Sergio Romano, Corriere della Sera 14/2/2014, 14 febbraio 2014
Fine di una guerra civile Togliatti e l’amnistia del ‘46 In una risposta lei fa intendere che la concessione dell’amnistia del 22 giugno 1946 da parte di Palmiro Togliatti, contestata dal suo stesso partito, fosse strumentale
Fine di una guerra civile Togliatti e l’amnistia del ‘46 In una risposta lei fa intendere che la concessione dell’amnistia del 22 giugno 1946 da parte di Palmiro Togliatti, contestata dal suo stesso partito, fosse strumentale. L’amnistia generale fu solo italiana? Mattia Testa do.testa2012@libero.it Caro Testa, N on credo che fra il reclutamento comunista degli intellettuali italiani e l’amnistia del 1946, quando Togliatti era ministro della Giustizia nel primo governo De Gasperi, esista una relazione. Il leader comunista aprì le porte del partito agli intellettuali perché aveva bisogno di professionisti del consenso. Conosceva le loro debolezze e le loro ambizioni, sapeva che erano abituati da tempo a cercare un riparo all’ombra del potere (principe o partito). Sapeva infine che la distanza tra il fascismo di sinistra e il comunismo non era poi così grande. Lo aveva già sostenuto il filosofo Giovanni Gentile nel suo discorso in Campidoglio del 24 giugno 1943, un mese prima della caduta del fascismo. Alludendo alla presenza fra i giovani di una tendenza comunista, disse: “Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente delle more necessarie allo sviluppo di una idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal comunismo”. Tradotte in chiaro le parole un po’ barocche di Gentile dicevano ai giovani comunisti italiani: non siate impazienti, il fascismo va nella stessa direzione e ci arriverà prima di una ideologia utopistica come il comunismo. Togliatti lanciava agli intellettuali un messaggio opposto, ma fondato su una stessa premessa; ed era certo che sarebbe stato raccolto. L’amnistia del 1946, invece, fu il risultato di una constatazione che Togliatti, in quel momento, non avrebbe mai ammesso pubblicamente. Dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile 1945 vi era stata in Italia, insieme alla guerra di liberazione, una guerra civile, vale a dire un sanguinoso conflitto tra fratelli da cui il vincitore esce generalmente in due modi: eliminando, dopo la fine della guerra, il maggior numero possibile di oppositori, come fecero Franco in Spagna e Lenin in Russia; oppure con un gesto di pacificazione e clemenza. Togliatti scelse la seconda strada perché il presidente del Consiglio (Alcide De Gasperi) e i partiti rappresentati nel governo che non avrebbero tollerato la prima. La sua decisione non piacque a sinistra perché infrangeva due tabù su cui era stata costruita allora l’ideologia della Resistenza. Il primo tabù voleva che i partigiani avessero combattuto una guerra di liberazione nazionale contro un nemico straniero e i suoi servi (a cui non era neppure lecito attribuire la qualifica di «italiani»). Mentre il secondo tabù rappresentava la Resistenza come una lotta rivoluzionaria di liberazione sociale per l’avvento di una Repubblica popolare e proletaria. Fu necessario attendere un importante libro di Claudio Pavone ( Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza ) pubblicato dalle edizioni Bollati Boringhieri nel 1991, perché il concetto di guerra civile fosse accettato anche dalla sinistra comunista e massimalista. Grazie a Pavone e agli studi di Renzo De Felice fu da allora possibile sostenere, senza suscitare scandalo, che nella guerra combattuta fra il 1943 e il 1945 vi erano stati italiani su entrambi i fronti, spesso divisi da un diverso concetto dell’onore. Togliatti, volontario nella Grande guerra, non poteva non esserne consapevole. Lei vorrebbe sapere, caro Testa, che cosa accadde in altri Paesi europei afflitti dalla stesse problema. L’esempio più interessante è quello della Francia. Anche lì vi fu una guerra civile, ma si preferì agire con tempi più lunghi. Dopo parecchi processi, un certo numero di condanne a morte, qualche suicidio e parecchie epurazioni, furono adottate due amnistie: la prima per i reati puniti con pene inferiori ai 15 anni nel 1951, la seconda, più generosa ma non generale, nel 1953. Nel frattempo quasi tutti gli intellettuali che avevano più o meno felicemente convissuto con il governo di Vichy durante l’occupazione e avevano subito qualche rimbrotto dopo la liberazione, erano riapparsi sulla scena culturale e i loro peccati erano stati perdonati.