cognome: identificano la persona segnalata con Igor Markevič, marito di Topazia Caetani, nipote appunto di Marguerite. Di fronte a quel nome, però, e davanti alla soglia di quel palazzo, per un qualche inspiegabile ordine superiore Ruvolo e i suoi colleghi devono interrompere le ricerche. E resteranno colpiti, pochi giorni dopo, quando apprenderanno che il cadavere di Moro è stato trovato proprio là ove ne avevano cercato la prigione».

• «Il risultato dell’autopsia eseguita lo stesso pomeriggio di quel 9 maggio 1978 stabilisce che il presidente democristiano è stato ucciso praticamente sul posto: intorno alle 10 del mattino, poco prima, cioè, che l’auto venisse lasciata in via Caetani. Questo dato smentisce la versione sempre fornita dai brigatisti, secondo la quale l’esecuzione sarebbe avvenuta verso le 6.30 nel garage di via Montalcini, in una zona periferica alquanto distante. Sulle scarpe e sugli abiti dell’onorevole Moro, inoltre, come pure all’interno e all’esterno della Renault 4, la polizia scientifica ha individuato moltissimi frammenti di fibre tessili di vario colore. La presenza di questi elementi volatili sui copertoni, sui parafanghi e nel bagagliaio della vettura porta i periti a concludere che l’auto abbia percorso solo una brevissima distanza dal luogo dove queste particelle si sono depositate (addirittura non più di cinquanta metri!), procedendo ad andatura molto lenta. La zona, come si sa, è piena di negozi e magazzini di stoffe, di drapperie, ed esiste in particolare un grande deposito di tessuti con passo carrabile proprio in piazza Paganica, il lato dell’Insula Mattei parallelo a via Caetani. (…) Poco prima di essere ucciso e abbandonato in via Caetani, dunque, Moro era tenuto in un luogo a non più di cinquanta metri di distanza, quasi sicuramente in un deposito di tessuti».

• «Soltanto nel 1998, la Commissione stragi si imbatte nel nome di Markevič: spunta per caso da un dossier inviato al suo presidente, il senatore Giovanni Pellegrino, dalla Procura di Brescia». Poco dopo, setacciando gli archivi, «la sorpresa si trasforma in stupore nell’apprendere che già nel 1978, con Moro ancora vivo, il Sismi si era interessato a Markevič e, seguendo il filo del suo nome, era andato a cercare la prigione dello statista democristiano a Palazzo Caetani». La Commissione decide pertanto di approfondire la figura di Markevič, incaricando del compito il capitano del Ros Massimo Giraudo.

• «Man mano che procedono le ricerche, nel tenace capitano del Ros si va consolidando sempre più la convinzione che Markevič sia in contatto con il Kgb. La conferma arriva dalla Francia, i cui servizi segreti controllavano il musicista fin dal 1976: nei loro archivi, la prova di un’assidua frequentazione fra il Maestro di origine russa e Juri Borissov, “antenna” del Kgb in Francia dal 1974 al 1979, sotto la copertura di addetto culturale all’ambasciata sovietica di Parigi. Secondo il giornalista e saggista Valerio Riva, Markevič non era una spia prezzolata, ma forse un agente di influenza del Kgb in Italia: “Potrebbe essersi prestato a fare da canale per i finanziamenti sovietici alle Br. A Firenze, probabilmente, un avvocato avrebbe fatto da tramite tra lui e i terroristi”».

• «Se è vero che il Maestro ha sempre fortemente sentito un legame quasi viscerale con la madre patria, ha anche stabilito rapporti tanto forti con Israele da dichiarare più volte la sua totale adesione alla cultura e al destino della nazione ebraica. Durante la Seconda guerra mondiale, inoltre, aveva lavorato per i servizi angloamericani e aveva addirittura coabitato con uno dei principali responsabili del Pwb in Italia, Michael Noble, che gli aveva aperto le porte della carriera di direttore d’orchestra. La Relazione sul musicista russo Igor Markevič, stilata nel 2001 dal giudice Silvio Bonfigli su delega del presidente Pellegrino, fa il punto di quanto è emerso dal lungo lavoro della Commissione stragi e dalle indagini di Giraudo, e descrive Markevič come un possibile agente triplo. Un personaggio che può, dunque, muoversi a suo agio nello scenario suggerito dal generale dei carabinieri Francesco Delfino, “persona con una grande esperienza nel campo dell’intelligence”. Nelle sue memorie, Delfino sostiene che è possibile decifrare l’affaire Moro solo pensando all’interazione di Usa, Urss, Israele e al gioco degli “opposti e coincidenti estremismi”. Bonfigli conclude dunque che il direttore d’orchestra “poteva riassumere in sé caratteristiche tali da renderlo gradito e affidabile […] alle tre potenze cui allude il generale Delfino”».

• «A questi atout, Giovanni Pellegrino ne aggiunge un altro: anche il passato resistenziale di Markevič, sottolinea in Segreto di Stato, si prestava a essere utilizzato “come bigliettino da visita da mostrare alle Br”. Brigate rosse che, va ricordato, avevano il loro cervello strategico proprio a Firenze, dove il musicista aveva avuto durante la guerra il suo battesimo politico. E nel capoluogo toscano la Commissione stragi rintraccia anche i fili che legano il direttore d’orchestra ai capi brigatisti. A scoprirli è ancora una volta Massimo Giraudo», che identifica con certezza in lui la persona «“non identificata che avrebbe ospitato a Firenze le riunioni della direzione strategica delle Br, durante il sequestro Moro”. (…) Markevič era noto a Mario Moretti come il Conte rosso o l’Anfitrione fiorentino».

• In quanto al caso Moro, «una ricostruzione del 1985 ne aveva dato una lettura molto verosimile. L’aveva tentata, in uno strano libro, I giorni del diluvio, un autore che era ricorso all’anonimato e a una chiave fantapolitica per mascherare nomi e notizie, apprese da un punto di osservazione evidentemente privilegiato. E infatti si seppe poi che a scriverlo era stato Franco Mazzola, sottosegretario alla Difesa durante il caso Moro e, nel 1981, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti. La tesi del libro è che a organizzare il sequestro fosse stato il Kgb che controllava il cervello politico delle Br. Ai sovietici, la politica morotea di apertura ai comunisti sembrava comportare come conseguenza il definitivo distacco del Pci da Mosca. E d’altra parte l’ingresso dei comunisti nel governo italiano pareva anche agli Usa un rischio da evitare. Dunque, pur avendo intercettato il piano attraverso loro infiltrati nelle Br, i servizi americani lasciarono fare».

• «Londra cominciò a preoccuparsi per il pericolo comunista in Italia già verso la fine degli anni Sessanta, ai primi segnali di dialogo tra Aldo Moro e l’astro nascente del Pci Enrico Berlinguer. La paura degenerò in una vera e propria ossessione nel 1976, quando il compromesso storico apparve ormai ineluttabile. Nei primi mesi di quell’anno (come sappiamo ormai con certezza da documenti desecretati e custoditi nell’archivio di Stato di Kew Gardens), il governo inglese progettò un vero e proprio golpe militare per impedire ai comunisti l’accesso all’esecutivo. (…) Il progetto, studiato nei minimi dettagli, fu poi sottoposto agli alleati americani, francesi e tedeschi. La Francia non ebbe nulla da obiettare. Germania e Usa, invece, si mostrarono piuttosto perplessi. (…) Così, di fronte alla freddezza americana e tedesca, il governo inglese accantonò il piano di golpe, ma certo non rinunciò ai suoi propositi. Per impedire comunque l’ingresso dei comunisti nella stanza dei bottoni, il comitato di esperti suggerì un’opzione subordinata: l’appoggio a “una diversa azione sovversiva”».

• «Che tipo di azione? E affidata a chi? Nel documento trovato nell’archivio di Kew Gardens non sono specificati i dettagli, a suo tempo nascosti persino ad americani e tedeschi e tuttora protetti dal segreto. Non è però difficile immaginare di che cosa si trattasse. L’opzione B venne approvata dal governo inglese nel maggio del 1976. Dal giugno di quell’anno, l’Italia conobbe un’ondata di violenza politica e di terrorismo senza precedenti: un crescendo impressionante che toccò la punta più alta due anni dopo, con il sequestro e l’assassinio di Moro».

• «Nella loro tacita condiscendenza alla spregiudicata operazione, gli Usa probabilmente non avevano messo in conto la possibilità che, sottoposto a interrogatorio, Moro avrebbe potuto parlare. Per la mentalità americana, infatti, era inconcepibile che un leader della sua statura, più volte ministro e presidente del Consiglio e per di più tra i fondatori di Gladio, la rete clandestina in funzione anticomunista, potesse rivelare segreti di Stato a dei terroristi che agivano per il Kgb. E invece Moro parlò. E non rivelò solo il malgoverno della Dc, ma anche molti retroscena della strategia della tensione, come il coinvolgimento dei servizi segreti occidentali nella strage di piazza Fontana e nelle altre trame nere. E soprattutto svelò ai suoi carcerieri i punti nevralgici del sistema difensivo atlantico».

• «In quelle condizioni non poteva esserci altra possibilità che cercare una soluzione governata. (…) Era indispensabile, allora, trovare un luogo estremamente discreto e protetto dove agissero trasversalmente solo interessi e logiche sovranazionali. E dove a condurre il gioco fossero persone altrettanto discrete e quasi invisibili, nel senso, cioè, di una loro assoluta insospettabilità in quella funzione. Da quel momento l’affare Moro entrò in un’altra dimensione, fu come inghiottito in una dolina carsica e seguì un suo percorso sotterraneo, tanto nascosto da essere negato perfino dai brigatisti, che pure avevano dichiarato a grandi lettere: “Nessuna trattativa segreta, niente deve essere nascosto al popolo”. Ecco: seguendo appunto questo fiume occulto, si potrebbe arrivare all’ultimo grande mistero della prigionia e della morte del presidente democristiano e si potrebbe entrare in un territorio ancora più oscuro di quello in cui operano i servizi di informazione. Una dimensione segreta e persino esoterica, blindata, assolutamente inaccessibile ai profani».

• Il 2 aprile, in una casa di villeggiatura sull’Appennino emiliano, «un pacioso gruppo di amici, dopo aver mangiato insieme alle rispettive famiglie con la dovizia e la prelibatezza di quelle zone, non sapeva cosa fare: il tempo si era guastato e avevano dovuto rinunciare alla prevista passeggiata. Così, tra le chiacchiere delle mogli e il chiasso dei bambini, i buontemponi avevano deciso di fare una seduta spiritica. Avevano messo un piattino da caffè (o una tazzina o un bicchiere: le testimonianze non concordano) al centro di un grande foglio, ai cui bordi erano state scritte le lettere dell’alfabeto, vi avevano puntato tutti un dito sopra e avevano cominciato a porgli domande sull’onorevole Moro e sulla sua sorte. La cosa strana è che quegli amici erano quasi tutti serissimi docenti universitari e che fra loro c’erano un futuro presidente del Consiglio, Romano Prodi, e un futuro ministro, Alberto Clò. Il piattino aveva cominciato a correre con grande decisione da una all’altra delle lettere e aveva composto un nome: G-R-A-D-O-L-I. (…) Sedici giorni dopo la seduta spiritica, proprio in via Gradoli, a Roma, venne effettivamente scoperta la base del capo brigatista Mario Moretti ».

• «Prodi si è sempre rifiutato di rispondere alle domande della Commissione stragi. Mentre il professor Clò, l’anfitrione di quell’incontro, si presentò e sostenne che quel piatto si muoveva da solo. Un senatore gli fece osservare che l’affermazione contraddiceva i principi della dinamica, ma l’illuminato economista ribadì la sua convinzione: nessuno dei presenti spingeva quel piattino». Peraltro, è stato poi accertato che, quel giorno, «in quella zona e in quelle ore non cadde una sola goccia di pioggia».

• «Secondo Leonardo Sciascia, che fu membro della Commissione d’inchiesta sul caso Moro, la spiegazione più ragionevole è che si sia utilizzato quel fantasioso espediente per inviare un messaggio alle forze dell’ordine su un probabile luogo di detenzione del presidente democristiano, senza essere costretti a rivelarne la fonte (un qualche militante dell’autonomia bolognese, magari parente di uno di quei professori). (…) L’interpretazione di Sciascia appare plausibile, ma non del tutto convincente. Se lo scopo fosse stato veramente quello di fare arrivare un’informazione, coprendone la fonte, non sarebbe stato più semplice ricorrere a una lettera o a una telefonata anonime? Non si sarebbe potuto far correre una voce, attivando il passaparola degli “amici di amici”?»

• «Viene da chiedersi, allora, se sia possibile leggere in qualche altro modo quel messaggio. Lo si potrebbe, per esempio, prendere alla lettera, per quello che è: un messaggio esoterico, appunto, cioè in codice. La seduta spiritica avrebbe segnalato, allora, a chi era in grado di capirlo, che quell’indicazione poteva essere decifrata solo da chi, interno o esterno al gruppo, fosse iniziato a quel particolare linguaggio cifrato. Se il codice fosse stato, per esempio, quello rosacrociano, le lettere indicate dal piattino avrebbero potuto non formare il nome del paesino sul lago di Bolsena, ma essere lette come Grado-LI (grado 51°, in numeri romani). Si sarebbe rinviato, cioè, a un livello ancora più occulto del 33°, il gradino più alto della gerarchia massonica conosciuta. Quale poteva essere questo misterioso Grado-LI, cui avrebbe potuto alludere quella divinazione?»

• «Una suggestione potrebbe venirci da lontano: da un libro, pubblicato alla fine dell’Ottocento, che tratta appunto di messaggi che vengono da altre dimensioni, dagli astri e dalle carte. Si intitola Les mystères de l’horoscope e reca la firma di Ély Star, pseudonimo esoterico di Eugène Jacob. Ebbe larghissima distribuzione. (…) Aprendolo, dunque, a pagina 115, in un elenco in numeri romani intitolato Cercle de la Rose-croix (Dix-huitième cercle) si trova: “LI. Le Maître du Glaive. (L’étoile Royale du Verseau)”. Il Signore del Gladio. (La Stella Reale dell’Acquario). (…) Questa ipotesi può acquistare una sua perturbante suggestione se si pensa appunto alla rete segreta Gladio. E letto così e riferito alla situazione internazionale, quel messaggio poteva essere interpretato in vari modi: come una richiesta di intervento rivolta al fantomatico signore di quella organizzazione; come l’annuncio che il Grado-LI stava per muoversi; che chi mandava quel messaggio aveva capito che quell’entità era entrata nel gioco…»

• «In ogni caso, ora sappiamo che unità speciali di Stay-behind, la rete segreta atlantica divenuta più nota in Italia con il nome in codice di Gladio, appunto, ebbero un ruolo durante quei drammatici cinquantacinque giorni. (…) Stay-behind, concepita e strutturata per compiere operazioni coperte dietro le linee nemiche, era sotto il controllo dell’intelligence dell’Alleanza atlantica. Questa, a sua volta, a partire dal 1954, rispondeva a un “elemento superiore di coordinamento e direzione”, l’Allied Coordination Committee (Acc). Di quel direttorio ristretto facevano parte, oltre al Bnd [il servizio segreto tedesco – ndr], i servizi segreti di Francia, Gran Bretagna, Belgio, Usa e Lussemburgo. Quelli italiani, dunque, ne erano esclusi. Operavano in una posizione subordinata che rifletteva lo status del nostro paese all’interno dell’Alleanza: nazione alleata, ma pur sempre sconfitta nel secondo conflitto mondiale e quindi sotto tutela. In una fase drammatica per gli equilibri interni e per quelli internazionali, il direttorio decise quindi di esautorare gli apparati italiani e di affidare la gestione del caso Moro alle squadre speciali di Stay-behind e all’intelligence atlantica».

• «Era Hubert Howard, il Grado-LI, fonte o destinatario del messaggio del piattino? Era lui, il Signore del Gladio indicato con la seduta spiritica? O Grado-LI era non una persona, ma, complessivamente, tutta la rete di varie istituzioni di quell’Insula nel cuore di Roma, sede secolare di ambasciatori, cavalieri, massoni, tutti riconducibili alla cultura geopolitica angloamericana? Quelle istituzioni praticavano una variegata molteplicità di strategie (di propaganda o di azione, di intelligence o di diplomazia ufficiale…) che confluivano nelle finalità di Stay-behind. Già Mino Pecorelli, del resto, aveva intravisto ombre di “gladiatori” attorno a Palazzo Caetani».

• «Nel 1978, Howard appariva solo un gentiluomo di campagna, dedito al riordino e all’amministrazione dell’ingente patrimonio della moglie Lelia (morta l’anno prima), con la quale da molto tempo si era ritirato nel feudo di Sermoneta. Qui i due avevano dedicato tutte le loro cure allo splendido giardino di Ninfa, progettato da Marguerite Chapin Caetani tra le rovine di una città morta, che Ferdinand Gregorovius definì “la Pompei del Medioevo”. (…) In quest’oasi, Hubert Howard è vissuto appartato, ma niente affatto isolato. Tra i numerosi visitatori del giardino e tra le personalità in vario modo legate all’entourage filoamericano di Palazzo Caetani», molti «erano dello Iai, altri della Trilateral Commission, del Gruppo Bilderberg, dell’Istituto atlantico, del Club di Roma. Tutte sigle che in vario modo discendono dal mondialismo della Fabian Society, attraverso la Round Table e il Royal Institute of International Affairs, e costituiscono in Italia una sorta di trasversale partito angloamericano».

• «Ecco, allora: si può supporre che, dopo che si era avuta la certezza che le rivelazioni di Moro toccavano punti vitali per la sicurezza del Patto atlantico, questo schieramento angloamericano si era mosso e aveva attivato il Signore di Gladio. Che, probabilmente, si ricordò di un’altra situazione difficile nella Firenze occupata dai tedeschi e di un giovane artista che lo aveva aiutato a uscirne: Igor Markevič. Hubert e Igor, dunque, di nuovo insieme, come trentaquattro anni prima, a trattare ancora una volta sulla sorte di un ostaggio eccellente: durante la guerra, i tesori di Firenze in mano ai nazisti; nella primavera del 1978, Moro in mano ai brigatisti rossi».

• «Nella primavera del 1978, dunque, potrebbe essere stata convocata proprio a Palazzo Caetani (o nei suoi dintorni) la riunione sinarchica per risolvere i problemi aperti dal sequestro Moro. E, anche in quell’occasione, l’accordo non era frutto di un connubio stabile ma solo di reciproco interesse. La chiave (…) è in un passo di René Guénon, che sembra prendere le distanze dalla politica, ma per rifondarla a un altro, più profondo livello: “L’esoterismo autentico deve porsi al di là delle opposizioni che si affermano nei movimenti esteriori che agitano il mondo profano, e, se tali movimenti sono a volte suscitati o diretti in modo invisibile da potenti organizzazioni iniziatiche, si può dire che queste ultime li governano senza mescolarvisi, così da esercitare in egual modo la loro influenza su ciascuna delle parti avverse”».

• «Su questo piano sovranazionale, Hubert Howard e Igor Markevič avrebbero governato l’intricata matassa di interessi e di posizioni che si aggrovigliavano nel caso Moro. In un’ipotetica divisione dei ruoli, è possibile che Igor agisse “sul campo”, per così dire, tornando a fare la spoletta tra le parti, magari anche con il cervello politico delle Br, mentre Howard tenesse il controllo da Palazzo Caetani. La posta in gioco del negoziato era duplice: da una parte la salvezza del presidente democristiano, dall’altra il recupero dei dossier, dei verbali degli interrogatori e delle bobine con le registrazioni».

• «Markevič e Howard, i due probabili mediatori, sarebbero poi passati a gestire il rilascio del prigioniero e, in contemporanea, la consegna dei documenti, sincronizzando le tappe delle due operazioni. Moro, dunque, era stato probabilmente portato a Palo Laziale e da lì al ghetto, dove sarebbe stato nascosto in un deposito di tessuti: forse in quello di piazza Paganica. (…) La mattina del 9 maggio, con ogni probabilità, l’ostaggio sarebbe dovuto passare di nuovo di mano, ma per l’ultima volta. Moro, infatti, era sereno e aspettava fiducioso la fine di quell’incubo. (…) Sarebbero finalmente venuti a prelevarlo con un’automobile a cortine chiuse e targa diplomatica, magari dei cavalieri di Malta, e sarebbero corsi a portare a Paolo VI l’“uomo buono e giusto”, l’agnello che per questa volta non sarebbe stato sacrificato. E invece Moro fu fatto entrare nel bagagliaio di un’altra vettura: la Renault rossa. Qualcuno aveva tradito i patti. Una voce era uscita dal coro».

• «“E ora le nostre labbra, chiuse come […] dalla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il De Profundis, il grido cioè e il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce”. La voce di Paolo VI, schiacciata da quel macigno più che dalla vecchiaia e dalla malattia, il 13 maggio 1978 si levava flebile, ma accorata, sotto le volte di San Giovanni in Laterano, dove si celebravano i funerali di Aldo Moro. Gli era stato amico per quarant’anni: era stato proprio lui, nel lontano 1939, a sceglierlo, ancora ventitreenne, come presidente della Federazione universitaria cattolica italiana. (…) Meno di tre mesi dopo, però, forse anche per quella pietra tombale che gli pesava sull’animo, il papa si era spento a Castel Gandolfo».

• «Alla notizia della morte di Moro, aveva reagito con violenti sconvolgimenti anche il fisico molto più forte del ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. Quando apprese per telefono la notizia dell’uccisione dell’amico e maestro, sbiancò in volto ed esclamò tra i denti: “Mi avevano promesso che l’avrebbero salvato”. Nei giorni seguenti i suoi capelli erano incanutiti all’improvviso, la vitiligine gli aveva invaso la pelle e una depressione l’aveva oppresso con tanta insostenibilità da fargli richiedere il soccorso di uno psicanalista. “La sofferenza umana di Cossiga, tutte le volte che si affronta il caso Moro, a me è apparsa autentica” dice Pellegrino in Segreto di Stato. “E credo che nasca non solo dalla perdita di un amico, ma anche dalla sensazione di essersi fidato di persone sbagliate o di apparati sbagliati. È possibile che Cossiga sia stato atrocemente beffato da mandatari infedeli”».

• «Per capire chi potrebbero essere stati quei “mandatari infedeli”, può essere utile rileggere il passo delle memorie del generale Delfino di cui hanno tenuto conto anche il maggiore Giraudo e il magistrato Bonfigli, concludendo la loro indagine su Markevič. Nel capitolo intitolato Il Grande Vecchio, il generale disegna un paesaggio in cui trovano una loro strana conciliazione forze contrastanti come Usa e Urss, terrorismo nero e terrorismo rosso, e nel quale Israele sembrava giocare un ruolo non secondario. A tenere insieme queste opposte posizioni era la logica di Jalta, basata su un gioco di equilibrio fra blocchi divisi su tutto, tranne che sulla comune necessità di mantenere e difendere lo status quo. In questa logica, una volta recuperati gli atti del processo brigatista e tappata la bocca dei sequestratori con le opportune ricompense, Moro vivo evidentemente costituiva ancora un problema. Aveva già parlato una volta, chi garantiva che non l’avrebbe fatto ancora? Meglio chiudere tutta quella vicenda con una pietra tombale».

• «Mentre, dunque, Markevič e Howard stavano forse portando Moro nell’ultima stanza, “per istradarlo verso la liberazione”, qualcuno aveva deciso di mettere fine a quella vita. Qualcuno molto più in alto di loro. Chi poteva essere? Il Grande Vecchio? Dalle memorie del generale Delfino, il Grande Vecchio che muove tutti i fili non emerge necessariamente come una persona fisica. Potrebbe essere piuttosto una sorta di “Senato occulto”, più o meno virtuale, in cui si incontrano gli intransigenti sacerdoti e i ferrei custodi dell’ordine di Jalta».

• «Nel suo libro La campagna d’Italia e i servizi segreti, Raimondo Craveri ricorda con indignazione che, per l’obiettivo del tutto condivisibile di mantenere l’Italia nell’orbita occidentale, gli americani non esitarono a scendere a patti con il diavolo reclutando ex agenti fascisti e perfino criminali nazisti. Questi finirono con il condizionare la fisionomia e l’operato dei nostri servizi, e non è stato un caso che molti di loro abbiano poi avuto un ruolo nei tragici eventi che hanno segnato la storia italiana dal 1969, anno della strage di piazza Fontana, in poi».

• Dopo la morte di Moro, «sembrava davvero che sulle coscienze e sulle labbra di tutti, e in particolar modo sugli inquilini e sugli ospiti di Palazzo Caetani, fosse rotolata la pietra tombale che soffocava la voce affranta di Paolo VI. L’esito di tutta una complessa e sapiente orchestrazione, abilmente gestita fino alle ultime battute, era stato ribaltato da una decisione proterva e imperiosa che aveva per di più imposto una cappa di silenzio a tutti coloro che ne avevano fatto parte».