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 2015  febbraio 17 Martedì calendario

Storia di Milano

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Notizie tratte da: Marta Boneschi, Milano, l’avventura di una città, Ledizioni 2014, pp. 420, 19,90 euro.

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• «Mai si era visto un cambio di padrone tanto rapido: il 19 marzo 1746 l’esercito austriaco entra dalla porta Romana, e intanto dalla porta Ticinese escono le truppe spagnole. Appena tre mesi prima, il 16 dicembre 1745, l’infante Filippo, figlio del re di Spagna, era giunto in città salutato da un solenne Te Deum in Duomo. Ora, sconfitto, restituisce la città agli imperiali di Maria Teresa d’Asburgo».

• «L’andirivieni di armate non è certo una novità. Insediati in un crocevia di persone e merci, al centro di una regione fertile, da secoli i milanesi piegano la testa a dominatori venuti da lontano. Al passaggio di milizie e al suono di lingue diverse il popolo si adatta, i mercanti cambiano moneta e l’aristocrazia conserva proprietà, privilegi e titoli. Pagato un tributo in denaro, reso omaggio al potente, ognuno riprende il proprio cammino, solerte nell’obbedire ma cauto in attesa dello sventolare di una prossima bandiera. Questa volta però il cambio della guardia, che si svolge in poche ore come una coreografia da palcoscenico, reca il seme di un cambiamento profondo. Pochi se ne accorgono, quasi nessuno sa che gli austriaci sono destinati a restare, a portare uno Stato moderno, una cultura d’avanguardia, e riforme tali da regalare alla città un rinnovato primato in Europa».

• «Milano è dominata da un’oligarchia patrizia, 250 famiglie imparentate tra loro, dotate di feudi, palazzi in città e ville in campagna. A parte i Litta, i Borromeo e pochi altri, la nobiltà – quasi tutta di origine mercantile – è ricca di terre e di un orgoglio accuratamente gratificato dai padroni spagnoli, ma è gravemente sprovvista di denaro liquido. Eppure comanda al punto da potersi indebitare quasi all’infinito con quei borghesi, mercanti o banchieri, che di contante ne hanno in abbondanza e, sognando l’ascesa sociale – cioè l’acquisto di un feudo con titolo e blasone – sono pronti a ingraziarsi in ogni modo i nobili. Potere e prestigio costituiscono una prerogativa dei patrizi, capaci di negoziare con qualsiasi conquistatore».

• Tra le più antiche e illustri famiglie patrizie di Milano sono i Borromeo. «Il loro motto “Humilitas” contrasta con l’orgoglio di famiglia. Toscani di origine, dalla fine del Trecento commerciavano a Milano in lana inglese, cotone africano, seta toscana, olio siciliano, armi bresciane, ed esercitavano il mestiere bancario nelle filiali di Londra e Bruges. (…) In omaggio all’origine del nome (buon romeo è il pellegrino sulla strada di Roma), Carlo Borromeo, il santo nato nel 1538, è supremo avversario dell’eresia protestante, riorganizzatore della Chiesa ambrosiana, fondatore del Seminario (a porta Orientale) e del Collegio Elvetico (sul Naviglio di San Damiano). Il cugino Federico, nato nel 1564, ne ricalca le orme, lasciando un segno profondo nella città tormentata da carestie, invasioni e pestilenze; fonda la Biblioteca ambrosiana, prima in Europa aperta al pubblico».

• Nel Libretto de i ricordi al popolo della città e diocesi di Milano, il santo arcivescovo Carlo Borromeo istruiva «ogni pia famiglia a condurre una giornata devota: mai con le mani in mano, ma sempre operosi per allontanare le tentazioni. In particolare, affermava, occorre esercitare la massima sorveglianza sui deboli, cioè sui bambini e sui domestici, per sottrarli al demonio. Nulla serve a scacciare il peccato come i riti virtuosi, l’austerità, la parsimonia, la pietà, e nessun vigore è sprecato contro ogni deviazione, anche la più subdola».

• «A differenza dei Borromeo, i Verri non sono tra le prime famiglie milanesi. Arricchiti con il commercio della lana, avevano ricoperto cariche pubbliche e stretto alleanze matrimoniali di qualche peso, ma erano diventati nobili soltanto alla fine del Seicento, con l’acquisto della contea di Lucino e San Pedrino. Erano entrati nel patriziato, come un centinaio di famiglie, sotto la dominazione austriaca».

• Particolarmente diffusa tra i coniugi aristocratici del Settecento era la pratica dell’adulterio. «Tacitamente tollerato nel duro regime dei matrimoni combinati, questo costituisce un reato grave quando è di pubblico dominio (più di un’aristocratica è finita in convento per questo). Perché non sopportare dunque quella comoda via di mezzo che è l’istituzione del cavalier servente, approvato dal marito? Giova alla pace domestica e fa contenti quasi tutti».

• «Vinta la guerra e rinsaldata sul trono, Maria Teresa impone un nuovo patto al ducato di Milano (indispensabile all’impero per l’enorme ricchezza che produce): in cambio di sottomissione e tributi, offre uno stato moderno, un’amministrazione efficiente, qualche opera pubblica e quel pizzico di libertà compatibile con il suo illuminato dispotismo».

• A dare un impulso fondamentale allo sviluppo produttivo di Milano fu, a metà Settecento, il nuovo sistema di tassazione introdotto da Maria Teresa d’Austria, imperniato su un sistematico censimento delle proprietà e sulla stesura di un catasto. «Le proprietà sono classificate secondo specifiche categorie (pascolo, arativo, bosco, e così via), ma la novità più fruttuosa è che l’aliquota da pagare è fissa, indipendentemente dal reddito. Spiega il riformatore Gian Rinaldo Carli che le terre incolte “per incuria o per negligenza (…) rimangono senza diminuzione alcuna sotto il medesimo tributo” ed è meglio quindi vincere la negligenza e farle produrre, senza aggravi ma con profitto. Non esiste musica tanto dolce per le orecchie lombarde come il tintinnare della moneta. Il 1° gennaio 1760 il nuovo sistema entra in vigore, i proprietari sono spinti a valorizzare le terre, realizzando bonifiche, apportando migliorie, introducendo nuove colture. I milanesi ricevono dallo Stato un formidabile incoraggiamento a investire per produrre ricchezza in un sistema di maggiore equità».

• «È soltanto la prima di parecchie riforme. Negli anni Settanta e Ottanta, un pezzo dopo l’altro cadono le vecchie regole: le cariche pubbliche sono accessibili ai borghesi; la riforma monetaria mette ordine in un sistema arcaico e confuso; inizia la distruzione del “monopolio esiziale” delle corporazioni di mestiere; è abolito il fedecommesso (che obbliga a trasmettere il patrimonio al primogenito, senza poterlo vendere o suddividere). Vengono infine prudentemente incoraggiati tanto i viaggi di istruzione e di aggiornamento all’estero quanto la nascita di manifatture».

• Promulgato nel 1781 da Giuseppe II, figlio e successore di Maria Teresa, nell’ambito di una serie di riforme volte ad affermare la laicità dello Stato, «l’editto di tolleranza religiosa attira a Milano ebrei e protestanti, ricchi di idee, iniziative, ambizione e denaro. (…) Grazie a questo si sposano l’operosità devota dei milanesi (mai con le mani in mano per evitare ogni tentazione, suggeriva Carlo Borromeo) e il perseguimento del successo imprenditoriale come segno della grazia divina, tipico della cultura protestante».

• «“Con mia grande sorpresa vidi che stavano demolendo una chiesa per far posto a un teatro”, nota Thomas Jones l’11 novembre 1776. Gente devota e morigerata, i milanesi adorano però gli spettacoli teatrali e, da quando è andato a fuoco il teatro Ducale, soffrono serate di profonda malinconia. Quel che vede Jones è appunto il piccone che si abbatte su Santa Maria alla Scala, una malandata chiesa destinata a lasciare il posto al maggior teatro della città. Giulio Pompeo Litta “quale primo rappresentante del Corpo generale dei proprietari di Palchi nel Regio Ducal Teatro, acquista dal Demanio il sito della Scala e cura la realizzazione del progetto di Piermarini”. I lavori durano poco più di un anno, i finanziatori si assicurano un posto (ai Litta, grandiosi come al solito, toccano “i primi quattro palchi del primo rango a sinistra”). Il 3 agosto 1778, serata inaugurale, va in scena l’Europa riconosciuta di Antonio Salieri».

• «Se alcuni hanno da ridire sulla facciata, sul portico d’ingresso, sulla dimensione delle finestre, tutti sono però d’accordo nell’elogio degli interni. L’ariosità della sala, le decorazioni d’oro che brillano nel buio suscitano la meraviglia dei forestieri. Arthur Young, quando vi entra nel 1789, non ha dubbi: “Rimasi stupito nel trovare il teatro per tre quarti pieno, i palchi s’affittano fino a quaranta luigi d’oro; come mai una città con poco commercio e poche manifatture può spendere così allegramente? Tutto si deve all’aratro”. “È immensa, non credo ne esista una più grande” afferma la Vigée Lebrun. Piermarini, nello stesso tempo, scatena la sua energia a costruire il teatro della Cannobiana, che viene inaugurato nel 1779».

• «Il volto di Milano si rinnova e la sua anima si rischiara, mentre aumentano i benefici per tutti: le strade, lastricate con pietre e ciottoli, sono più sicure; dal 1786 si diffonde l’illuminazione pubblica con lampioni a olio e più tardi alle contrade è assegnato un nome, e alle 5280 case un numero ciascuna. Viene costruita una nuova prigione a porta Nuova, il conte Gian Giacomo Durini dispone di una macchina per spegnere gli incendi, i carcerati vengono adibiti alla pulizia delle strade e nel 1780 Marsilio Landriani utilizza il primo parafulmine, invenzione dell’americano Benjamin Franklin. Il nobile Francesco d’Adda propone un piano stradale per un comodo collegamento tra le città del ducato, che subito comincia ad essere attuato».

• «Era dai tempi dell’impero romano che Milano non si trovava a far parte di uno Stato immenso e organizzato. I ministri riformatori di Maria Teresa sanno che occorre una burocrazia istruita, e dunque il punto di partenza del rinnovamento lombardo appoggia sulla scuola. L’imperatrice dispone che si proceda a svecchiarla, laicizzarla e volgerla ai nuovi obiettivi. All’università di Pavia, dove erano i giuristi – cioè i patrizi – a conferire le lauree, lo Stato avoca a sé questo privilegio. Alle Scuole palatine, traslocate a Brera dopo aver sfrattato i gesuiti, gli ingegni scelti dal governo insegnano le più diverse discipline: Cesare Beccaria la scienza camerale, cioè l’economia; Giuseppe Parini l’eloquenza; Alfonso Longo il diritto ecclesiastico; Ruggero Boscovich l’astronomia; Paolo Frisi la fisica. Nell’Accademia di belle arti – creata nel 1776 e necessaria a una città che si cura dell’estetica – si svolgono i corsi di Giuseppe Piermarini per l’architettura, del romano Giuseppe Franchi per la scultura, di Domenico Aspari per il disegno, del ticinese Giocondo Albertolli per l’ornato».

• Figlio di Gabriele Verri, illustre giurista alquanto austero e conservatore, «a trentaquattro anni Pietro è tenuto a comportarsi in casa come quando ne aveva dieci: fino alla morte del capofamiglia anche il primogenito è un suddito, come le mogli, le figlie, i parenti poveri e la servitù. La vicinanza di familiari che preferiscono il rosario al libro e il codice latino al volume francese gli procura un vivo “bisogno di liberarmi delle vessazioni domestiche” per darsi a progetti costruttivi. Il 6 aprile 1762 registra con sollievo: “si va formando da me una scelta compagnia di giovani di talento”, che comprende Cesare Beccaria “profondo algebrista, buon poeta, testa fatta per tentare strade nuove se l’inerzia e l’avvilimento non lo soffocano”. Il gruppo si dà un nome, Accademia dei Pugni, e il pettegolo maestro di musica Carlo Monza, detto il Monzino, mette in giro la voce che, quando discutono di filosofia, quei ragazzi si accendono al punto di venire alle mani». Componevano il gruppo i fratelli Alessandro e Pietro Verri, Cesare Beccaria, Alfonso Longo, Gianbattista Biffi, Luigi Lambertenghi e Giuseppe Visconti di Saliceto.

• «Il 1° giugno 1764 esce il primo numero del “Caffè”, una rivista in quattro fogli (stampata a Brescia, in territorio veneto, per evitare la censura). Seria e battagliera, l’iniziativa degli accademici dei Pugni viene presentata con il consueto tocco di burlesca ironia: un greco dell’isola di Citera di nome Demetrio dice addio alla patria oppressa dagli ottomani e s’imbarca per il Levante. La sua nave fa scalo a Moka nella penisola arabica, dove egli acquista un carico di caffè che, dopo un lungo viaggio, sbarca a Livorno. Decide di aprire una bottega a Milano dove, grazie a lui, “si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè, (…) che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo più grave, l’uomo il più plombeo della terra bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole”. Il giornale insomma si propone come una tazza della squisita bevanda, che risveglia i sensi e scuote dal sonno dei pregiudizi».

• «Il libro del Marchese Beccaria, l’argomento glielo ho dato io, e la maggior parte dei pensieri è il risultato delle conversazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro, Lambertenghi e me. Nella nostra società la sera la passiamo nella stanza medesima ciascuno travagliando. Alessandro ha per le mani la Storia d’Italia, io i miei lavori economici politici, altri legge. Beccaria si annoiava e annoiava gli altri. Per disperazione mi chiese un tema, io gli suggerii questo, conoscendo che per un uomo eloquente e di immagini vivacissime era adatto appunto» (la genesi di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, ricostruita da Pietro Verri).

• «Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi»: iniziava così Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764. Secondo Beccaria «la tradizione bimillenaria di una giustizia che protegge i pochi e vessa i molti va superata, cancellando la “crudeltà delle pene” e l’“irregolarità delle procedure criminali”. Bisogna inoltre tracciare un confine tra il peccato e il delitto: il primo nuoce alla salvezza dell’anima ed esige un’espiazione, il secondo ferisce la società che ha diritto a un risarcimento. “Perché ogni pena non sia una violenza di uno o molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima possibile nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi”, scrive Beccaria, indicando un preciso e laico patto sociale».

• «Al tempo di Beccaria la pena di morte è comminata a Milano per una trentina di reati, che vanno dal furto all’“azione venerea con un’ebrea” e naturalmente all’omicidio».

• «Gli scritti e l’azione di Verri e di Beccaria segnano un confine tra la vacua severità spagnola e l’efficace rigore austriaco, tra una pietà religiosa e una laica, tra una città rassegnata e una proiettata al futuro. (…) Sotto la dominazione austriaca è apparso possibile, e anzi giusto, mutare orientamento ai pensieri e alle azioni. Nel 1794, l’anno in cui muore Cesare Beccaria, Pietro Verri scrive: “Siamo venuti al mondo in un secolo curioso, sei o sette generazioni de’ nostri maggiori non hanno veduto tutt’insieme tanti cambiamenti quanti ne abbiamo osservati noi”».

• Nel 1796 «gli austriaci se ne vanno. Si avvicinano i francesi. Dopo la battaglia di Lodi del 10 maggio 1796 una delegazione va incontro al giovane generale dal nome italiano, Napoleone Bonaparte. La capeggia Francesco Melzi d’Eril, cognato di Pietro Verri, e nipote di quel Francesco Saverio Melzi, filo spagnolo nell’inverno 1746, seguace dell’infante Filippo. L’oligarchia milanese è intatta, come la sua antica abitudine di offrirsi volonterosamente ai nuovi padroni, insieme ai frutti della sua fatica fisica e intellettuale».

• «I milanesi colti leggono e scrivono il latino, parlano il dialetto tra parenti, con i bottegai e con la servitù, discorrono in francese in società, comunicano in italiano con qualche connazionale, e usano il tedesco per i contatti politici e amministrativi. Quando il 15 maggio 1796 le truppe francesi entrano in città, le loro parole, canti e grida non suonano così sconosciuti. Dei nuovi padroni ognuno vede quel che vuole vedere: il filofrancese Carlo Salvador si entusiasma perché tutti mettono la coccarda tricolore, mentre altri testimoni giurano che i milanesi assistono mesti alla sfilata dei vincitori. Secondo Stendhal “un popolo intero si accorse, il 15 maggio 1796, che tutto quello che aveva rispettato fino allora era sovranamente ridicolo e qualche volta odioso”».

• «Quando il generale Bonaparte entra a Milano, nutre sentimenti contrastanti verso i vinti. Sceso in Italia non per buon cuore, ma per sottrarre agli austriaci un’area strategica, Napoleone si sente un po’ italiano, e per il paese degli avi coltiva ambiziosi progetti. Parla la lingua appresa da bambino, sia pure con qualche errore, e con il passare del tempo matura l’idea di fare dell’amena penisola un regno per gli eredi. Eppure le général en chef considera gli italiani come un popolo “effeminato e corrotto, vile non meno che ipocrita, poco idoneo alla libertà”, da tenere con pugno di ferro al servizio dei francesi. Della città, il 17 maggio 1796 scrive al Direttorio: “Milano è molto portata alla libertà: c’è un club di ottocento persone, tutti avvocati o negozianti. (…) Se questo popolo domanda di organizzarsi in repubblica, dobbiamo accordargliela?”».

• All’inizio del 1797, acquistata maggiore autonomia dal Direttorio, Napoleone «fa quello che aveva in mente, creando la Repubblica Cisalpina. L’opera di asservimento, educazione e riscatto degli italiani si compirà a partire da Milano, una capitale ideale, con la sua posizione al centro di pianure fertili e all’incrocio delle vie di comunicazione, così versata nel commercio e così all’avanguardia per il suo ceto borghese. Per celebrare la nascita della Cisalpina, il 7 luglio 1797, milanesi, francesi e pagnottanti partecipano alla Festa della Federazione che si svolge al vecchio Lazzaretto».

• «Più prospera e più moderna delle altre città italiane, come notavano i viaggiatori settecenteschi, Milano è capitale dei quattro successivi stati creati da Napoleone (le due Repubbliche Cisalpine tra il 1796 e il 1802, poi la Repubblica italiana e dal 1805 il Regno d’Italia). (…) Napoleone conferisce alla città tutte le caratteristiche della capitale, al centro di uno stato con un solo sovrano, un’amministrazione unica, un codice, un sistema di pesi e misure uguale per tutti. Ospita i ministeri, gli uffici pubblici e, dal 1806, una corte fastosa e costosa, che coinvolge nelle cariche la vecchia aristocrazia (Vincenza Melzi d’Eril, vedova di Pietro Verri, è dama di corte, come Teresa Casati, moglie di Federico Confalonieri) e quella appena nata per meriti economici, politici e militari».

• «Il merito napoleonico allarga il ceto dei nuovi ricchi, che approfittano degli appalti pubblici e investono nell’acquisto dei beni ecclesiastici: al tempo di Maria Teresa i borghesi erano 17 su 100 cittadini, nell’anno della vittoria di Marengo sono diventati 25».

• «I francesi vengono prima di tutto per rubare a man bassa. (…) Oltre al contante, stoffe, cibo, metalli, cavalli, scarpe, stoviglie. Qualche volta pagano con assegni, qualche volta non offrono neppure carta straccia. Di queste rapine Bonaparte non fa rapporto al Direttorio, al quale invece invia lunghi elenchi delle sue prestigiose requisizioni: opere di Michelangelo, Correggio e altro ben di Dio rastrellato lungo il percorso e subito avviato verso Parigi. Quando impone la contribuzione di 20 milioni di lire, la famiglia Verri vende l’argenteria, perché questo è il prezzo della singolare “libertà” francese».

• «Ugo Foscolo arriva a Milano nel novembre 1797, piombando in quell’umidità autunnale che tanto nuoce alle sue ossa. Il grigio pesante e il pallido azzurro della Lombardia non gli piacciono fin dal primo momento. È nato a Zante, isola verdeggiante e ventosa del mar Ionio, il 6 febbraio 1778, è cresciuto sulla laguna veneta negli ultimi sprazzi della Serenissima. (…) Oltre alla poesia, coltiva tre accese passioni: per le idee francesi di uguaglianza, libertà e fraternità, per le belle signore e per il gioco d’azzardo. Focoso e sprecone, non è fatto per attirarsi simpatie in una città che ha il culto della proprietà e della convenienza».

• «Un patriota come lui non può che ricoverarsi a Milano, visto che dalla primavera del 1797 è la capitale di una repubblica in stile francese, dove convergono soldati e uomini d’affari, avventurieri e idealisti. Attirati dalla prospettiva di libertà, uguaglianza e fraternità, riparano a frotte tra le antiche mura spagnole quelli che i milanesi chiamano “pagnottanti”, gente di varia origine a caccia di un sostentamento. Conquistata ma libera, la città torna al centro di grandi movimenti».

• Nonostante Foscolo giudichi Milano una città avida e senz’anima, essa gli offra amori in abbondanza. «Nel 1801 s’innamora di una bellezza dagli occhi di carbone, Antonietta Fagnani, sposata a Marco Arese Lucini. Con la complicità della cameriera Teresa, gli amanti approfittano delle uscite del marito per incontrarsi nel palazzo di porta Orientale (di fronte al Seminario voluto da Carlo Borromeo per una comunità morigerata e pia). Ma questa abitudine potrebbe diventare imbarazzante: l’adulterio è tollerato, purché discreto, e invece l’affaire è noto a tutti. Al rassegnato coniuge non rimane che divulgare il proprio duplice disappunto: “Ho fatto costruire la facciata di casa mia da Luigi Cagnola perché tutti l’ammirino, e purtroppo piace solo a me. Ho scelto mia moglie per me solo, e purtroppo piace a tutti”».

• Foscolo, «innamorato ma giovanilmente trepidante, scrive all’amata: “Preparami un migliaio di baci, ch’io verrò stasera a succhiarli dalla tua bocca celeste” oppure più preoccupato: “Che opinione ti eri formata della mia maniera di amare? Si è ella migliorata, o sei restata delusa? Mi credevi più ardente?”. La maniera di amare di Foscolo è generosa, gli piacciono tutte. Quando è contagiato da una malattia venerea, invece di prendersela con la propria versatilità erotica, ripete che Milano è una città da suicidio».

• Altra grande passione di Foscolo è il gioco d’azzardo, «un passatempo che preoccupa le autorità e affligge le famiglie da molto tempo: tra i giovani che hanno messo a repentaglio il patrimonio si contano nomi illustri come quello di Francesco Melzi d’Eril e Alessandro Manzoni».

• «Il 2 gennaio 1802, mentre Bonaparte scende a Lione dove fonderà la nuova Repubblica italiana, Foscolo è arrestato a Milano perché colto in flagrante gioco d’azzardo al Caffè Nuovo sul corso di porta Orientale. Due mesi più tardi il vicepresidente della Repubblica Francesco Melzi d’Eril legalizza il passatempo, con sommo giovamento delle casse pubbliche: si giocherà nel ridotto dei teatri (alla Scala la bisca funziona da mezzogiorno alle quattro del mattino)».

• È proprio nel ridotto della Scala che nel 1806 Foscolo «vede un “nuovo arnese di giuoco. (…) È questo una macchina grande fatta con lusso, e maestria, nella quale gira una palla, mentre gira anche il quadrante del giuoco stesso, finché va a fermarsi sopra un numero. I numeri sono alternati rossi e neri”. Tra la roulette e la contrada di San Damiano, dove abita in quel periodo, compone i Sepolcri».

• «Il suo stato d’animo frustrato e livoroso gli fa vedere i milanesi come “animali bipedi” che hanno “tutti il cuore castrato e grasso, e le fibre del cervello cornee”. Ne disprezza l’attaccamento alla proprietà e alla buona tavola e, dal caffè alla panna (in dialetto pànera), rinomata specialità locale, ribattezza la città con lo spregiativo nome di Paneropoli».

• Profondamente innamorato di Milano, al punto di definirla «il luogo più bello della terra», era lo scrittore francese Henry Beyle, meglio noto come Stendhal, che vi giunse per la prima volta diciottenne nella primavera del 1800. Frequentatore del teatro alla Scala, «la prima volta che aveva visto il teatro, lo aveva descritto a Pauline: “C’è qui una grande sala da spettacolo superba. Immagina che l’interno è grande come metà di place Grenette. Vi si recita la stessa opera per quindici giorni; la musica è divina e gli attori detestabili. Tutti i palchi sono in affitto, in modo che noi abbiamo soltanto il parterre e il palco dello Stato maggiore”. Spiega che “il teatro alla Scala è il salotto della città. Non c’è società che in teatro; non una casa aperta. ‘Ci vediamo alla Scala’ si dice per qualsiasi genere di affari” e solo il venerdì, giorno di mondanità nelle case private, il teatro è chiuso».

• «Definisco la Scala il primo teatro del mondo, perché è quello che fa avere il massimo piacere dalla musica. Non c’è un lume nella sala, non è rischiarata che dalle luci riflesse dalle decorazioni. Impossibile immaginare qualche cosa di più grande, di più magnifico, di più imponente, di più nuovo, di tutto quello che è architettura. (…) Quando entrai, un pizzico di emozione in più mi avrebbe fatto sentire male e mi avrebbe fatto sciogliere in lacrime» (Stendhal, di ritorno a Milano nel 1811).

• «Nel 1811, dopo quindici anni di dominazione francese, più di un terzo dei milanesi non è nato in città. Nei secoli precedenti, chiusa nella cerchia dei bastioni e condizionata dalle idee controriformiste, la popolazione era rimasta più o meno uguale a se stessa. I nuovi abitanti arrivavano a piccoli numeri e da zone limitrofe: contadini senza terra, muratori (la colonia più numerosa comprende i comaschi e ticinesi), manovali, domestici. L’ondata francese trascina con sé masse più consistenti, poi Milano capitale attrae altre genti con una intensità mai vista. Tra i poveracci spuntano però personaggi – come Foscolo, Beyle, Dandolo – che, sapendo leggere e scrivere, portano con sé valigie di libri che leggono (e qualche volta scrivono). (…) In cambio di qualche pagnotta, la città acquisisce il bene inestimabile delle idee nuove, racchiuse nel bagaglio di questi personaggi colti e capaci».

• «Nella città napoleonica hanno diritto di residenza anche gli ebrei (dopo due secoli di bando assoluto). In mancanza di una sinagoga i riti religiosi si celebrano in casa di Moise Formiggini, modenese e gioielliere come David Pavia. Sono tra i primi ebrei a risiedere nella città alla quale conferiscono capitali, energia e ingegno. Nel regime di libertà religiosa convergono sulla capitale frotte di protestanti, per lo più svizzeri e tedeschi, incoraggiati dalla prospettiva di buoni affari nella banca e nell’industria e dalla presenza di un’amministrazione pubblica moderna. Naturalmente i forestieri che hanno maggior peso in città sono i francesi».

• «Così come i provinciali e i profughi entrano tra le mura di mattoni rossi, i milanesi ne escono, e tutti quanti imparano sul campo a essere italiani. È la cura di Napoleone contro il campanilismo dei sudditi. (…) Mentre i pagnottanti diventano milanesi e i milanesi si avventurano oltre le mura, tutti quanti si stringono nel desiderio di costruire una comunità nazionale».

• «Quando nel 1802 entra in vigore la coscrizione obbligatoria per i maschi tra i venti e i venticinque anni, la maggioranza scansa il servizio, anche con la complicità dei preti, che occultano i registri parrocchiali. I giovani di leva sarebbero 18 mila, ma nel 1803 gli arruolati risultano soltanto 4 mila. L’anno dopo la “larva di milizia” – così scrive la penna acuminata di Foscolo – conta 14 mila effettivi, metà dei quali però sono polacchi, esuli dopo la spartizione del loro paese. Serve comunque a qualche cosa: vanno a battersi per l’imperatore, fianco a fianco, lombardi e marchigiani, veneti ed emiliani, in una drastica cura contro il campanilismo. Quando si prepara l’armata per invadere le isole britanniche, gli italiani partecipano in 20 mila. Dopo la campagna di Russia, che lascia parecchie famiglie milanesi in lutto, si calcola che 30 mila italiani abbiano dato la vita per Napoleone (e ancora nell’aprile 1814 l’esercito italiano guidato da Eugenio de Beauharnais conta 45 mila effettivi)».

• «Simbolo di una città che cambia, il Duomo vede intanto avverarsi la previsione di Pierre-Jean Grosley: la cattedrale non sarà completata finché “qualche sovrano, impadronendosi dei patrimoni legati per questa opera, non li destinerà senz’altro al suo compimento”. Nel 1805 Napoleone dispone dunque che la Fabbrica del Duomo paghi i lavori per completare la facciata. Promette che rimborserà la somma, ma non lo farà mai».

• «“Verso il 1808 divenne bon ton tra i funzionari impiegati del Regno d’Italia l’avere dei libri” osserva Stendhal. Una libertà di espressione ignota alle generazioni precedenti, la necessità professionale, l’obbligo della moda, l’afflusso di pagnottanti colti fanno di Milano il centro della cultura d’avanguardia nonché la capitale dell’istruzione, del giornalismo e dell’editoria. Sul terreno della libertà francese germoglia il seme del pensiero politico, gettato dall’école de Milan al tempo di Verri e Beccaria, anche grazie all’apporto di pagnottanti portatori di letture ed esperienze diverse».

• «Tra il 1805 e il 1815 esistono a Milano diciotto scuole elementari, due ginnasi, vari istituti di specializzazione e un collegio militare. Ludovico di Breme, figlio del ministro dell’Interno, propugna una scuola di stenografia, che lui stesso ha appreso con il metodo francese Bertin. Non più destinate al convento, le ragazze possono apprendere nozioni utili: nel 1808 nasce il Collegio delle fanciulle, diretto dalla parigina baronessa De Lor e nel 1812 Maria Cecilia Cosway, sostenuta da Melzi d’Eril, fonda a Lodi la Casa della dame inglesi».

• «Più che in passato la corte alimenta un’industria del lusso che impegna gioiellieri, sarti e modiste. La clientela della capitale è tanto promettente che Marie Carron Ribier apre un negozio di moda francese vicino al Duomo, mentre il “Corriere delle dame”, fondato nel 1804 da Giuseppe Lattanzi e dalla moglie Carolina Arienti, affina il gusto della moda: otto pagine settimanali presentano i figurini di Parigi, nonché scritti in poesia e prosa, esercitando l’occhio delle signore all’eleganza e quello delle sarte al taglio e al cucito».

• Sotto la dominazione napoleonica, «la douceur de vivre dell’antico regime resuscita in versione aggiornata. Nobili, ricchi borghesi e alti funzionari godono alla Scala il melodramma e il balletto, dove trionfano le coreografie di Salvatore Viganò, nipote di Luigi Boccherini, maestro innovativo nell’uso delle scene, dei ballerini e della melodia. Non manca la concorrenza: il calzolaio Carlo Re acquista dal demanio la chiesa di San Salvatore in Xenodochio per costruire un teatro, disegnato da Luigi Canonica, che porta il suo nome e viene inaugurato il 18 dicembre 1813».

• «La fame di musica dei milanesi e l’energia napoleonica creano un circolo virtuoso: nel 1808 nasce il Conservatorio, che attira allievi e insegnanti, e proprio nello stesso anno Giovanni Ricordi, abbandonata la professione di violinista al teatro Fiando e lasciata l’arte di copista manuale, importa il sistema della calcografia, che ha imparato a Lipsia; apre bottega vicino alla Scala, e fonda così una delle più prospere e durature case editrici musicali d’Europa».

• «Il popolo, che ha accesso al parterre scaligero, è richiamato all’Arena (dove dal 1802 la struttura in legno è sostituita da una in pietra) dalle corse di bighe, dalle naumachie e perfino da quelle gare tra i nani deplorate da Stendhal come uno “spettacolo disumano” (trentasei nani corrono con le gambe chiuse nei sacchi, e paiono altrettanti ranocchi). Qualche volta il calore del pubblico è tale che la festa si conclude nella calca, con risse e intervento delle forze dell’ordine».

• «Anca el negozi della passerina / El sta pocch i mee donn a andà in bordell, / Chè i temp hin stemii e el minister Prina / El ne porta via el rest coj so gabell» («Anche il commercio della passerina non è lontano, donne mie, dall’andare in malora, ché i tempi son grami e il ministro Prina ci porta via il resto con le sue gabelle»): questi, secondo Carlo Porta, gli effetti sulla città di Milano del declino della potenza francese, avventuratasi in spedizioni belliche dispendiose quanto fallimentari, tra il 1813 e l’inizio del 1814.

• Il 6 aprile 1814 Napoleone abdicò. «Lasciati in balìa di un destino ignoto, i milanesi odiano ormai i francesi. Colpiti al cuore dai lutti delle ultime campagne, feriti nel portafoglio dalla rapacità imperiale, sono per giunta sollecitati da agenti provocatori filoaustriaci. (…) La notizia dell’abdicazione raggiunge i milanesi soltanto il 16 aprile, quando nessuno comanda e nessuno riempie il vuoto di potere. Non c’è una delle istituzioni create da Napoleone che disponga di poteri effettivi».

• Il 20 aprile il furore popolare, opportunamente aizzato, si riversò contro il ministro Prina, l’odiato tassatore di Napoleone. «In certe strade, percorse dai sobillatori, si leva intanto il grido: “Prina! Prina!”. Il ministro, vivamente consigliato di lasciare la città, è invece rimasto a casa sua, di fronte a San Fedele, dove si ammassano i soliti volti truci. (…) Avvertito del pericolo, Prina si è nascosto all’ultimo piano, nell’armadio di una stanza remota. Ma il palazzo è invaso, il ministro scovato, spogliato, lanciato da una finestra e ripetutamente infilzato dagli ombrelli. Riesce a svincolarsi e, ferito, si rifugia alle Case Rotte da un benevolo oste. Gli assassini radunano fascine di legna, le ammassano alla porta per stanarlo con il fumo. Prina potrebbe salvarsi nella vicina chiesa di San Giovanni alle Case Rotte, ma il parroco rifiuta di aprire, e quindi il potente ministro si consegna agli assassini: “Sfogatevi pure sopra di me, poiché sono già immolato; ma fate almeno che sia l’ultima, questa vittima”. Lo afferrano per i piedi e lo trascinano per quattro ore in un linciaggio a punte di ombrello, finché il cadavere è ridotto a un mucchio di ossa, carne e sangue, straziato e irriconoscibile, mentre nel buio brillano le fiaccole del lugubre corteo».

• «Alla pagina del 20 aprile 1814 l’almanacco “Il rustico indovino” aveva pur segnalato: “Chi si arricchisce sulle altrui rovine / non dà lieto principio a triste fine”».

• Il 28 aprile 1814, quando i francesi sono ormai stati rovesciati, «Carlo Porta scrive ai “paracar che scappee de Lombardia”, cioè ai soldati francesi: “E sì che tutt el mond sa che vee via / Per lassà el post a di olter forastee / Che per quant fussen pien de cortesia / Voraran anca lor robba e danee” (“E sì che tutto il mondo sa che andate via / Per lasciare il posto ad altri forestieri / Che per quanto siano pieni di cortesia / Vorranno anche loro roba e denaro”). Proprio in quel momento le truppe austriache entrano dalla porta Romana, guidate dal generale Adam Neipperg».

• «Il “partito dei vecchi nobili”, alleato degli eterni opportunisti e appoggiato alle forza delle armi austriache, ha trionfato. Il 26 maggio tutte le istituzioni napoleoniche sono sciolte, ai reggenti viene imposto il giuramento di fedeltà all’imperatore Francesco I, che detesta gli italiani e li ritiene meritevoli solamente di punizioni esemplari».

• «Il prefetto di polizia Giovanni Villa, che aveva iniziato gli interrogatori degli arrestati nella giornata del 20 aprile, viene presto destituito perché “fa rivivere delle animosità che si volevano sopite”. Molti cittadini, alcuni innocenti e altri pentiti, consegnano alle autorità oggetti e arredi rubati al ministro, che vengono ammassati in una stanza e poi diligentemente fatti sparire. L’assassinio di Prina, come convenuto, rimane impunito».

• Sotto il grigio e opprimente dominio di Francesco I, «l’astuta lentezza della burocrazia viennese diventa leggendaria: il permesso di allagare un pattinatoio per le feste di carnevale raggiunge Milano nella canicola di luglio; quando un funzionario chiede l’autorizzazione alle cure termali, questa arriva dopo che il poveretto è deceduto; si vieta perfino di giocare in pubblico con la palla di legno».

• «A Milano, così partecipe delle vicende europee nel rimescolamento delle scorrerie di Bonaparte, è arrivata notizia del romanticismo tedesco e della rivoluzione industriale inglese. Ai patrioti preme di restare in contatto con i circoli liberali e romantici. (…) Nel cupo clima restaurato, la letteratura brilla come impegno primario dei patrioti. Non più capitale politica, Milano rimane una postazione d’avanguardia culturale».

• «La più grande propagandista del nuovo gusto è Germaine de Staël, inquieta viaggiatrice e splendida conversatrice, la quale ha soggiornato in Italia – dove ha ambientato il romanzo Corinne – ed è passata da Milano nel gennaio 1816. (…) “Questo paese” afferma Madame “è tanto più ansioso di apprezzare i conseguimenti letterari perché non può sperare di raggiungerne mai di altro genere”».

• Alessandro Manzoni «è legalmente erede di Pietro Manzoni, nobile lecchese trapiantato a Milano, e di Giulia Beccaria, figlia del grande Cesare. In realtà – a Milano tutti lo sanno – suo padre è Giovanni Verri, fratello minore di Pietro».

• Alessandro Manzoni, «ormai orientato al romanzo alla maniera di Walter Scott, il 24 aprile 1821 inizia a scrivere una vicenda ispirata al vero, che nel 1827 uscirà con il titolo I promessi sposi. Nel luglio 1821, quando arriva a Milano la notizia della morte di Napoleone a Sant’Elena, compone il 5 maggio, dove l’ispirazione religiosa e il senso della storia si fondono con la consapevolezza della grande e contradditoria lezione dell’imperatore».

• «Nel 1817, con l’assenso benevolo della polizia, si forma una banda di delinquenti che prende il nome di Compagnia della teppa (da quel misto di erba e muschio – in dialetto teppa – che ricopre lo spalto del Castello dove usano riunirsi). Compiono l’ultima bravata nel 1821, quando sequestrano tredici signore e le rinchiudono nella villa Simonetta insieme a tredici nani travestiti da personaggi dell’antichità classica che le tormentano e le terrorizzano».

• «Nel 1840 apre la prima ferrovia verso Monza, con carrozze aperte “alla giardiniera”, e nel 1841 entra in funzione il primo servizio di omnibus con cinque linee».

• «I fratelli De Cristoforis sfoderano la massima audacia quando affidano a Angelo Pizzala il progetto di una Contrada de veder: la Galleria De Cristoforis, costruita in undici mesi da cinquecento muratori vicino alla Corsia dei servi, è illuminata a gas, contiene una settantina di negozi ed è inaugurata il 29 settembre 1832. L’editore Francesco Lampato vi installa un gabinetto di lettura dove si possono consultare un centinaio di testate italiane e straniere; nel 1842 vi apre uno studio fotografico Alessandro Duroni, il primo della città. Dieci anni più tardi lo stesso Pizzala costruisce il Bagno di Diana, nei pressi del bastione Monforte, (…) dando l’avvio al civile uso di lavarsi e a quello salutare del nuoto (nel 1854 i bagni pubblici salgono a una decina)».

• «Vengono introdotte innovazioni domestiche di ogni genere, igieniche come il bagno, comode come le stufe, gradevoli come la carta da parati e avveniristiche come l’illuminazione a gas. Se i fiammiferi al fosforo semplificano l’accensione del fuoco, qualcuno propone di metterli fuori legge perché forieri di incendi. Il “Corriere delle dame” preannuncia la macchina per cucire, novità parigina, e Carolina Bertarelli, coraggiosa moglie dell’importatore, è la prima ad adottarla».

• Intorno alla metà dell’Ottocento, «dopo la rendita fondiaria e il commercio, l’artigianato è la terza fonte di ricchezza, e Milano si conferma una città varia con una società articolata: nel 1838 si contano 42 banchieri, 25 cambiavalute, 76 mercanti di seta, 40 setifici, 106 commercianti di tessuti, 48 laboratori tessili con 3500 lavoranti, 46 mercanti di pellame. Spiccano, come nel tempo andato, i mestieri del lusso e della moda: un centinaio di orologiai, 150 gioiellieri, 400 botteghe di tessuti, 65 guantai e cappellai, 16 laboratori di ricamo, 13 fabbriche di fiori artificiali, 300 sarti e sarte, 188 calzolai».

• «Gli scambi minuti di beni e servizi portano comodità nelle case e colore nelle strade, dove si aggira una popolazione di venditori ambulanti: di uccellini in gabbia, di legna per stufe e caminetti, di bastoni e canne, di fragole (magioster in dialetto, e perciò magiostrina è il loro cappello di paglia) e di ghiaccio (proveniente dai grandi depositi dell’Ospedale maggiore e del Castello, dove è portato dal Monte Rosa attraverso il lago Maggiore, il Ticino e il Naviglio). Si stende intorno alla città una rete di servizi, dove ogni villaggio offre una specifica capacità: muratori dal Ticino, spazzacamini dal lago Maggiore, raccoglitori di letame da tutte le campagne dei dintorni e di spazzatura dalla Brianza, riparatori di ombrelli (provvidenziali in una città tanto piovosa) e così via».

• «In Lombardia operano circa seicento medici, più che in qualsiasi altra zona d’Europa, provenienti dalle rinomate scuole dell’università di Pavia e dell’Ospedale maggiore di Milano. I professionisti stanno diventando la spina dorsale della società cittadina, dove cresce il numero di notai, avvocati, architetti e ingegneri. Carlo Porta, assunto al Monte Napoleone come impiegato, è fortunato a conservare il posto anche con gli austriaci. Gli uffici pubblici, il commercio e l’editoria danno un reddito a circa duemila scrivani, oltre seicento ragionieri, e parecchi intellettuali e artisti insegnano musica, canto, ballo, disegno e pittura. Nel 1833 l’esule napoletano Carlo Mele afferma: “Non v’è città che raccolga un maggior numero di ricchi stampatori e librai” e infatti la stampa – nonostante la censura – è il terzo datore di lavoro (undici anni dopo funzionano 200 torchi e una quarantina di tipografie)».

• «Le famiglie di rango mantengono un cappellano: el pret de casa della marchesa Paola Cangiasi, celebrata da Carlo Porta, viene scelto tra decine di candidati grazie alla cagnetta Lilla: “a rampegà suj gamb a don Ventura, / on pretecoll brutt brutt che fa pagura”, il quale godeva del merito di “avegh avuu adoss trè o quatter fett / de salamm de basletta involtà dent”, (“a rampicarsi sulle gambe a don Ventura, un pretoccolo brutto brutto da far paura”, il quale godeva del merito di “aver avuto indosso tre o quattro fette di salame di scarto”). Non la devozione ma il prelibato salume assicura vitto e alloggio al sacerdote».

• «Se nei salotti la conversazione è aperta a tutti, i caffè sono riservati agli uomini: lo Hagy nella Corsia dei servi offre vini stranieri; il Gnocchi nella Galleria de Cristoforis spicca per modernità; il caffè della Cecchina, quello della Peppina e quello dei Virtuosi ospitano vivaci conversazioni e scontri di opinioni. Ma dal novembre 1823 il più elegante è quello di Antonio Cova nella contrada di San Silvestro e San Giuseppe, con un giardino dove suona l’imperial regia banda militare».

• «Il potere austriaco sguinzaglia le spie nei luoghi di ritrovo, come nota Massimo d’Azeglio, aristocratico piemontese, pittore e scrittore versatile, arrivato da Roma nella primavera 1831 per sposare Giulietta Manzoni, primogenita dello scrittore: “A Milano, si può dire senza che le altre città se l’abbiano a male, la vita era assai felice, piacevole, gradita. In generale si parlava poco di cose serie: e come parlar di cose serie colla guarnigione che s’aveva in casa?”».

• «A metà del secolo otto bambini milanesi su dieci tra i sei e dodici anni hanno imparato in qualche modo a leggere e scrivere, conferendo alla città il primato di alfabetizzazione nella penisola. Eppure sono così numerosi i piccoli che lavorano – nel 1840 se ne contano a migliaia, atrocemente sfruttati – che il governo dispone un’inchiesta e nel 1843 emette prudenti limitazioni – divieto di lavoro sotto i nove anni, nessuna pena corporale tra i dodici e i quattordici, proibito l’orario notturno – che però vengono ignorate. Nel 1833 il medico Carlo Mojon inoltra alle autorità la richiesta di aprire una palestra di ginnastica, ma la risposta è inesorabile: “Il governo non vuole novità”».

• Secondo il patriota Carlo Cattaneo, tra il 1814 e il 1848 «l’Austria non volle esser altro in Italia che una potenza tedesca. Prese modi aspri e superbi, vessò e umiliò li stessi suoi seguaci. E ne venne il fatto mirabile ch’essi finalmente intesero per la prima volta d’essere italiani».

• «Un giovane artista emiliano, Giuseppe Verdi, approda nella capitale del melodramma dove incontra un poeta librettista ancor più giovane di lui. Temistocle Solera ha speso i ventiquattro anni della sua esistenza tra sofferenze e povertà; figlio di quell’Antonio finito allo Spielberg insieme a Pellico, è cresciuto in orfanotrofio. Per Verdi scrive il libretto di Oberto di San Bonifacio, rappresentato alla Scala il 17 novembre 1839 con buona accoglienza. Meno di un anno dopo, il 5 settembre 1840 la seconda opera di Verdi, Un giorno di regno, è subissata dai fischi. Disperato, Verdi medita di cambiare mestiere. Quando però l’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, gli consegna un nuovo libretto di Solera, dal titolo Nabuccodonosor, non ci pensa più e si mette al lavoro. Così la sera del 9 marzo 1842, tra velluti e stucchi dorati della grande sala scaligera, il coro intona Va pensiero davanti a un pubblico in estasi che ha scoperto il suo nuovo idolo».

• «Benché il Nabucco sia un’opera quaresimale e il Va pensiero un lamento e una preghiera, i milanesi lo interpretano a modo loro. Orecchiabile, ripetuto nella case da chi ha buona voce, e nelle strade replicato dagli organetti, nell’immaginazione collettiva il coro si fa lamento degli italiani oppressi. Verdi diventa un concittadino illustre, dal quale si aspettano altri trionfi».

• «Ai milanesi – e gli austriaci lo sanno bene – non piace affatto interrompere le loro fruttuose attività per andare a combattere. Lo fanno solo in circostanze eccezionali, e una di queste si presenta appunto il 18 marzo 1848», la prima di quelle che sarebbero passate alla storia come “le cinque giornate di Milano”. «Quando sorge il sole del 23 marzo, il “diavolezzo dei cinque giorni” è finito. Gli austriaci rimasti in città sono in cella o negli ospedali. (…) Nel silenzio e nella ritrovata quiete, i milanesi compongono i morti, e non è una gran consolazione constatare che sono circa 300, molto meno dei circa mille caduti nemici». Pochi mesi dopo, però, sconfitto a Custoza Carlo Alberto di Savoia, cui i milanesi si erano affidati, gli austriaci si installano ancora una volta a Milano, lasciando mano libera al vecchio e coriaceo feldmaresciallo Radetzky, fino a nominarlo governatore generale del Lombardo-Veneto.

• Dovranno passare ancora più di dieci anni perché Milano riesca ad affrancarsi definitivamente dal dominio austriaco, grazie alla strategia di Cavour e all’alleanza stipulata tra il Regno di Sardegna e il Secondo Impero francese. Finalmente, dopo la vittoria franco-piemontese nella battaglia di Magenta il 4 giugno 1859, «il 5 le truppe austriache lasciano la città per l’ultima volta attraverso la porta Romana. Tre giorni dopo arrivano Vittorio Emanuele II e Napoleone III e il 10 giugno alla Scala, simbolo della milanesità, per i due sovrani “scoppiò quell’eruzione di evviva a cui si affida una gioia che non ha ritegno”. Questa volta il re sabaudo, che non ama i milanesi, è destinato a restare».

• «La vecchia piazza del Duomo è stata fissata per la prima volta da una macchina fotografica nella luce autunnale del 1859. La cattedrale non si vede perché il fotografo le dà le spalle, mentre campeggia l’acciottolato con le passatoie in granito per le carrozze, scandito da eleganti lampioni; a sinistra le case del Rebecchino addossate l’una all’altra, con le insegne “Restaurant meublé”, “Trattoria nazionale”; a destra lungo il Coperto dei Figini sostano le carrozze, i brougham, veicoli chiusi trainati da un cavallo che i milanesi chiamano brum (più tardi Carlo Emilio Gadda ricorderà i “vecchi brumisti, di quelli facili ad appisolarsi in serpa dietro un baverone d’un tabarro”, quando alla fine del secolo ne restano ancora in circolazione 340)».

• «Fin dal febbraio del 1859 il volonteroso arciduca Massimiliano aveva progettato una strada tra la cattedrale e la Scala; l’area davanti al teatro era stata sgomberata dalle vecchie case, liberando la vista del poderoso e malandato palazzo Marino (che, una volta restaurato, ospiterà il Municipio). Partiti gli austriaci, già il 28 giugno 1859 una delegazione milanese va a Torino per offrire al re una via o un bazar, che saranno intonati alla pomposità magniloquente della monarchia». Nasce così la prima idea di quella che, molti anni e molti contrattempi dopo, diventerà la Galleria Vittorio Emanuele II. Approvato il progetto del bolognese Giuseppe Mengoni nel settembre 1863, la galleria è inaugurata per la prima volta dal re il 5 settembre 1867, quando è ancora tutt’altro che completa. «Dieci giorni dopo la Galleria è aperta a un pubblico meravigliato e, tutto sommato, contento; all’imbrunire viene mostrato ai bambini lo stupefacente congegno, subito battezzato rattin, perché accende i lumi a gas della cupola correndo su un binario come uno svelto topolino».

• «La Galleria è una vetrina irresistibile: Gaspare Campari, che dal 1862 fabbrica il “bitter all’uso d’Olanda”, un liquore amaro e tonificante, in un locale al Coperto dei Figini, trasferisce ben presto sotto gli archi di Mengoni bottega e casa, dove il figlio Davide è il primo neonato nel monumentale complesso. Questo doveva essere pronto in due anni, ma ne sono passati dodici quando il 30 dicembre 1877 Mengoni precipita da un arco e muore. Il giorno dopo scadono i termini di consegna dell’edificio che, non finito, viene ancora una volta inaugurato il 24 febbraio 1878».

• Con il decreto sulla libertà di stampa del 31 luglio 1859, «la fine della censura restituisce a Milano il primato del dibattito politico e culturale, con una trentina di testate giornalistiche e due nuovissimi chioschi per la vendita di carta stampata, uno vicino alla Scala e l’altro al Duomo. Nel 1865, quando la tecnica tipografica è ancora lenta (un compositore sistema circa 10 mila caratteri al giorno), le testate salgono a 80 (da poche migliaia di copie ciascuna, con una tiratura totale di circa 25 mila pezzi). (…) A dieci anni dall’unità la città stampa 137 giornali (contro i 109 di Roma, appena diventata capitale), e nel successivo decennio vanta un settore poligrafico con 177 stabilimenti e 3700 addetti, mentre a fine secolo operano grandi imprese, come la Sonzogno e la Fratelli Treves, ciascuna con 500 dipendenti».

• «Liberi dalla censura come i londinesi e i parigini, ora i milanesi possono sorridere grazie a un settimanale umoristico illustrato: al “Guerin meschino”, nato nel 1887, collaborano artisti come Luca Beltrami e Luigi Conconi con caricature dei personaggi e resoconti delle vicende locali. Come a Parigi e Londra, ora si leggono romanzi a puntate: nel 1857 la “Gazzetta di Milano” presenta il primo capitolo dei Cento anni di Giuseppe Rovani. (…) I Treves varano nel 1873 “L’illustrazione universale” che dal 1875 si chiamerà “L’illustrazione italiana”, rivista destinata ad appassionare i lettori per circa un secolo».

• «I caffè sono pieni: gelati e caffè costano quattro o cinque soldi, una corsa d’omnibus costa due soldi. Si entra nei due teatri d’opera per una o due lire; i popolani e le donne sono numerosi in platea. Molte donne sono belle, e quasi tutte ridenti e di buon umore; esse camminano bene, con un’aria attraente e frizzante» (Hyppolite Taine, storico francese, in visita nella Milano post-unitaria)

• «L’intera popolazione si mescola e rinnova: nel 1861 metà dei residenti non sono nati in città. Dal 1871 successive ondate di persone e famiglie vengono chiamate soprattutto dalla fabbrica, che affatica e logora ma sfama. Tra i quasi 200 mila abitanti di Milano dopo l’unità, sono tanti i poveri, moltissimi i lavoratori a giornata, i bambini abbandonati, le donne sole e i mendicanti. (…) Ai nuovi arrivati, purché abitino in città e abbiano un lavoro, è concessa una cittadinanza di fatto e un nomignolo, milanes ariós, che li amalgama ai cittadini per diritto di nascita, e promette ai loro figli un futuro di milanes senza aggettivi».

• «Per i nuovi governanti l’ordine pubblico è una priorità: nel 1866 chiudono la direzione di polizia di Santa Margherita e il carcere annesso, dove per decenni avevano sofferto i patrioti, (…) e una prigione più grande, eretta a San Vittore, è pronta nel 1879. L’ordine è assicurato anche da certi severi signori in cappotto blu e cilindro che si aggirano nelle strade dal 4 ottobre 1860: i “sorveglianti urbani” sono una cinquantina e presto adotteranno come copricapo un casco nero di ispirazione britannica».

• «Quando sono passati novantotto anni dalla pubblicazione dei Delitti e delle pene di Cesare Beccaria, l’ultimo assassino a finire sulla forca si chiama Antonio Boggia. Portinaio in uno stabile di via Nerino, abita però in via Bagnera, dove attira le vittime per depredarle. Ne ammazza tre e sta per aggiungerne una quarta quando è arrestato dalla polizia austriaca. Boggia, dicono i vicini e i conoscenti, è proprio una brava persona, tranquilla e devota. Accaniti verso i liberali ma miti con chi si inginocchia ogni giorno in chiesa, i poliziotti imperial-regi lo rilasciano. Il malfattore può dunque liquidare una ricca vedova, che seppellisce in casa propria, accanto alle altre salme. Di nuovo arrestato, processato e riconosciuto colpevole, è impiccato fuori dalla porta Ludovica l’8 aprile 1862. La pena di morte è abolita nel 1889 dal codice penale di Giuseppe Zanardelli».

• Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia si afferma a Milano il bizzarro movimento culturale degli scapigliati. «Artisti della penna e del pennello, questi muovono contro corrente, posano a eversori e non si negano esperienze proibite. (…) Arruffati, disordinati, atei, beoni, questi artisti reagiscono alla consunta moda del romanticismo patetico, alle buone regole della società elegante e al rigido moralismo clericale. Sono rivoluzionari a parole, solidali con i poveri e beffardi con i ricchi. Vorrebbero imitare il poeta francese Charles Baudelaire e i suoi seguaci “maledetti”, ma si limitano a scandalizzare i benpensanti con qualche abitudine singolare, come i riti funerari, le collezioni di scheletri, i pranzi all’osteria del Polpetta».

• Ispiratore ed “eroe” degli scapigliati è Giuseppe Rovani, «autore dei Cento anni, popolare per le sue bizzarre imprese e i motti di spirito. Nato nel 1818, Giuseppe ha una memoria prodigiosa ed è tanto attaccato ai libri da suscitare le preoccupazioni del padre, un orefice, che lo ammonisce: “Te studiaa tropp: te capisset pu nient”. (…) Sempre a corto di soldi, dice che “quando avrebbe voluto per la bolletta uccidersi, non si trovava mai denari necessari per comperarsi un revolver, e quando se li trovava, allora naturalmente non si sentiva più voglia d’uccidersi”. Grande bevitore, afferma: “Cosa voeut! quand mi bevi, me par che i debit me diventen credit”».

• «Quando Milano celebra con orgoglio l’Esposizione industriale del 1881, gli scapigliati si oppongono a modo loro al trionfo della razionalità tecnica, inaugurando l’Indisposizione di belle arti. Chi entra nel salone di via San Primo, già studio dello scultore Pompeo Marchesi, viene accolto da cartelli che avvertono “Le idee sovversive verranno respinte a forza di braccia” e “I visitatori dovranno depositare in luogo a ciò destinato la propria ombra onde evitare sovraffollamenti”. Tra le opere esposte figurano Il tramvai al tempo dei greci o un tela bianca incorniciata dal titolo Quadro non incominciato per la morte dell’autore. Più che artisti maledetti, gli scapigliati milanesi sono dei buontemponi».

• «Al borgo Gozzuto, fuori dalla porta Comasina (ribattezzata porta Garibaldi), il giovedì si danno appuntamento i ciechi per uno dei tanti commerci di una città dove niente rimane intentato e nessuno sta con le mani in mano. Arrivano i noleggiatori, ognuno sceglie i suoi invalidi, e li sguinzaglia a chiedere la carità: avranno il 10 per cento dell’incasso oltre a cibo e vino per la giornata».

• «Non c’è quartiere, non c’è strada senza compravendita. A porta Ticinese si trovano i capelli delle contadine, acquistati da signore eleganti per toupet, chignon e posticci alla moda. Mentre le bambine arrancano nelle strade per ritirare e consegnare la biancheria, quasi sommerse da quei pesanti fagotti, sul Naviglio grande le lavandaie offrono la forza delle loro braccia: ma la loro fatica perde importanza quando, verso la fine del secolo, entra in funzione l’acquedotto che serve l’acqua a domicilio, consumata in quantità crescenti (nel 1889 un litro a persona, dieci anni dopo 23). Vengono ancora dalla Brianza i ruee (ruera, dal latino ruderatum, è la spazzatura) con la gerla sulle spalle e il carretto tirato dall’asino. Nel cuore della città vecchia la piazza Mentana attira i falegnami delle colline brianzole che offrono mobilio, oppure telai per divani, poltrone e letti che i tappezzieri imbottiscono e rivestono di stoffa. Una volta erano i commercianti a girare nelle campagne, ora sono i fabbricanti stessi ad accostare la clientela».

• «Alberto Keller, commerciante in seta e proprietario di quattro filande, muore il 23 gennaio 1874 lasciando una somma per l’erezione di un crematorio dove vorrebbe che fossero inceneriti i suoi resti. La burocrazia lo impedisce, quindi nell’attesa la salma è imbalsamata. Grazie al gran maestro della Massoneria Malachia De Cristoforis, l’impianto è costruito nel 1875, primo in Europa e vivamente condannato dalla Chiesa».

• «È però il treno a cambiare radicalmente le dinamiche della città. Nel primo decennio italiano, Milano recupera il ritardo accumulato nelle costruzioni ferroviarie e si colloca al centro di una rete di transiti così veloci come non si era mai visto in passato. Il 12 settembre 1857 è posata la prima pietra della stazione centrale su un progetto di gusto rinascimentale del francese Louis Bouchot, collocato in una splendida prospettiva».

• «Nel fervore di architetti e muratori cambia anche il lessico urbano: tra il 1857 e il 1865 scompare l’antica definizione di “contrade” e la numerazione delle case non è più su scala cittadina ma per singola “via”. (…) Sorgono palazzi di dimensioni mai viste in città, e poco adatti alla trama sghemba e minuscola dell’abitato, non destinati ad arciduchi e regnanti ma alle fabbriche di ricchezza come le banche e le compagnie di assicurazione».

• «La finanza moderna avanza a piccoli passi: nel 1865 nasce “Il sole”, quotidiano di un mondo degli affari che, alleato alla Camera di commercio, si batte per il mercato unico, per un sistema bancario efficiente, per una certa protezione all’industria locale (soprattutto cotoniera). Aperta a idee che vengono da lontano e portano lontano, Milano accoglie quella del giovane economista veneziano Luigi Luzzatti per la creazione di una Banca popolare, che dal 1865 raccoglie il piccolo risparmio in forma cooperativa».

• «La fretta presiede alla vita dei milanesi e se ne lamenta lo scrittore Emilio De Marchi, un pioniere del genere letterario poliziesco che ha pubblicato nel 1887 Il cappello del prete: “Questo Milanone sarà bello, non dico: vi sono piazze, teatri, case, strade, palazzi, botteghe. (…) C’è gente che va, che corre, che tace, che soffre, su e giù dal tram, di giorno, di notte, di modo che non si trova nessuno che faccia il quarto a carte”».

• «Il 19 marzo 1871 si inaugura il monumento a Cesare Beccaria nella piazza a lui intitolata (non per un caso: lì stava la casa del boia, ormai demolita); il 4 settembre 1872 tocca al monumento a Leonardo, che guarda la Scala in posa pensosa, circondato dai quattro allievi Antonio Boltraffio, Marco d’Oggiono, Cesare da Sesto e Andrea Salaino. La lingua tagliente di quel gran bevitore che è Rovani lo denomina on liter in quater, perché il sommo artista rappresenterebbe quel poco di bottiglia che gli allievi mestamente dividono. Il 22 settembre apre il teatro Dal Verme, opera di Giuseppe Pestagalli, e tre mesi dopo alza il sipario del teatro della Commedia. (…) L’edificio, arrivato in eredità a Giulia Beccaria, era passato ai Blondel, e lì si erano celebrate le nozze calviniste di Enrichetta e Alessandro Manzoni. Quando il vegliardo scrittore muore, il 22 maggio 1873, il teatro gli viene intitolato».

• «Nel 1870 si laurea al Politecnico una covata di ragazzi notevoli per intelligenza, talento, carattere e fortuna: si chiamano Bartolomeo Cabella, Egidio e Pio Gavazzi, Angelo Salmoiraghi, Ettore Paladini, Giovanni Battista Pirelli. (…) Tutti quanti hanno imparato a credere nelle scienze positive e nelle loro applicazioni da insegnanti d’eccezione: Francesco Brioschi, il matematico che ha fondato il Regio istituto tecnico superiore, ben presto chiamato Politecnico (o per burla “asilo Brioschi”), e il suo allievo Giuseppe Colombo, scienziato, divulgatore e pioniere dell’industria».

• Fondata da Brioschi, «la scuola di ingegneria del Regio istituto apre i battenti il 29 novembre 1863 nell’ex palazzo del Senato, e si propone di formare tecnici di alto livello capaci di dare impulso alla nascente industria. (…) Il Politecnico, dal 1875 assurto al rango di università, adotta uno spiccato taglio pratico e applicativo, e diventa la più apprezzata scuola italiana per ingegneri civili e industriali, e per architetti, che dal 1879 studiano anche inglese e tedesco, lingue indispensabili per conoscere le esperienze industriali avanzate (ma non il francese, che ogni milanese di buona famiglia impara nell’infanzia, parla in famiglia e scrive correttamente)».

• «Portatori di sentimenti patriottici e di una cultura scientifica e tecnica, Brioschi e Colombo condividono con gli allievi la consapevolezza di una missione civica da compiere con alto senso del dovere. È il seme gettato fin dal secolo precedente con le riforme di Maria Teresa, è il cammino intrapreso dagli intellettuali pagnottanti di Napoleone e seguito da Romagnosi nella restaurazione. Colombo interpreta in chiave squisitamente tecnica, quindi più ristretta, il sogno di Cattaneo: che Milano sia alla testa del cammino di civilizzazione. Per compiere questa missione occorre innestare la moderna etica borghese sugli antichi precetti di Carlo Borromeo: sempre operosi per resistere alle tentazioni, sempre intenti a fare bene, a costo di qualsiasi sacrificio personale».

• Nato nel 1848, figlio di un fornaio, Giovanni Battista Pirelli nel 1866 si arruolò volontario con Garibaldi combattendo quindi nelle battaglie di Montesuello e di Mentana, ma «senza rallentare gli studi che ha intrapreso al Politecnico, dove il 10 settembre 1870 si laurea con il voto più alto del corso. Ottiene così una delle due borse di studio appena istituite da Teresa Berra Kramer (l’altra va a Ettore Paladini): tremila lire per un viaggio all’estero che consenta di approfondire gli studi “intesi a introdurre in Italia un’industria nuova”».

• «Forse Pirelli ha già in mente la gomma e ne ha discusso con Colombo, ma l’idea prende consistenza dalla vicenda di una nave. L’Affondatore non merita il suo nome: danneggiata durante la battaglia di Lissa e trasportata nel porto di Ancona, si inabissa a causa di una tempesta. Per riportarla a galla occorre pompare fuori l’acqua, ma mancano i tubi. Se si deve “introdurre in Italia un’industria nuova” non potrebbe essere proprio quella della gomma? Nel novembre 1870 Pirelli e Paladini partono, ognuno per la sua destinazione, vigilati a distanza dal solerte Colombo in una fitta corrispondenza. (…) Nel giugno 1872 Pirelli fonda la sua ditta con un capitale iniziale di 215 mila lire, cinque versati da lui e il resto da una ventina di soci (Colombo, Teresa Berra, Raimondo Visconti di Modrone, Francesco Brioschi, il cotoniere Eugenio Cantoni, Davide Sforni, Abramo Vita Sforni e altri)».

• «Pirelli lavora senza sosta per impiantare la fabbrica al Ponte Seveso, vicino alla ferrovia, che entra in funzione l’anno successivo, producendo articoli per l’industria come cinghie, tubi, valvole per la meccanica e tele impermeabili per i trasporti. Il decollo è difficile, (…) ma le avversità temprano la determinazione di Pirelli che, seguendo una raccomandazione dei soci, abbandona ogni altro impegno e va a vivere in fabbrica per tenere d’occhio senza sosta la produzione».

• «Nel 1877 arriva a Milano François Casassa, un savoiardo che Pirelli ha conosciuto a Parigi, il quale inaugura la produzione di palloni, elastici e altri oggetti per il piccolo consumo; questi faranno bella mostra all’Esposizione del 1881 tra la meraviglia del pubblico, al quale è offerta la dimostrazione di come nasce un moderno articolo in “cautciuc”. Con il nuovo decennio arriva una commessa del Genio militare di filo per telegrafo isolato in gomma, che la Pirelli è la prima a produrre in Italia, e nel 1885 un’altra dello Stato di cavi telegrafici sottomarini. Sul finire del secolo, a decollo compiuto, l’azienda fa passi da gigante: nel 1890 la fabbrica è elettrificata, nel 1901 lancia i pneumatici per auto, nel 1902 un terzo della produzione è esportato e viene aperto uno stabilimento a Barcellona, nel 1907 nasce il complesso della Bicocca (la località ha preso anticamente nome da una torre e osservatorio, detta dai longobardi bikok) per produrre filo elastico e cavi, e nel 1914 nasce l’officina di Southampton in Gran Bretagna».

• «I primi trent’anni di attività della Pirelli coincidono con la trasformazione di Milano in città industriale, irta di ciminiere, strabordante di macchinari, percorsa da fumi e odori e fitta di operai. Sono gente rozza, scontenta, malvestita e maleodorante. Pirelli li vorrebbe invece come i lavoratori della Krupp. Perciò applica regole ferree di arruolamento e congedo – se un operaio invecchia può scegliere tra il licenziamento o una riduzione di salario – e una disciplina militare che è assicurata da capi arruolati di preferenza tra i veterani delle forze dell’ordine. A fine Ottocento, mentre gli affari di Pirelli e di altri imprenditori vanno a gonfie vele, la trasformazione di Milano lascia stupito chi ci abita ed è incompresa a Roma, dove dello strepito delle macchine e dei cortei operai soltanto qualcuno ha sentito favoleggiare».

• «Carlo Erba aveva raggiunto il successo con un prodotto apprezzato dalla buona società, il sale inglese, un apprezzato purgante. Figlio di uno speziale con la bottega a Sant’Eustorgio, Carlo aveva studiato a Pavia, compiendo un apprendistato a Vigevano e tornando a Milano con risparmi sufficienti ad avviare un laboratorio in via Brera che, proprio grazie al sale inglese, aveva fatto di lui a metà del secolo un eminente cittadino che sedeva nella Società di incoraggiamento e nel consiglio comunale».

• Nel 1865 i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi, venditori ambulanti di stoffe, «aprono bottega nella via Santa Radegonda, a fianco del Duomo, in una delle zone di maggiore passaggio della città, dove un centinaio di lavoranti confezionano abiti da uomo. Nel 1870 propongono abiti, biancheria, cappelli e mobili nel Magazzino livornese agli archi di porta Nuova, e nel 1877 abbracciano l’esempio di Parigi – dove Aristide Boucicaut nel 1852 aveva inventato il grande magazzino Bon marché con merci di ogni tipo a prezzi convenienti per una clientela di ceto medio – e inaugurano Aux villes d’Italie, di nuovo vicino al Duomo (che l’orgoglio nazionale tradurrà poi Alle città d’Italia). Il colosso dei fratelli Bocconi conta filiali a Roma, Genova, Torino, Palermo e Trieste, e i 1300 dipendenti salgono nel 1890 a tremila, mentre il catalogo delle vendite per corrispondenza viene stampato in 40 mila esemplari nel 1880 (e nel 1890 sono 100 mila i pacchi spediti). Da buoni milanesi, i Bocconi scommettono sulla modernità, su una clientela prospera e su un ceto medio sempre più largo».

• «Luogo di passaggio e di incontro, Milano raccoglie ogni suggerimento e verifica ogni ipotesi mentre sperimenta le macchine più ardite. Così nel 1885 Edoardo Bianchi costruisce il primo biciclo, che dall’anno successivo produce su larga scala. Enrico Forlanini, allievo di Colombo, concorda con il maestro sul fatto che si può alzare in volo un veicolo più pesante dell’aria e il 26 luglio 1877 davanti alla Scala fa alzare il primo elicottero a vapore. Ma è un milanes ariós, Gianni Caproni, a proseguire gli esperimenti aerei. Nato a Massone nel Trentino nel 1886, istruito alla Realschule di Rovereto, laureato al Politecnico di Monaco di Baviera, Caproni impianta dapprima un’officina meccanica ad Arco, dove tenta di costruire un prototipo di aereo, ma quando nel 1910 il Comando di corpo d’armata di Milano gli concede l’uso della cascina di Malpensa nel comune di Somma Lombardo finalmente può progettare un velivolo che nelle sue intenzioni e nel nuovo clima nazionalista “farà grande la patria”».

• «La legge che limita il lavoro dei fanciulli, varata dagli austriaci nel 1843, scompare quando l’ordinamento sabaudo si allarga a Milano. Fino al 1886, anno in cui entra in vigore una nuova legge di tutela, non esistono limiti allo sfruttamento della manodopera che a Milano è abbondante perché gli opifici attirano in città persone di ogni tipo. Nel periodo in cui Pirelli fonda l’industria della gomma, al posto dei campi e delle ortaglie, fuori dalla cerchia dei bastioni stanno sorgendo quartieri putridi sovraffollati di povera gente che cinge d’assedio i borghesi benpensanti e ben vestiti».

• Per quanto riguarda l’industria, inizialmente, «divisi tra l’attrazione e il timore, i milanesi lasciano volentieri ai forestee l’onore e l’onere di rischiare per primi. Alla fine del secolo il ministro Francesco Saverio Nitti nota che “il libro d’oro dell’industria e del commercio lombardi abbonda di suoni gutturali e di desinenze aspre”, insomma di cognomi stranieri. Non sono presenze effimere ma solide e durature realtà: fuori da porta Nuova opera l’azienda di macchine tessili dello svizzero Emanuele Kevenhüller che nel 1845 vende ad Adolfo Bouffier ed Enrico Mylius. L’azienda, ribattezzata Elvetica, si specializza in componenti ferroviarie, un’attività che prosegue anche quando nel 1850 la quota di Bouffier viene acquistata da Giovanni Schlegel. Nel 1886 l’Elvetica Schlegel passa a Ernesto Breda, pioniere della specializzazione e critico verso coloro che pretendono “di poter costruire ad un tempo il telaio meccanico, la motrice a vapore, la locomotiva e benanche il ponte e la tettoia con gli stessi operai e con le stesse macchine”».

• «A vent’anni dall’unità nazionale, il 5 maggio 1881, l’Esposizione nazionale delle arti e delle industrie celebra il primato economico milanese. Interamente finanziata dal denaro locale e avversata dal governo – che voleva tenerla a Roma – la mostra dei Giardini pubblici attira un milione e mezzo di visitatori. Quattro espositori su dieci sono lombardi, soprattutto manifatture cotoniere e meccaniche. Sono in bella vista macchine per fare altre macchine che tagliano, cuciono, tessono, perforano, limano e lucidano. Sulla scena di fondo intanto si articolano servizi moderni, si moltiplicano gli imballatori e gli spedizionieri, trionfano i telegrafisti accanto – come sempre – ai ragionatt».

• «Nel 1880 Milano è in testa per movimento merci su ferrovia e per numero di telegrammi; la stazione centrale vede transitare tre milioni di viaggiatori e l’anno dopo è completata la rete percorsa da cento tram a vapore di color giallo e rosso da venti posti, invenzione di Emilio Osculati (la corsa degli omnibus, nove in tutto rossi e neri, con otto posti a sedere, riconoscibili per il cocchiere sul tetto, era cominciata vent’anni prima). La prima linea telefonica che collega il municipio a una caserma dei pompieri funziona dal 1877».

• «Nel 1882 Milano conta 682 fabbriche, metà delle quali dentro i Navigli, quasi metà all’interno dei bastioni e poche oltre le vecchie mura. Vi lavorano 110 mila persone, sparse in unità così piccole che i padroni sono ben 15 mila e 95 mila i dipendenti. Giuseppe Colombo, felice di constatare che non esistono grandi concentrazioni operaie, la chiama “industria di dettaglio”, e Luigi Luzzatti è altrettanto contento perché “nelle officine modeste è maggiore l’accordo fra il padrone e l’operaio”».

• «Se l’Esposizione del 1881 proclama il primato industriale, la strada ferrata del Gottardo restituisce a Milano l’antica missione di crocevia. Mentre viene completata la rete nazionale (nel 1877 è lunga 10 mila chilometri) italiani e svizzeri raggiungono un accordo per la costruzione della linea tra Bellinzona e Lucerna attraverso il traforo del Gottardo (scavato da Airolo dagli italiani e da Göschenen dagli svizzeri). Con la galleria inaugurata il 23 maggio 1882, i traffici con l’Europa settentrionale compiono un tale balzo che nel 1904 il binario dev’essere raddoppiato».

• «Il legame con l’Europa si stringe ancora di più quando, nel 1898, inizia la costruzione delle due gallerie parallele del Sempione a un binario ciascuna, dove passano i treni dal 1° giugno 1906, per festeggiare l’Esposizione internazionale di Milano, che ora dista da Parigi soltanto 854 chilometri (meno dei 945 attraverso il Moncenisio e dei 904 per il Gottardo). Ora che sono perforate le Alpi e i vagoni corrono nel buio delle gallerie, ogni diffidenza verso i meriti dell’industria è ormai spenta».

• «Nel 1871 un terzo della popolazione lavora nell’industria, più che in qualsiasi altra città italiana. Nel 1891 superano il migliaio di addetti la Pirelli, la Manifattura tabacchi, la Richard, la Breda, li sfiorano la Miani Silvestri e la Grondona, mentre il cotoniere De Angeli ne ha 700 e Binda circa 500. La Prinetti Stucchi (che insieme alle macchine da cucire produce tappi di sughero) ne ha 400, poco più della ancor giovane Edison che nel 1891 ne conta 300».

• «Migliaia di persone fabbricano ciò che è necessario a fare l’Italia moderna: la Società lombarda di prodotti chimici è l’unico produttore nazionale di chinino contro la malaria, i tessuti di cotone stampato di De Angeli vantano la migliore qualità (e lo stabilimento rispetta norme igieniche d’avanguardia), gli ascensori Stigler conducono ai piani alti delle case e i bambini giocano con palle di gomma della Pirelli. Non è più indispensabile acquistare all’estero e spesso i prodotti nazionali sono meno cari e di migliore qualità».

• Nel 1882 «il ridotto della Scala si accende della luce di 92 lampadine elettriche. Pochi giorni dopo l’esperimento si replica al caffè Biffi in Galleria e l’anno successivo la cronaca riferisce che “ieri sera fu inaugurata l’illuminazione elettrica col sistema Edison nel salone verso giardino del caffè Cova con perfetto successo. La corrente è distribuita dalla stazione centrale di Santa Radegonda”».

• «Il prodigio dell’illuminazione, che colloca Milano all’avanguardia in Europa, è opera dell’infaticabile Colombo, che nel 1881 ha visto a Parigi il Palais de l’industrie illuminato da cinquecento lampadine elettriche, un’invenzione dell’americano Thomas Alva Edison. La sua audacia si innesta sull’antica aspirazione di affrancare l’economia italiana dalla penuria di materie prime; prima di tornare a casa, acquista un paio di dinamo che gli espositori vendono a buon prezzo. A Milano costituisce il Comitato promotore per l’applicazione dell’elettricità sistema Edison, tra febbraio e marzo 1882 compie le prime dimostrazioni pubbliche e in luglio acquista il brevetto in esclusiva per l’Italia. Il 13 novembre 1883 entra in funzione la centrale elettrica di via Santa Radegonda, a fianco del Duomo. È la prima in Europa, se si eccettua quella londinese di Holborn che illumina per il momento soltanto le strade. Sempre abile nel raccogliere capitali per suscitare iniziative, Colombo crea nel 1884 la Società generale di elettricità sistema Edison, alla quale contribuiscono parecchi eminenti cittadini tra i quali Cantoni, Bocconi, Pirelli, Erba. Il 28 giugno si avvia il servizio di illuminazione agli edifici vicini. Ora, grazie all’energia idroelettrica delle Alpi non ci sarà bisogno di importare carbone».

• «Se il matrimonio settecentesco stipulava alleanze puramente patrimoniali, quello ottocentesco stringe alleanze patrimoniali, di investimento e di lavoro. La rete di parentele rinsalda l’oligarchia, ma non è più sufficiente la terra. (…) All’età giusta, cioè quella adatta a essere prolifici, è importante scegliere il compagno o la compagna per il futuro, quindi la terra sposerà i contanti per equilibrare il rischio, l’azienda si unirà alla banca, il borghese senza passato al nobile di tradizione. Se un industriale non ha eredi maschi consegna volentieri le figlie a giovanotti dotati di intelligenza e volontà, capaci di tramandare l’azienda ai nipoti».

• Alla fine dell’Ottocento, sospinto dalla fame dilagante, «il “fango che sale” – espressione coniata da Giosuè Carducci, presa a prestito da Gaetano Negri e resa popolare da Giuseppe Colombo – pesa come un incubo sui salotti borghesi. Il popolo alza la testa, sobillato dai “rossi” socialisti e dai “neri” clericali, gli uni e gli altri additati da Sydney Sonnino come “nemici mortali” dello Stato. (…) Nel 1896 il consumo di grano è sceso da 145 a 119 chili a persona; l’anno dopo il raccolto è insufficiente e si contano 189 scioperi. Alla fine dell’inverno 1898 il pane rincara in misura intollerabile, anche perché è gravato da un dazio di circa il 40 per cento. Troppo tardi il governo decide di ridurlo. All’incetta e alla speculazione segue un’ondata di proteste».

• Tra il 7 e l’8 maggio 1898, reagendo in modo spropositato all’inquietudine popolare, il generale e comandante del Terzo corpo d’armata Fiorenzo Bava Beccaris, nominato commissario straordinario del re con pieni poteri, dichiarò lo stato d’assedio a Milano e si accanì sui civili, infierendo persino su un convento di frati cappuccini. «Quando gli uomini di Bava cessano il fuoco, il bilancio ufficiale è di 80 morti e 450 feriti, ma chi ha assistito all’intensità degli scontri non può credere a una cifra così piccola. L’indomani Di Rudinì telegrafa al generale: “Dalla quiete di Milano da lei così virilmente ristabilita dipende forse la quiete di tutto il Regno”. (…) Una volta che ha ammazzato tanti innocenti, Bava merita la croce di Grande ufficiale dell’Ordine militare dei Savoia, conferita dal re Umberto il 6 giugno “per il grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”».

• «A ricordo di quei giorni, i milanesi cantano: “Alle grida strazianti e dolenti / della folla che pan domandava / il feroce monarchico Bava / gli affamati col piombo sfamò”».

• «Tra Roma e Milano la distanza è grandissima: nella capitale le massime preoccupazioni sono la miseria e il brigantaggio, la politica di potenza e le aggressioni coloniali. All’avanguardia nella rivoluzione industriale, Milano è drammaticamente isolata nella nazione che ha contribuito a creare. I politici milanesi – non pochi in Parlamento e nei ministeri – difendono gli interessi del loro ceto e del loro ambiente piuttosto che il bene collettivo. Comincia così a montare il malcontento locale. (…) Il 22 giugno 1895 Felice Cavallotti aveva scritto sul “Secolo” la Lettera agli onesti di tutti i partiti, sollevando una questione morale, e ora i milanesi di ogni tendenza cominciano a parlare della loro città come “capitale morale”, punto di riferimento di chi predilige il progresso e la ragione».

• «A seguito dei fatti di maggio 1898, la maggioranza dei milanesi si sente ancora più lontana dalla capitale politica. Il governo Pelloux vuole portare il colpo di mano alle estreme conseguenze e presenta un insieme di leggi speciali: militarizzazione dei ferrovieri e postelegrafonici, divieto di sciopero nell’impiego pubblico, domicilio coatto per i recidivi, divieto di adunanze pubbliche pericolose, bando alle associazioni sovversive. Se si eccettuano i capestri, il sistema austriaco non era molto diverso. Il clima di odio e frustrazione è palpabile e contagioso, al punto che il 29 luglio 1900 sul viale che porta alla villa Reale di Monza l’anarchico Gaetano Bresci spara uccidendo il re Umberto, vittima della sua ottusità».

• «A Milano non v’è che un uomo, che viceversa è una donna, Anna Kuliscioff» (Arturo Labriola, suo compagno di partito nel Psi di fine Ottocento).

• «All’impegno sociale non si sottraggono i conservatori: Ettore Ponti, sindaco dal 1905 al 1909, istituisce la tassa di famiglia per controbilanciare il dazio sui consumi, sommamente impopolare. I milanesi sventolano lo spirito civico come un’orgogliosa bandiera: “Ogni trimestre” lo scrittore Carlo Linati vede “una folla interminabile disposta in lunghissime code di gente d’ambosessi” che, con le loro cartelle in mano, attendono il loro turno per scaricare il loro tributo all’Esattoria giacché “pagare le tasse per il milanese è la sanzione morale del buon lavoro compiuto”».

• «Nel 1879 l’Italia mostra due vergognosi primati: i salari più bassi d’Europa e i prezzi alimentari più alti. Milano è così piena di denaro che detiene un quarto del risparmio nazionale, eppure è zeppa di poveri, con quasi 10 mila persone senza tetto, poiché la popolazione è cresciuta con una rapidità mai vista nella storia (da 242 mila abitanti del 1861 a quasi mezzo milione nel 1901), creando una seria carenza di abitazioni».

• «È impossibile ignorare l’esercito operaio, anche se ognuno lo vede a modo suo: per i padroni è gente da tener buona con i carabinieri, per i cattolici vittime della modernità, per i socialisti masse da organizzare. È difficile non vedere la miseria. Scrive Ludovico Corio in Abissi plebei: “Ma come potrebbe avvenire altrimenti in una città nella quale vi sono 286 mentecatti, 314 imbecilli, 453 ciechi, migliaia e migliaia d’affaristi, che non leggono altro che il loro libro mastro e 45.613 individui che non sanno leggere né scrivere?”».

• «Esplode la piaga dell’alcoolismo, che nel 1881 è provata dalla presenza di 261 osterie, 570 bettole, 475 negozi di liquori, 39 birrerie. (…) Il locale pubblico è però anche ricovero dal freddo e rottura dell’ozio: sotto i portici meridionali di piazza del Duomo, al Carini sostano disoccupati, ruffiani, camerieri, brumisti, venditori di cartoline pornografiche e mendicanti “tra un appestante odore di affettati, di liquori, di segatura”. Il locale è aperto fino all’alba quando spuntano operai, muratori, e devoti della prima Messa».

• «“Una strabocchevole offerta di braccia”, segnala il “Fascio operaio” nel 1884, è sospinta in città, e sono soprattutto braccia femminili: 190 mila contro 103 mila maschi (tra loro 57 mila operaie, 3 mila impiegate, oltre 20 mila domestiche). Sopra i sei anni una femmina su tre lavora fuori casa, in certe fabbriche sono la maggioranza (alla Pirelli nel 1894 un migliaio contro 700, alla Carlo Erba 300 contro 100). Alla manifattura di via Moscova quasi 1200 sigaraie (e 100 maschi) avvolgono il tabacco nella foglia a mani bagnate, divise nei quattro ampi saloni della fabbrica costruita su forti pilastri di ghisa».

• «A parole tutti, salvo gli imprenditori, sono contrari al lavoro femminile: la Chiesa perché intacca la moralità, la borghesia perché spacca la famiglia, i medici perché nuoce alla salute, i maschi perché temono la concorrenza. Peggio pagate, in difficoltà con i figli, costrette in ambienti insalubri, le operaie sono maltrattate, insidiate dai capi, vecchie a quarant’anni (un’età in cui il sogno è ottenere una portineria o una bottega)».

• «Grazie alle milanesi, filantropia e politica si uniscono per ottenere risultati concreti: Anna Kuliscioff sprona i compagni e non dà tregua al suo Filippin [Filippo Turati, compagno della Kuliscioff nel Psi e nella vita – ndr] per il varo nel 1902 della legge Carcano che vieta tra l’altro il lavoro ai minori di 12 anni (gli operai da 6 a 15 anni costituiscono un quarto della manodopera industriale), limita quello delle donne a 12 ore al giorno e garantisce alle madri un congedo di 28 giorni dopo il parto. Anna voleva ben di più (divieto al di sotto dei 15 anni, una cassa maternità per gravidanza e puerperio e altro), ma deve accontentarsi di un primo passo».

• «I soliti burloni lo chiamano “il giornale pantofola” perché quando debutta il 4 marzo 1876 il “Corriere della sera” mostra una spiccata prudenza. In realtà il quotidiano fondato da Eugenio Torelli Viollier e da Pio Morbio, un ricco novarese collezionista d’arte medievale e rinascimentale, compie un atto di coraggio sfidando il primato del “Secolo” e proponendosi di scalzare la “Perseveranza” prediletta dai conservatori». Partendo da una tiratura iniziale di appena 3000 copie, il quotidiano riuscirà a raggiungere e superare l’obiettivo sotto la direzione del marchigiano Luigi Albertini (1900-1921), già ideatore, nel 1898, della “Domenica del Corriere”. «Dalle 70 mila copie di Torelli, nel 1900 il quotidiano sale a 75, nel 1906 a 150, per toccare le 600 durante la Grande guerra mentre nascono altre testate: nel 1901 “La lettura”, nel 1903 “Il romanzo mensile”, nel 1908 “Il Corriere dei piccoli”».

• «Al servizio di una famiglia borghese desiderosa di novità e stabilità, di tradizione e aperture, il “Corriere” esprime ora l’anima di una classe dirigente più sicura di sé e meglio insediata in cima alla piramide sociale. Il 16 agosto 1904 si insedia nel palazzo di via Solferino 28, disegnato da Luca Beltrami, saldando l’architettura ispirata al glorioso passato nazionale con la praticità dei collegamenti (le bobine di carta arrivano su chiatte nel sottostante Naviglio di San Marco). (…) Orgogliosamente borghese, Albertini dà peso allo spirito di quella borghesia intraprendente orientata al mercato (come i cotonieri proprietari del giornale) piuttosto che alle commesse pubbliche».

• «Milano vanta già il primato del pubblico e dei mezzi tecnici: dal 1852 la città dispone di un telegrafo elettromagnetico che la collega al resto dell’impero; per necessità commerciali oltre che di informazione, si sviluppano rapidamente la posta, il telegrafo, il telefono (che nel 1900 lega il capoluogo con Monza, Legnano, Novara, Como e Lecco; dal 1903 con Torino, Roma e Parigi)».

• «Nel 1906, quando Vittorio Emanuele ed Elena di Savoia inaugurano l’Esposizione internazionale alla piazza d’Armi (un successo di 7,7 milioni di visitatori), i taxi sono 40 e viaggiano su strade asfaltate o lastricate in porfido, sorvegliate da 500 vigili. E non è tutto, perché nel 1915 i tram rossi e gialli come quello dipinto da Carlo Carrà nel Notturno a piazza Beccaria trasportano 163 mila persone a 10 centesimi per corsa. Automobili e tram non fanno più sensazione, è l’aeroplano il mezzo del futuro, da quando il 22 giugno 1908 Leone Delagrange ha compiuto nove giri di aeroplano sulla piazza d’Armi».

• «Nel 1911 metà degli italiani è analfabeta, ma la belle époque milanese, che su scala nazionale si chiama età giolittiana, porta i frutti di un lungo lavoro di modernizzazione, svolto anche nel sottosuolo: dal 1888 erano iniziati i lavori per l’acquedotto e l’anno dopo per le fognature. (…) Dopo quella elettrica, nel 1901 nasce la rete telefonica (distrutta dopo una nevicata, verrà anche lei posata sotto terra). Dal 1905 l’illuminazione pubblica è gestita dall’Azienda elettrica municipale, ma in periferia resistono le lampade a gas. Per la prima volta i lavoratori domestici sono superati dai metalmeccanici, che sono 40 mila, e oltre metà della popolazione attiva è impiegata nell’industria».

• «Il vezzo milanese di abbracciare usi e costumi venuti da lontano si conferma con la passione sportiva: sul Naviglio remano i canottieri, all’ippodromo di San Siro dal 1888 corrono i cavalli, nel 1901 parte e arriva a Milano il primo giro automobilistico d’Italia organizzato dal “Corriere” e dal Touring Club, nel 1903 nasce l’Automobile Club che con i suoi 194 soci è il primo del paese (perfino il cardinal Ferrari sfreccia su quattro ruote fuori dall’Arcivescovado). I bambini sono in estasi allorché il 1° maggio 1906 si esibisce all’Arena Buffalo Bill con i suoi indiani impennacchiati».

• «La belle époque trionfa nelle lettere, nelle arti e nello svago. La città benedice chi sa leggere, scrivere, dipingere o suonare. (…) Giuseppe Verdi è scomparso nel 1901, dopo aver fondato la Casa di riposo per musicisti, costruita su progetto di Camillo Boito, ma la sua musica continua a essere eseguita, come quella degli emuli. Il 17 febbraio 1902 i milanesi fischiano la Butterfly di Giacomo Puccini, ma osannano con quindici chiamate al proscenio Gabriele D’Annunzio quando presenta al Lirico La figlia di Iorio interpretata da Irma Gramatica e Renato Ruggeri».

• «Nel marzo 1905 la Società patriottica dà una gran festa in onore del risotto che – dicono i promotori – celebra la rispettabile età di mille anni».

• «Com’erano coloriti i duelli ottocenteschi! Di sfide al primo o all’ultimo sangue Cavallotti dava spettacolo, e il librettista Luigi Illica esibiva l’orecchio mozzato a causa di una ballerina. Non è un caso ma un segno dei tempi che uno degli ultimi duelli milanesi venga troncato proprio a furor di popolo: la sfida tra Libero Andreotti, uno scultore, e Guido Treves, nipote dell’editore Emilio e direttore dell’“Illustrazione italiana”, si svolge una domenica mattina nei pressi di Turro alla presenza dei rispettivi padrini e del medico. Si batteranno prima alla pistola e poi alla sciabola. Scambiati i prescritti colpi di arma da fuoco senza esito, i due proseguono perciò “sferruzzando” all’arma bianca. Al graffio subito da Andreotti, il medico sentenzia che non fuoriesce abbastanza sangue, bisogna proseguire. Proprio in quel momento sciamano dalla messa mattutina le comari del villaggio che, alla vista di quei perdigiorno, urlano: “Non vi vergognate?”, “Questo è il nostro cortile”, “Andate via!” invadendo il campo inferocite, finché i contendenti sgomberano e, vinti dalla fame, se ne vanno a pranzo. L’arcaico confronto a due è soppiantato dalla collisione di massa».

• «Nel 1904 non si segnalano morti in duello, qualcuno piuttosto soccombe perché le automobili sfrecciano sotto il naso di chi va a passo di lumaca: pedoni, carretti, carrozze e tram (imponenti come quello a due piani che va da porta Venezia fino a Monza)».

• «Epicentro della questione sociale, tra il 1901 e il 1902 Milano conta 1844 scioperi di tranvieri, piscinine, ferrovieri, camerieri e lavoratori di altre categorie. (…) La città bottegaia e industriale si abitua agli scioperi, provando di volta in volta un rancore sordo o un benevolo sorriso. Carlo Linati ricorda il rituale dell’orda schierata di fronte alla truppa armata, “tre squilli e se al terzo i ribelli non si scioglievano la truppa faceva una corsettina, un trotterello unanime e si avventava sui reprobi finché non li avesse dispersi”. Una volta ripresi dal cosiddetto assalto, i sovversivi tornavano all’attacco, quindi “altri tre squilli, poi altra corsettina e altro scioglimento. Qualche capitombolo, qualche deliquio, un arresto e tutto finiva lì”».

• Nato nel 1883 a Dovia, una frazione di Predappio in provincia di Forlì, figlio di un fabbro e di una maestra, Benito Mussolini fu uno scolaro indisciplinato. «Nel 1898 il consiglio dei professori della Regia Scuola normale di Forlimpopoli fa sapere al fabbro che “giovedì mattina, 3 andante, il suo signor Figlio (…) avrebbe dovuto svolgere il tema scritto dal titolo ‘Il tempo è denaro’” e invece ha consegnato “un pezzo di carta dove si legge: ‘Il tempo è moneta. Perciò vado a casa a studiare la geometria, avvicinandosi l’esame’”. Ripetutamente punito, anche quando accoltella un compagno, riesce tuttavia a diplomarsi maestro».

• Mussolini «approda a Milano il 1° dicembre 1912. È il posto giusto per uno come lui: “Nato dal ferro di una fucina di fabbro” nota Prezzolini “cresce fra le armature e i camini delle grandi industrie milanesi”. Mussolini coglie nel caleidoscopio milanese quel che gli serve per la costruzione del potere: l’economia moderna e la rapida circolazione del denaro, il fervore degli affari e il tumulto operaio, le radici della tradizione e le idee d’avanguardia. Milano gli dà tutto quel che serve e tutto ciò che piace. Alla città della giovinezza e del successo, Mussolini non restituirà neppure le briciole di quanto ha preso. Prodigo di parole, le assegna tuttavia l’onorifico nome di “culla del fascio primigenio” o “primogenita del fascismo”».

• «Il 23 marzo 1919 in una sala di piazza San Sepolcro Mussolini proclama la nascita dei Fasci di combattimento. Ricorda Borgese che il programma era “altrettanto vasto quanto poco numerosi erano i suoi membri: la cinquantina di individui radunati in una stanza di piazza San Sepolcro a Milano volevano a un tempo nazionalismo, socialismo, repubblica, rivoluzione, ordine, pace internazionale, Società delle nazioni, Dalmazia e Fiume. L’unico punto ben definito è che essi volevano qualche cosa, anzi tutto”. La notizia del raduno è riferita in dieci righe sul “Corriere”».

• «Ai primi di febbraio 1921 i fattorini telegrafici e i portalettere proclamano uno sciopero. Si dicono vittime di un sopruso, visto che le colleghe hanno diritto al turno di giorno, mentre ai maschi è riservato quello di notte. Anna Kuliscioff commenta: “E’ una vera canaglieria di lazzaroni, i quali per godersi il carnevalone si sono messi in sciopero”».

• «Tra l’autunno 1920 e l’inverno 1921 il fascismo, un prodotto tipico della metropoli che supera ormai i 700 mila abitanti, emigra per diventare una forza nazionale. Nelle campagne della Bassa padana e dell’Emilia i grandi proprietari sperimentano lo strumento delle squadre armate contro i sovversivi e, mentre il fronte socialista si frammenta con la scissione comunista a Livorno, il fronte fascista salda i notabili milanesi con i ras delle province agricole. (…) Mussolini tratta con tutti, pronto a entrare in un eventuale governo Salandra caldeggiato da De’ Capitani, ma anche a fare da sé, beninteso sotto la minaccia armata dei manipoli. Quando il re lo chiama a Roma per conferirgli l’incarico, i bravi borghesi di Milano tirano un sospiro di sollievo».

• «Mussolini trascorre il 28 ottobre nella redazione del “Popolo d’Italia” insieme a Margherita [la scrittrice ebrea Margherita Sarfatti, storica amante e finanziatrice di Mussolini – ndr], che è estremamente impaziente di prendere il potere perché ha anticipato ai fascisti un milione di lire: “Quella marcia si doveva fare. Non era più rinviabile. E non volevo perdere il mio denaro”. Mussolini prende il treno con il fido De’ Capitani soltanto il 29 sera, quando è certo dell’incarico. Con la sua tipica invadenza, Margherita lo raggiunge poi a Roma. Per vederla, Mussolini sfugge al controllo dei poliziotti mettendo in imbarazzo il ministero degli Interni. I due amanti non sono ancora abituati al nuovo ruolo: lui non è più un arruffapopolo, ma il capo del governo, che ha una moglie a Milano».

• «Nel ventennio la città diventa “fitta, compatta, massiccia, saturata dalle nuove affluenze e dai nuovi complessi rappresentativi” come nota Alberico Barbiano di Belgioioso. La popolazione si è moltiplicata nell’ultimo secolo mentre il territorio comunale è rimasto poco più di un fazzoletto (benché allargato nel 1923 con l’annessione di 11 borghi limitrofi, per un totale di 163 mila abitanti). In mancanza di un progetto strategico metropolitano, tra le due guerre si ripiega su aggiustamenti minori e sullo sfruttamento intensivo dello spazio. (…) Nel 1931, quando Milano varca il traguardo del milione di abitanti, non è soltanto la città grigia delle ciminiere e dei gasometri, cari a Mario Sironi, ma un ammasso di cemento e asfalto, un intrico di binari, una distesa di alveari affollati».

• «Qualche angolo di pace e serenità i milanesi lo trovano quando vanno a nuotare o remare nella Darsena, da dove raggiungono il Ticino e il Po. Oppure ai Bagni Diana, dove la graziosa vasca circondata dal boschetto di olmi vede a volte una folla di giovanotti in calzoncini a righe rosse e blu orizzontali, il costume da bagno fornito dalla casa, che si pavoneggiano sul trampolino prima del tuffo. Non tutti gli appartamenti possiedono una vasca, e perciò nel dopoguerra funzionano i bagni pubblici, come quelli dell’Annunciata dove, insieme all’acqua, vengono forniti un sapone e un asciugamano di lino caldo».

• Nel 1902 fu fondata l’università Bocconi, «grazie a un milione di lire donato da Ferdinando Bocconi per ricordare Luigi, il figlio caduto nella battaglia di Adua. La Bocconi è una di quelle istituzioni che proseguono il cammino iniziato da Maria Teresa e Napoleone verso la diffusione delle “nozioni utili” per una classe dirigente al passo con i tempi: l’economia, scienza prediletta dai milanesi e particolarmente coltivata durante l’Ottocento, viene insegnata in modo autonomo e sistematico (così come avviene da decenni per le discipline pratiche al Politecnico, che il 22 dicembre 1927 inaugura la nuova sede, al centro di un quartiere che prende il nome di Città degli studi e ospita le facoltà scientifiche dell’università statale di Milano, nata nel 1924)».

• «Sulla copertina di “Lei”, una nuova rivista illustrata, campeggia la fotografia di una giovane donna, sotto la quale si legge: “Ci sono anch’io”. Non è il primo settimanale femminile che nasce a Milano, ma il più giovane di un’ondata che nell’arco di un decennio ha attirato le lettrici: “Alba”, “Gioia”, “Eva” e altri. E’ il 1933, e il settimanale cambierà il proprio nome in “Annabella” nel 1938, quando la dittatura abolisce il “lei” per imporre a tutti il “voi” (e obbliga al saluto romano)».

• «Forte di un ceto medio e di una istruzione diffusa, Milano resta il paradiso degli editori. Le turbolenze del dopoguerra e l’affermarsi della dittatura avevano prodotto un terremoto della carta stampata, dal quale sono emersi due imprenditori, pionieri dell’industria editoriale di massa. Angelo Rizzoli è nato a Milano il 31 ottobre 1889, Arnoldo Mondadori a Poggio Rusco, nel mantovano, il 2 novembre dello stesso anno. Nessuno dei due ha avuto un’infanzia dorata».

• Rimasto presto orfano, all’età di sei anni Angelo Rizzoli aveva trovato sistemazione ai Martinitt, «l’antica istituzione che ospitava i piccoli bisognosi, avviandoli a un mestiere. Angelo dimostra subito di volersi sporcare le mani con l’inchiostro delle tipografie, dove trascorre, da lavoratore bambino, l’infanzia e l’adolescenza. Volitivo e abile nella contabilità, a vent’anni compera due macchine da stampa, impegnando ogni risparmio e pagando il resto in cambiali. Diventato un padroncino, si arrangia come può, perfino stampando carta intestata per l’osteria in cambio del pranzo quotidiano. Nel 1915 è arruolato come autista di ambulanza, stanziato a Marostica fino al 1917, quando è congedato a causa di una pleurite. Grazie a Calogero Tumminelli, uno stampatore affermato che gli passa qualche commessa, nel dopoguerra guadagna parecchio denaro, trasloca la tipografia, rinnova le macchine e conta un’ottantina di dipendenti. Compie il grande balzo verso il mestiere editoriale nel 1927, quando rileva da Mondadori un certo numero di testate».

• «Le simpatie socialiste del giovane Rizzoli finiscono sepolte quando Giovanni Treccani, imprenditore bresciano, mette in cantiere l’ambizioso progetto dell’Enciclopedia italiana, opera ufficiale in trentasette volumi diretta dal filosofo Giovanni Gentile (e benedetta da Mussolini). Grazie ai buoni uffici di Tumminelli, Rizzoli ottiene di stamparla, un affare sicuro e colossale».

• Anche Arnoldo Mondadori, «figlio di un calzolaio ambulante analfabeta, ha lavorato duramente fin da ragazzo come tipografo. Presto è in grado di impiantare uno stabilimento tutto suo a Ostiglia, poi uno a Verona. (…) A Milano Mondadori approda dopo aver compiuto le prime prove con qualche libro per ragazzi e pochi romanzi. Nel 1920 riesce a farsi ricevere da Virgilio Brocchi, allora molto popolare come scrittore e piuttosto influente in quanto assessore all’istruzione nella giunta Caldara: “Voglio dare all’Italia la bella casa editrice che ha bisogno di avere” annuncia Arnoldo per catturarlo, ben sapendo che si tratta di un’impresa quasi disperata, giacché Brocchi pubblica le sue opere da Treves, l’editore più prestigioso della città. “Mi impegno a vendere più copie di quante ne abbia mai vendute” proclama a Brocchi, e l’argomento è decisivo. Nasce così una duratura alleanza, un fruttuoso rapporto tra autore ed editore».

• Mondadori «lancia la sfida a Treves sul suo stesso terreno, i libri di intrattenimento per la famiglia, ma al passo con il gusto moderno: avventura, crimine, amore con un pizzico di trasgressione. Catturato Brocchi, persuade infatti Ada Negri a stamparle il romanzo Stella mattutina, e Borgese a consegnargli un volume di poesie. Si è aggiudicato intanto un’importante commessa, quella per la stampa di tutti i moduli postali dell’area nord est, che gli garantisce la sicurezza finanziaria per avviarsi con vigore nell’editoria libraria».

• «Iscritto al Pnf dal 1924, Mondadori si è inserito nel grande gioco editoriale. Nel 1926, come si è visto, riesce a sbarazzarsi delle testate minori vendendole a Rizzoli. In quell’anno pubblica Dux di Margherita Sarfatti (un successo da 25 mila copie in un anno) e infine, dopo un gran lavorio di avvocati, riesce a strappare Gabriele D’Annunzio a Treves. (…) In dieci anni Mondadori ha battuto Treves, che subisce il colpo di grazia dalle leggi razziali: l’azienda è rilevata da Aldo Garzanti, un industriale chimico di origine romagnola».

• Oltre che incubatrice e “primogenita” del fascismo, Milano fu anche teatro del suo tragico epilogo. Proprio al teatro Lirico di Milano, infatti, Mussolini pronunciò il suo ultimo, trionfale discorso pubblico, il 16 dicembre 1944. Il 25 aprile 1945, poi, si tenne in Arcivescovado, alla presenza del cardinal Schuster, l’estremo e inutile incontro tra Mussolini e i rappresentanti del Clnai. Pochi giorni dopo, infine, alle tre del mattino del 29 aprile, furono scaricate in piazzale Loreto le salme del Duce, di Claretta Petacci e dei quindici gerarchi giustiziati a Dongo: «la barbara vendicatività popolare le appende per i piedi alle travi di un distributore di benzina, proprio là dove erano stati fucilati i quindici patrioti nel 1944. Achille Starace, già segretario del Pnf, catturato a Milano il giorno prima, viene giustiziato nello stesso posto».

• Massacrata dai bombardamenti anglo-americani, nel corso della Seconda Guerra Mondiale Milano subì perdite immense per vastità e crudeltà. «In meno di cinque anni se n’è andata una porzione di abitato equivalente alla città di epoca napoleonica. La parte più colpita è proprio quella antica: dentro la cerchia dei Navigli sono scomparsi 58 mila vani su un totale di 78 mila; dentro le mura spagnole 21 mila su 138 mila e fuori dai bastioni 30 mila su 753 mila. Oltre a questo, sono stati danneggiati o distrutti fabbriche, strade, ponti, le reti idrica, fognaria e telefonica, 5 mila aule scolastiche, 13 mila padiglioni di ospedale, 23 mila lampioni stradali e 80 mila alberi su 110 mila. Poco meno di un terzo della città è da rifare».

• «Da quando gli avi settecenteschi battevano le mani e gridavano “Bravo, bravo maestrino!” al quattordicenne Mozart, e da quando quelli ottocenteschi intonavano il Va pensiero come fosse un canto patriottico, la musica scandisce ogni evento dell’esistenza milanese. Nell’estate 1945 però la Scala è scoperchiata, il Lirico danneggiato, il Dal Verme è andato a fuoco, il Filodrammatici è crollato e il Manzoni ridotto in briciole. Non è abbastanza per scoraggiare chi ha cacciato le potenti formazioni nazifasciste. Una soluzione si trova, come racconta Antonio Greppi: “In quei tempi molti cortili della città si erano trasformati in piccoli teatri all’aperto. Comitati di inquilini allestivano spettacoli, liberi a tutti, a scopo benefico e ogni mattina sfilavano in municipio le commissioni con i fondi raccolti. Accadeva così di sentir suonare e cantare un po’ dappertutto”».

• «L’11 maggio 1946, quando la Scala è stata ricostruita in soli undici mesi, Arturo Toscanini, tornato dagli Stati Uniti, si piazza a gambe larghe sul podio per dirigere il concerto inaugurale, trasmesso all’esterno dagli altoparlanti. A cancellare l’orrenda memoria della ferocia fascista e dei torturatori della banda Muti, il 14 maggio 1947 apre una sala accogliente, disegnata da Ernesto Rogers e Marco Zanuso, che si chiama Piccolo Teatro, gestito da Paolo Grassi. Il testo prescelto per questa eccezionale prima è L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij».

• «La primavera 1946 riserva ai milanesi un’anteprima di democrazia: il 7 aprile tutti, ma proprio tutti, i cittadini maggiorenni, uomini e donne, vanno alle urne per le elezioni amministrative. Chiesto da decenni, il suffragio femminile si è finalmente avverato. I socialisti vincono con 225 mila voti, seguiti dai democristiani con 167 mila e dai comunisti con 155 mila. Il 2 giugno, Milano vota massicciamente per la repubblica. Il re Umberto, che quel giorno si trova in città, non riesce a incontrare né il sindaco Greppi né il prefetto Ettore Troilo. La città che si era rifiutata di esporre la bandiera nel 1904, alla sua nascita, non rimpiange i Savoia».

• Il grande magazzino aperto nel 1877 vicino al Duomo dai fratelli Bocconi fu acquistato nel 1917 da Senatore Borletti, trentasettenne «provvisto di un mucchio di danee guadagnati con le spolette per proiettili. Affiancato dal cognato Umberto Brustio, Borletti aveva chiesto un consiglio a Gabriele D’Annunzio, poeta e geniale inventore di slogan, ottenendo una pronta risposta: “Il titolo per la Società è questo. L’ho trovato ieri sul vallone di Chiapovan: LA RINASCENTE. È semplice, chiaro, opportuno”».

• Nella notte di Natale del 1918 un incendio distrusse il palazzo della Rinascente, ma «già nel marzo 1921 una folla curiosa assiste all’inaugurazione della nuova sede, festa paragonabile a una prima alla Scala, ma più disinvolta e popolare. Il palazzo è fantasioso, un pizzico di Rinascimento e qualche dettaglio moresco, due torri a cupola, il portico a colonne in granito rosso, l’interno a balconate con colonnette in ghisa e tante, tante vetrine piene di luce. Dentro si schiude un mondo generoso di merci e servizi: le toilettes, la banca, l’ufficio della posta, del telegrafo e del telefono, al di sopra dei quali una sala da tè e un’orchestrina offrono ristoro ai piedi gonfi per il lento passeggiare tra i banchi».

• Ancora una volta, però, «il 16 agosto 1943, quando Borletti è morto da quattro anni ma Brustio è sempre al comando, una bomba alleata manda a fuoco il palazzo dalle colonne rosse. Se non è ben augurante, il nome dannunziano è appropriato: il 4 dicembre 1950 apre le porte un nuovo edificio, opera di Ferdinando Reggiori, ben più severo del precedente: chiuso da alti muraglioni senza finestre, contrasta con il lieve merletto di statue e guglie del vicino Duomo. Gli spiritosi eredi degli scapigliati lo chiamano Sing Sing, e forse ha l’aspetto di un carcere, ma non l’anima. Il lungo cammino del grande magazzino, dopo le catastrofi e i tempi avversi, sbocca finalmente in quella fase di libertà tanto attesa. Milano è tornata alla guida del progresso economico e civile del paese, e la Rinascente può incarnare agli occhi del pubblico la serenità di un’esistenza pacifica e moderna, liberando dal pregiudizio che il bello è costoso, e perciò solo i ricchi possono permetterselo».

• Nel secondo dopoguerra «la terra promessa è il nord delle fabbriche, che attira una quantità di persone (tra il 1950 e il 1975 sono 25 milioni a cambiare residenza), e intere famiglie approdano a Milano e nel circondario. Dalle campagne del sud, dove la fame è in agguato e un paio di scarpe rappresentano un desiderio, Milano appare come il paradiso del benessere: si mangia tutti i giorni (il consumo di carne dei milanesi supera perfino quello degli svizzeri), si trova un tetto per ripararsi (magari in un letto a ore, o in una baracca gelida d’inverno e torrida d’estate, ma occorre pur pagare un pedaggio all’agiatezza); per un cinema o una balera c’è solo da scegliere (i milanesi spendono per svagarsi quattro volte la media nazionale), e alla Rinascente si trova l’utile e il futile».

• «Accanto al grande magazzino, all’imbocco della Galleria, dove la domenica si va a passeggio, il Motta vende gelati come il Mottarello dal manico di legno, che si gusta camminando, e il panettone, un dolce rigonfio e morbido che è simbolo della città. A Milano si fa fortuna: Angelo Motta non era forse un garzone di fornaio, che nel 1919 aveva messo bottega, nel 1933 aveva creato una società per azioni, e nel 1955 dispone di una rete di vendita di 350 agenzie che consegnano ovunque merendine e caramelle?».

• Negli anni Cinquanta Guido Piovene, scrittore veneto incaricato dalla Rai di compiere un viaggio lungo la Penisola, «osserva che la condizione di Milano è “privilegiata e insieme drammatica: non è facile essere ricchi in un paese di poveri. Milano vive con il resto della penisola in un’eterna controversia”: non smette di borbottare perché i connazionali non seguono il suo operoso esempio, perché Roma le infligge un’ingombrante e onnipotente burocrazia, perché il fisco inghiotte senza restituire, e così via».

• «Nel 1957, con 1,3 milioni di abitanti, la città conta solo quattro supermercati; nel 1960 il 98 per cento della distribuzione al dettaglio nazionale è rappresentato da negozi (l’83 per cento dei quali non ha più di due addetti). Gli avversari della modernità commerciale si collocano comunque a destra e a sinistra. Un frequentatore scontento dei supermercati è Luciano Bianciardi, un grossetano di fede comunista, arrivato in città per lavorare dall’editore Feltrinelli. Il protagonista del suo romanzo La vita agra entra nel “bottegone nuovo” che descrive come “una stanza enorme senza finestre, con le luci giallastre sempre accese a illuminare e cataste di scatole colorate. Dal soffitto cola una musica calcolata per l’effetto ipnotico, appesi al muro ci sono specchi tondi ad angolazione variabile e uno specialista, chiuso chissà dove, controlla che la gente si muova, compri e non rubi. Entrando, ti danno un carrettino di fil di ferro, che devi riempire di merce”».

• «Per un ventennio la Rinascente rimane all’avanguardia del gusto, collocando la bellezza moderna al centro delle sue strategie. Istituisce la figura dell’art director (che tra il 1967 e il 1969 è Tomàs Maldonado), in modo che l’immagine dell’azienda e delle merci in vendita non tradisca mai la linea estetica prescelta. Quindi fin dal 1950 Max Huber ha disegnato un marchio (la grande “R” maiuscola preceduta da una “l” minuscola), mentre le vetrine dell’Upim sono curate da Bruno Munari. Sono le nuove tappe di un percorso estetico, iniziato nel 1921 con i manifesti di Marcello Dudovich, il miglior cartellonista pubblicitario della sua epoca (che opera per la Rinascente fino al 1956). Un giovanissimo milanes ariós originario di Piacenza, Giorgio Armani, compie un apprendistato come vetrinista ed è entusiasta di quell’“ambiente fantastico”, dove è “in contatto con personaggi importanti della creatività e della cultura”».

• «Dopo che Nizzoli ha disegnato la Lettera 22 e Zanuso la poltrona Lady, un professore di chimica dell’università milanese, Giulio Natta, mette al lavoro la sua squadra di ricercatori, finanziata dalla Montecatini. Da questa fatica esce il Moplen, un materiale plastico duro, resistente e leggero, che vale all’inventore un premio Nobel, all’azienda una montagna di denaro e ai consumatori una quantità di oggetti indispensabili per la comodità quotidiana».

• «Fin dal tempo in cui Teresa Beccaria, la giovane moglie di Cesare, si era presentata a una festa del palazzo Ducale in un’acconciatura di piume bianche, liricamente paragonata a una cometa, all’alta società preme mostrarsi sensibile all’ultimo grido della moda. Quando poi Napoleone fa di Milano una piccola Parigi, il “Giornale delle dame” intona il gusto a quello francese, e nello stesso tempo costringe le sarte a esercitare il colpo d’occhio e a mettere alla prova l’abilità manuale. Anche le clienti marciano all’avanguardia: due ardite pioniere, il 13 marzo 1891, si esibiscono in jupe culotte sul corso Vittorio Emanuele, sotto lo sguardo sorpreso dei passanti (ma al primo fischio di disapprovazione si infilano in una carrozza per sparire alla vista). All’Esposizione del 1906 Rosa Genoni, pittrice, femminista, sarta d’avanguardia e autrice di un manifesto dal titolo Per una moda italiana, si aggiudica il premio della giuria internazionale delle arti applicate per l’ispirazione “squisitamente nazionale” dei suoi modelli, che replicano i grandi pittori italiani del passato».

• «Dal 1814 Milano non è più capitale, non ha una corte, né un corpo diplomatico, né cerimonie ufficiali, ma non perde il primato della sartoria. La buona società nazionale si serve, per le occasioni ufficiali e per quelle private, degli atélier milanesi. La principessa Maria José di Sassonia Coburgo, che nel 1929 va sposa all’erede al trono Umberto, principe di Piemonte, indossa un abito bianco della sartoria Ventura, che ha sede in corso Venezia a Milano».

• «Di madre in figlia le sarte si tramandano i segreti del mestiere, e di madre in figlia le clienti accampano la pretesa del non plus ultra, ostinate a tirare sul prezzo e sulla consegna, spietate verso trasgressioni o imperfezioni. Una di queste incontentabili sciore fa capolino da una pagina di Carlo Emilio Gadda: “Donna Giulia de’ Marpioni, nata Pertegati, e cugina dei Borella di Villapizzone, (…) era donna di elevato sentire. (…) L’elevato sentire, beninteso, non le impediva di ridurre mensilmente alla disperazione i commessi delle Seterie e Passamanerie Milanesi Carugati & Bondanza S.A., il primo negozio del genere in tutta Milano, dicono, quando gli capitava in negozio dieci minuti prima della chiusura di mezzogiorno, con un campioncino, un filuzzo, d’una matassina di seta color pisello, secondo lei: o un ritaglio color beige (nel pronunziare la qual parola il suo volto si accendeva di bagliori tintoretteschi)”».

• «Cresciuta attraverso esperienze di lungo periodo, la sartoria milanese sboccia negli anni Cinquanta grazie alle regole di una società dinamica, che apprezza le novità e promuove i passaggi di classe. (…) Due momenti segnano questa rinascita: il primo è la ricostruzione della Scala, con il concerto diretto da Toscanini l’11 maggio 1946. La concreta resurrezione del teatro infonde nei milanesi la certezza che la socievolezza rivive sulla consueta traccia di musica, eleganza e chiacchiere, da quasi due secoli delizia dei cittadini e dei forestieri. L’altra data fatidica della moda è la sfilata di villa Torrigiani, a Firenze, nel febbraio del 1951, organizzata dall’uomo d’affari toscano Giovanni Battista Giorgini. Giorgini ha la preziosa idea di invitare i buyers americani, reduci dalle sfilate parigine, a compiere un détour, prima del rientro oltre Oceano, invitandoli a Firenze, per constatare l’inventiva degli artigiani italiani, per niente inferiore a quella francese, e soprattutto meno costosa. Il successo dell’iniziativa getta sulle sartorie italiane un fascio di luce tale da consentire di allacciare relazioni con il maggiore mercato di consumo, gli Stati Uniti d’America. La proposta di Rosa Genoni, che risale a oltre mezzo secolo prima, comincia a diventare realtà».

• «Dopo l’aggressione italiana all’Etiopia, nel 1935, scattano le “inique sanzioni” che inducono il regime fascista all’autarchia. Le sarte, obbligate per legge a impiegare una certa quota di materie prime nazionali nelle loro creazioni, devono arrangiarsi e aguzzare l’ingegno. Tanto più durante la guerra, quando le materie prime mancano del tutto, i creatori di moda milanesi escogitano soluzioni straordinarie: per i manici delle borsette, il pellettaio Franco Bertoli usa collari per cani, le giornaliste Camilla Cederna e Maria Pezzi scovano una metratura di panno da biliardo per confezionare due cappotti (e a Firenze il calzolaio Salvatore Ferragamo fabbrica scarpe con il cellophane, o a Venezia Giuliana Camerino ricorre al velluto per produrre accessori)».

• «Contessa buongiorno, mi perdoni se l’ho fatta aspettare, ma ho molto pensato a lei. Ho trovato un modellino che credo proprio sia il suo genere: semplice, sportivo, elegante. Me lo sono messo io così lei si rende meglio conto… Ecco, guardi contessa, sopra abbiamo il mantello, double-face naturalmente, così lo porta di più… la trovo molto bene, contessa. Se lei mi toglie la manica e mi ci infila la gamba le fa pantalone, carino, eh? Noi abbiamo qui dietro il grande cappuccio, impermeabile naturalmente, che applicato sul davanti coi suoi poussoirs le fa tasca canguro. Bellino, eh! Sì, ci può mettere il bambino, è rinforzatissimo… L’abitino è semplicissimo, un niente, però abbiamo la bottoniera fiche. Non so un bridge, una canasta, lei gioca molto, ha la sua dotazione di fiches, simpatico eh? Togliendo poi il collettino e i polsini le fanno eventualmente… costume da bagno, carino eh? Senza contare contessa che se lei toglie tutto, è in sottoveste, qualunque occasione, le fa rendez vous… pratico eh?» (Franca Valeri, in una delle sue caricature milanesi).

• «Una buona parte della ritrovata vivacità della Scala è merito di Antonio Ghiringhelli, ricco industriale originario di Varese, che il sindaco Greppi ha nominato sovrintendente all’indomani della liberazione. Mirabile organizzatore, è anche abbastanza generoso da pagare di tasca sua, quando il teatro ha bisogno di contanti. Convinto che “la qualità dei cantanti va declinando in tutto il mondo”, è però tanto fortunato da scovare voci preziose come quelle di Maria Callas, Renata Tebaldi, Giuseppe Di Stefano, e da portare sul podio, oltre ad Arturo Toscanini, direttori come Tullio Serafin, Victor De Sabata, Gianandrea Gavazzeni. Il suo talento si esprime nel bilanciare la tradizione, che rinverdisce mettendo in scena i classici melodrammi, e l’innovazione, che entra in palcoscenico con le regie di Luchino Visconti. Lo spettacolo scaligero al tempo di Ghiringhelli è musica, voci, recitazione, costumi, pettegolezzi nei palchi, insomma un sogno di perfezione» .

• «Quando Piovene fa tappa a Milano, ne svela la segreta bellezza: “Pure Milano è bella. Chi la percorre con amore vede come persistono, nonostante le offese, i suoi motivi antichi”, “gli avanzi di vecchi quartieri, spesso soltanto un paio di case, un crocicchio, che non riescono a morire, anzi si fanno luce come arbusti contorti tra i cementi e i marmi”. La piccola capitale di provincia dei tempi asburgici, la città negletta dai Savoia, secondo Piovene, è “piuttosto un’immensa borgata, in continua trasformazione”, che “conduce la propria vita, pratica, spesso prosaica, talvolta ottusa, di città dedita al commercio e alle industrie”. Non è una bellezza appariscente, ma la grazia discreta che Milano coltiva da secoli. Il meglio della città sta nella dimensione privata e nelle persone, più che in quella pubblica e visibile al turista».

• «L’architettura poco canonica – ma unica al mondo – del Duomo, risparmiato dalle bombe, incuriosisce sempre i forestieri. Scrive Piovene: gli “stranieri e puristi” che lo visitano “affermano che il gotico (…) non è ortodosso, e non può essere citato come esemplare”. Questo è tuttora il “grande edificio sentimentale, carico di sospiri, che porta sulla vetta una Madonnina d’oro, con il suo popolo di statue confidenziali tra cui i milanesi salgono come per una scampagnata col cartoccio delle vivande”».

• Dal 1965 sotto il Duomo «corre un altro vanto milanese, la metropolitana, la prima in Italia. Ce n’è voluto di tempo per averla: un primo progetto si era arenato nel 1933, quando da Roma il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici aveva precisato che il trasporto sotterraneo doveva essere limitato al solo territorio comunale, molto piccolo. A metà degli anni Sessanta, libertà e democrazia hanno portato finalmente quel che i milanesi desiderano: velocità per l’efficienza, con un pizzico di piacevolezza. La linea rossa è un prodigio: l’arredo delle stazioni, con il pavimento grigio e le scritte in bianco su fondo rosso lacca, firmato da Franco Albini, è quanto di più confortevole si possa immaginare».

• «Il vero primato milanese negli anni della modernizzazione è quello dell’accoglienza: i nuovi concittadini arrivano a frotte, da ogni direzione ma soprattutto dal Sud (e, quando non trovano un posto in città, si sistemano nei comuni vicini, gonfiandone la popolazione da poche migliaia a decine di migliaia). Non sono molti i milanesi che assumono un’espressione torva di fronte al terrone, e ancor meno quelli che affiggono sui portoni un cartello “affittasi a settentrionali” (anche perché i danee del Sud sono buoni come quelli del Nord). La città moderna è abituata ai baggiani, ai pagnottanti, ai cosacchi, ai todèsc, e al suono di qualsiasi linguaggio, visto che perfino i cinesi si sono insediati nel quartiere di via Paolo Sarpi con le loro pacifiche attività».

• «A metà del Novecento, come cent’anni prima, la cittadinanza di fatto si acquisisce lavorando, e imparando quel poco di lessico lombardo che è necessario a sopravvivere (la colazione è quella di mezzogiorno e il pranzo quello delle otto di sera, la pagnotta si chiama michètta, e così via), e comperando il “Corriere della sera”, segno distintivo della milanesità. Gli abitanti disprezzano solo chi esercita attività illegali: i posteggiatori e i venditori abusivi di fiori, frutta e verdura, i contrabbandieri di sigarette, perché non pagano le tasse».

• «Luciano Bianciardi si trasferisce a Milano nel 1954. Un po’ come Foscolo, il quale attribuiva ai milanesi “il cuore castrato e grasso, e le fibre del cervello cornee”, Bianciardi non ha alcuna simpatia per la città e per i suoi abitanti. Scrive a un amico: “I milanesi, credimi, son coglioni come poca gente al mondo. La gente qui è allineata, coperta e bacchettata dal capitale nordico, e cammina sulla rotaia, inquadrata e rigida. E non se ne lamentano, pensa, anzi credono di essere contenti”. Dopo otto anni, questo ambiente ostile, privo di slanci ideali e intriso di operosità prosaica, gli ispira un piccolo capolavoro: La vita agra, edito da Rizzoli, è uno dei successi letterari del decennio».

• «Poi ci sarebbe il Feltrinelli, detto il giaguaro: ventotto anni, occhiali, baffi, alto e robusto, ignorante come un tacco di frate, e ricco da far schifo. Ha le mani nel legname, nelle costruzioni edili, dei frigoriferi, nella Coca-Cola. Ha atteggiamenti esterni molto cordiali e sbracati: quando ci incontriamo parliamo sempre a base di manate sulle spalle e pacche sullo stomaco» (Luciano Bianciardi sul suo editore, Giangiacomo Feltrinelli, comunista nonché ultimo rampollo di una ricchissima dinastia industriale, finanziaria e immobiliare milanese).

• «La nostra sede è bella, dicono: sembra un negozio di profumi; tutto a base di tavoli moderni, cristalli e materie plastiche colorate. L’arredamento l’ha curato la moglie del padrone, detta la giaguara, ex morta di fame assurta ai fastigi della ricchezza e della potenza: è odiosa e carina» (Luciano Bianciardi a proposito del primo ufficio della casa editrice Feltrinelli, in via Fatebenefratelli 3).

• Giangiacomo Feltrinelli «è un editore fortunato. Alla fine del 1957 Giorgio Bassani gli consiglia di pubblicare il romanzo di un gentiluomo siciliano, morto nel luglio precedente. Il manoscritto è stato bocciato da varie case: Einaudi lo ha respinto, Mondadori ha temporeggiato, su consiglio di Vittorini, che lo vorrebbe emendato e corretto. I giudizi degli esperti sono negativi: è l’opera di un dilettante, stravolge la storia patria, non risponde ai canoni classici, e così via. Feltrinelli non ha niente da perdere e lo pubblica. Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa esce nel dicembre 1958 e di nuovo il successo è strepitoso e duraturo. Il Pci non smette di rimproverare al compagno editore di indulgere a opere decadenti».

• «Nel ventennio della modernizzazione la città, che pure porta sulle spalle i pregiudizi e l’attaccamento alla conservazione, vede davanti a sé la libertà e l’innovazione. (…) Nel 1949, da un’idea di Luigi Rusca che è passato alla Rizzoli, nasce la Bur, la prima collana economica (a parte i libri del Canguro), che debutta con un capolavoro di fattura milanese, I promessi sposi. Il Politecnico, l’università che ha sostenuto lo slancio industriale, e continua a formare tecnici di alto livello, installa nel 1953 il primo calcolatore elettronico. Dentro la cerchia dei Navigli (i canali sono coperti, ma il nome è rimasto) si svolge ogni attività culturale».

• Imbattuto il primato culturale della città: «con 12 mila titoli librari l’anno, nel 1961 Milano si conferma la capitale della carta stampata, intorno alla quale si affaccendano 28 mila persone (un quinto degli addetti al settore a livello nazionale). (…) Per gli spettacoli dei diciotto teatri e delle 217 sale cinematografiche, nel 1961, Milano spende 27,5 miliardi di lire (Roma ne sborsa 26)».

• «Come nota Piovene, non è facile “essere ricchi in un paese di poveri”, perciò i milanesi devono subire qualche punizione dallo Stato centrale e dal governo: benché in corso Sempione sia stato disegnato da Gio Ponti il palazzo della Rai, concepito per la nascente televisione, e benché il primo telegiornale nel gennaio 1954 sia effettivamente trasmesso da Milano, la città non avrà la sede della tv pubblica. I politici democristiani afferrano la potenza del nuovo mezzo, e preferiscono tenerlo ben stretto e vicino. È uno schiaffo, un aperto disconoscimento al ruolo civile e culturale di Milano. Ma non è il primo e neppure l’ultimo».

• Negli anni Sessanta Giangiacomo Feltrinelli abbracciò la lotta armata. «Il 16 marzo 1972 i giornali annunciano che sotto un traliccio nelle campagne di Segrate è stato rinvenuto il cadavere di un uomo. Il documento che ha in tasca dice che si chiama Osvaldo Maggioni. È Feltrinelli? Dalla foto non si direbbe, ma qualcuno gli disegna i baffi a matita, tanto per ricostruire la fisionomia ben nota, e scopre che è davvero lui. Stava preparando un attentato. La sua morte è dovuta a un incidente o a una trappola? Al funerale, (…) la madre di Giangiacomo, Giannalisa, dichiara: “Io ho finito di soffrire”, e sono parole degne del settecentesco senatore Gabriele Verri, quando si sentiva sfibrato dalle ribellioni del figlio Pietro».

• «Terreno di sperimentazione delle riforme austriache, capitale della ciclonica innovazione napoleonica, culla della prima insurrezione popolare nel 1848, nido della questione sociale al tempo di Bava Beccaris, laboratorio del fascismo all’indomani della grande guerra, anche dopo il miracolo economico Milano digerisce lentamente la mortificazione. Sulla destinazione della spesa pubblica, sui nuovi investimenti per la modernità, non si discute, tutto è deciso a Roma, negoziato tra i partiti, i sindacati, i potentati economici, che sono le corporazoni del Ventesimo secolo. Come aveva già notato Piovene, Milano rimane una grande borgata, incapace di diventare metropoli, incompresa dal resto del paese, e incapace di far valere i suoi primati. Ma è pur sempre una “città conclusiva”, come notava Gadda. La maledizione di aver conosciuto per cinque secoli soltanto padroni esterni le ha tolto il gusto del potere e le ha negato l’abilità di gestirlo».

• «Quei 55 mila milanes ariós che nel 1970 accorrevano in città per lasciarsi inghiottire dalla fabbrica e dall’ufficio erano attirati dalle vecchie glorie dell’industria milanese: Edison, Montecatini, Breda, Pirelli, Alfa Romeo. Otto anni più tardi un evento simboleggia un’inversione di rotta: il grattacielo costruito per la Pirelli in piazza Duca d’Aosta viene venduto alla Regione Lombardia. Comincia l’ascesa degli apparati pubblici, tramonta invece la grande industria, l’epoca dei padroni onnipotenti lascia il posto a quella dei politici onnipotenti».

• «Il nuovo secolo vede svettare guglie e torrioni a un’altezza mai vista. In passato pareva sacrilego (e pericoloso per via della falda freatica che sta sotto la città) elevarsi al di sopra della Madonnina in rame dorato del Duomo, tanto che una legge del ventennio fascista lo proibiva esplicitamente; ma già il Pirellone, completato nel 1961, aveva rotto la regola con i suoi 127 metri. Nelle giornate serene l’azzurro del cielo si rispecchia nelle vetrate delle torri della Regione Lombardia, dell’Unicredit e di altri “confratelli”: dall’alto del Duomo, posto di osservazione prediletto dai turisti fin dai tempi napoleonici, si scorgono ancora la campagna piatta da una parte e le Alpi dall’altra, ma l’orizzonte è segnato dai colossi in cemento, acciaio e vetro».

• «Eppure, in sintonia con la regione, Milano resta il motore dell’economia nazionale: nel 2012, con il 6,4 per cento delle imprese italiane e mezzo milione di addetti, genera il 18 per cento della produzione totale. Distribuzione, servizi e trasporti, con quasi 326 mila imprese e un milione e mezzo di addetti, danno luogo a una produzione di 370 miliardi di euro».

• «Ogni volta che si è presentata un’occasione commerciale, un’apertura internazionale, una novità culturale, la città non se l’è lasciata scappare. Potrebbe essere questa l’Expo 2015? In fondo, la manifestazione, pur contestata e sofferta, intreccia le caratteristiche più positive di Milano: il “tutto si deve all’aratro” evocato da Arthur Young, la bonarietà dell’accoglienza cara a Stendhal, la curiosità per l’innovazione di Giovanni Battista Pirelli ed Ettore Paladini, nonché la vocazione ai danee che ha fatto la fortuna materiale e spirituale di parecchie generazioni (non soltanto milanesi)».