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 2014  febbraio 14 Venerdì calendario

La cartina nera del Califfato, pezzo dopo pezzo, si colma, gli spazi vuoti tra un emirato e un altro, tra un brigante sahariano infeudato al califfo di Mosul e gli altri zeloti dello stato islamico totale si restringono

La cartina nera del Califfato, pezzo dopo pezzo, si colma, gli spazi vuoti tra un emirato e un altro, tra un brigante sahariano infeudato al califfo di Mosul e gli altri zeloti dello stato islamico totale si restringono. I miopi profeti del «disordine controllato», i medagliati della guerra per «portare la democrazia in Libia», guardano ora, stupefatti, le bandiere nere a Sirte, a Derna, sulla costa del mare, ascoltano intontiti i proclami arroganti dei nuovi padroni della Libia purificata da una ideologia settaria e barbara. Dove sono finiti i mestatori a cui hanno prestato, frettolosamente, la patente di «democratici», di uomini del futuro? Che fine hanno fatto quelle elezioni, quei parlamenti, quelle costituzioni che abbiamo annusato come segno dei tempi ormai irrevocabilmente nuovi? Si urla ora all’allarme, si invocano alleati e ascari per fermare quelli che il presidente americano chiamava pochi mesi fa avversari di serie b, fantocci di un medioevo ridicolo e strampalato contrapposto alle meraviglie dl migliore dei mondi possibili, cioè il nostro. La Libia si infeuda, a brancate, a città, al califfato: ora migliaia di uomini la cui anima è una pagina bianca, migranti, fuggiaschi, disperati, superstiti di innumerevoli naufragi, rottami di tutte le tragedie di un continente, sono prigionieri del gulag islamista, sotto il controllo del sistema totalitario: migliaia di pagine bianche, uomini senza sogni senza speranze senza passato e senza futuro su cui scrivere un nuovo codice genetico: la guerra santa, la sharia, l’odio per l’impuro. Abbiamo regalato al califfo lunghe file di possibili reclute. A noi tutto questo servirà al massimo per la polemica di strapaese su quanto costava l’operazione Mare Nostrum. Invece la strategia globale del califfato galoppa: tiene ben saldi Mosul, la Siria, l’Iraq nonostante le scenografie degli sterilissimi bombardamenti, e le medaglie distribuite ai curdi. Ogni giorno che passa è per Abu Bakr una vittoria: migliaia di giovani interiorizzano la legge del sistema islamista, una legge non scritta che porta a identificarsi alla volontà di colui che ne è l’incarnazione. Il califfato è un mito: ma cosa se non i miti spinge gli uomini a combattere, morire, uccidere? Lungo le coste del Mediterraneo in Africa, nello Yemen infinite avanzate, colpi di spillo e raid devastatori, singoli delitti e stragi assire portano avanti le pedine con bandiere nere. Una città cade in Nigeria, una base militare è annientata nel Sahel, un convoglio di armi attraversa il Sahara, una imboscata uccide soldati keniani, una altra ambasciata occidentale chiude: notizie che ci scorrono tra le dite che non ricordiamo, che non scomodano i politici ma sono tutte vittorie del califfato. Il nostro spazio si restringe, i luoghi che possiamo attraversare, raccontare, vivere si riducono, davanti a noi, attorno a noi: è questa la guerra totalitaria. La verità è una cosa fragile: se intonata ad ogni angolo da mille giovani gole di acciaio, unte di moschee fanatiche immediatamente anche la verità più indiscutibile si trasforma in bugia, in violenza, in terrore, e prima o poi in pretesto per uccidere.