Fabrizio Salvio, SportWeek 28/2/2014, 28 febbraio 2014
SU, RICORDATI DI ME (SE CI RIESCI)
Luis Silvio è facile, anche per chi non l’ha mai visto giocare: è l’emblema di tutti gli scarponi stranieri venuti in Serie A. Ma Mirnegg, ve lo ricordate Mirnegg? E Skov, sapete dire chi è? Negli Anni 80 erano l’avanguardia – prima uno, poi due al massimo – di un esercito di mezzi giocatori che si è andato ingrossando nel tempo a causa della cieca, quando non sospetta, tendenza dei nostri club a fare incetta di forestieri. Ora, più che aperte, le frontiere sono spalancate all’invasione. C’è l’unico limite dei 2 extracomunitari, che i nostri club aggirano occupando uno dei 2 slot disponibili con un carneade qualunque, salvo rivenderlo alla prima occasione per prendere al suo posto uno buono.
Non è questione (solo) di nazionalismo, protezionismo, salvaguardia del prodotto indigeno: il problema è che ingolfiamo le squadre e, quel che è peggio, appesantiamo i bilanci dei club con gente che al nostro campionato nulla ha da dare in termini di qualità. Il fallimento del Siena un anno fa e quello quasi certo del Parma adesso dipendono anche dagli acquisti di mediocri che i tifosi faticheranno a ricordare quando avranno tolto il disturbo, in qualche caso dopo pochi mesi appena. Perché il punto è anche questo: al povero Mirnegg (Dieter, terzino-centrocampista austriaco, giocò a Como nella stagione 1981-82), i tifosi si affezionarono comunque. Era l’eccezione alla regola, impossibile non seguirlo con curiosità e simpatia. Ma domani, quando sarà andato via senza lasciare traccia, chi si ricorderà, per esempio, di Makienok, 2 metri di lentezza, centravanti per modo di dire, 4 presenze in campionato nel Palermo per 50 minuti complessivi, un solo voto – 5 – in pagella? O, peggio ancora, di Edimar Curitiba Fraga, centrocampista del Chievo che in 23 giornate ha giocato 9’ appena, ovviamente senza valutazione? Dei 294 stranieri di A che hanno iniziato la stagione, 48 – al netto degli infortuni – hanno totalizzato meno di 10 presenze in 23 giornate di campionato, e diversi altri non raggiungono un numero di minuti a 3 cifre. Se consideriamo gli ultimi 5 anni, 75 dei 717 stranieri in Serie A non hanno mai messo piede in campo. Nello stesso periodo sono stati impiegati appena 521 italiani, la cui media voto nelle ultime quattro stagioni è però stata superiore a quella dei colleghi stranieri. Perché i pochi buoni rimasti ce li portano via – ieri Ibra e Cavani, domani probabilmente Pogba –, e al loro posto arrivano giovani di belle (?) speranze, scarti di mezza età e vecchie stelle sul viale del tramonto che il meglio lo hanno fatto vedere da un pezzo.
GLI AFFARI IN “NERO“
Sono tante le ragioni di questa esterofilia un po’ isterica, dannosa soprattutto per le società medio-piccole, che si tuffano nel mazzo del mercato globale sperando di pescare l’asso e tirando su più spesso la scartina. La presunzione di tenere buoni tifosi sempre meno ingenui, il costo ridotto rispetto agli italiani – meno numerosi e quindi più cari –, le agevolazioni nei pagamenti (per acquistare sul mercato interno devi garantire fideiussioni bancarie che all’estero non sono richieste), gli intrecci non sempre trasparenti tra quanti – procuratori e intermediari, a volte gli stessi dirigenti – guadagnano sui trasferimenti da e verso l’estero. Su questo punto ha indagato il Gruppo anti riciclaggio del G7, che punta il dito contro le società create ad hoc nei paradisi fiscali e capaci di gonfiare il valore dei giocatori, in particolare di B e C, per un ammontare globale di oltre 5 miliardi e mezzo di dollari. Un sistema, operativo specie tra Europa e Sudamerica, che non riguarda solo l’Italia e che renderebbe (soprattutto agli agenti) 264 milioni di euro all’anno di profitti legali e incalcolabili redditi in nero per alcuni, procuratori e dirigenti, legati a quelle società offshore che servono a schermare questo giro di denaro che il fisco italiano tasserebbe pesantemente. Come avviene l’operazione? Lo ha spiegato a L’Espresso proprio un ex procuratore rimasto anonimo: «La società offshore proprietaria del calciatore riceve dal club acquirente i soldi per il trasferimento e ne trattiene una quota. Di fatto il giocatore vale meno del dichiarato. E la differenza, che finisce nelle tasche dei procuratori, è esentasse». Stiamo parlando di una cifra che, per i movimenti nei 5 principali campionati tra il 2011 e il 2013, ammonterebbe a 254 milioni di dollari.
Andrea D’Amico, agente sportivo di lungo corso, sposta il tiro: «È vero, ci sono troppi stranieri. È demagogia dire che viviamo in un mondo globalizzato: lo sport deve conservare un’identità nazionale. E se è vero che ha una funzione etico-sociale, deve essere tutelato dal Governo. Editoria e cinema ricevono contributi a fondo perduto, invece il calcio, la quarta azienda del Paese, paga le tasse come una qualsiasi. E poi Lotito: ha detto in modo sbagliato una sacrosanta verità. Le piccole non prendono dalle tv i soldi delle grandi, non riescono quasi mai a vendere loro i propri giocatori, se retrocedono sono a rischio fallimento perché da noi non è come in Inghilterra, dove chi va giù ha dalla Lega un paracadute economico valido 5 anni. E quindi: quante città possono fare calcio in Italia? Quaranta, non di più. Allora copiamo l’America e creiamo un campionato senza retrocessioni, al termine del quale chi arriva ultimo avrà agevolazioni sul mercato allo scopo di riequilibrare i rapporti di forza. Le piccole? Faranno un torneo diverso».
Nereo Bonato, diesse di una “piccola“, preferisce spiegare il progetto vincente del Sassuolo quasi tutto italiano: «Il presidente Squinzi voleva che diventassimo la seconda squadra di tutti gli appassionati: una forte identità italiana era indispensabile per raggiungere lo scopo. Imbottire le squadre di stranieri, soprattutto se giovani e non ancora pronti, è un errore, perché il nostro calcio vive di presente e non di futuro e perciò non aspetta nessuno. Piuttosto, aiutiamo i nostri Primavera a trovare uno sbocco nel calcio professionistico: le squadre B potrebbero essere una buona soluzione».
La pensa allo stesso modo Fabrizio Larini, ex direttore sportivo di Udinese e Parma, due modelli di multiproprietà (il patron friulano, Pozzo, possiede anche il Granada in Spagna e il Watford in Inghilterra, gli emiliani con Ghirardi avevano acquistato lo sloveno Nova Gorica) che hanno avuto esiti opposti. «Quello udinese è un modello collaudato, basato su osservatori capaci di segnalare giovani bravi in tutto il mondo; il Parma ha improvvisato l’anno scorso, ma il campionato sloveno non è quello spagnolo o inglese e, soprattutto, il club ha acquistato non soltanto giovani, ma giocatori senza più margini di crescita. Perché l’Udinese compra all’estero e non in Italia? Perché già ai miei tempi un giovane di B costava quanto 2-3 stranieri. Ma il problema non è solo italiano. Ho visto Psg-Chelsea di Champions: vogliamo contare quanti francesi e inglesi c’erano in campo?».
IL MODELLO GERMANIA
Eppure non è così dappertutto. Nella Germania campione del mondo «l’eccezione è rappresentata da una squadra che giochi con tutti stranieri. In Italia è la regola», dice Matteo Tognozzi, scout dell’Amburgo. «I tedeschi sono orgogliosi dell’identità nazionale, hanno una mentalità chiusa e sul lavoro sono intransigenti: diffidano degli italiani, per esempio, perché convinti che non abbiano la loro disponibilità al sacrificio. Vogliono che lo straniero sappia la lingua: per questo preferiscono un austriaco o uno svizzero a un latino. Ma è soprattutto la mentalità dei dirigenti a essere diversa: il Bayer Leverkusen ha ceduto Carvajal al Real Madrid e lo ha sostituito con Donati, appena retrocesso in C col Grosseto. In Italia al posto di uno ne prendiamo 3: così i club saltano. Infine: è rarissimo che in Germania qualcuno spenda più di 10 milioni di euro per un giocatore. Per tre motivi: uno, l’età media dei calciatori è più bassa rispetto all’Italia; due, i club sono economicamente autosufficienti, non c’è il magnate che ripiana i debiti, quindi c’è poco da scialare; tre, gli stessi club preferiscono altri tipi di investimento: l’Amburgo ha speso 25 milioni per il centro sportivo e 17 per lo stadio. Queste sono le cose che durano».
Arrigo Sacchi, con un’uscita sui giocatori di colore giudicata infelice dai più, ha sottolineato l’invasione straniera anche nelle categorie giovanili. «Io non guardo il colore della pelle dei miei ragazzi», spiega Filippo Galli, coordinatore del settore giovanile del Milan, «ma è vero che i neri sono più precoci dei nostri dal punto di vista fisico e quindi più pronti ad adattarsi al calcio dei grandi. Ma questo non vuol dire che al Milan si importino vagonate di stranieri a discapito degli italiani: la nostra attività di scouting si ferma ai quattordicenni. Compresi i figli nati in Italia degli immigrati». Mino Favini, responsabile del vivaio atalantino, non fa sconti ai procuratori: «I guai attuali nascono 10-15 anni fa, da quando nell’ambiente sono entrate persone che col calcio non c’entrano niente. Quando vedo gente che ha la procura su certi miei giocatori che non hanno nessuna possibilità di fare carriera, sento forte la puzza di bruciato». Gli fa eco Moreno Longo, allenatore del Torino Primavera vice campione d’Italia; «Con gli africani, anche in Primavera, c’è il problema dell’età: molti hanno 2-3 anni in più di quelli dichiarati, perché nei loro Paesi di origine non c’è l’usanza, o non c’è stata la possibilità nel caso specifico, di registrare all’anagrafe il ragazzo quando nasce, ma più avanti. Le società? A volte sono in buona fede, altre fanno finta di niente, altre ancora sono conniventi».