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 2014  gennaio 29 Mercoledì calendario

HASTA LA MISERIA


PUÒ IL PAESE DETENTORE delle più grandi riserve mondiali di petrolio con appena 30 milioni di abitanti trovarsi sull’orlo della bancarotta e della sollevazione popolare, afflitto dalla scarsità di generi di prima necessità che causa code chilometriche fuori dai negozi e da quella di medicinali e attrezzature mediche che determina la trasformazione degli ospedali in deserti o in immondezza!? Sì, se il paese è il Venezuela dopo 15 anni di socialismo delle cicale. Hugo Chávez, il carismatico leader populista deceduto nel 2013 dopo quattordici anni di potere ininterrotto, aveva ridotto drasticamente i tassi di povertà, ma al prezzo del soffocamento delle libertà politiche a livelli quasi cubani e della degradazione irreversibile dell’apparato produttivo. Negli ultimi sei anni la crescita del Pil è stata per tre volte negativa, il 2014 si è chiuso con un meno 3 per cento. E la povertà è risalita. Negli anni ruggenti di Chávez, fra il 1999 e il 2008, la povertà relativa era scesa dal 42,8 per cento al 26, e quella assoluta dal 16,6 per cento al 7. L’anno scorso la povertà assoluta risultava risalita al 10 per cento e quella relativa al 31. E il peggio sembra dovere ancora arrivare. I numeri del collasso venezuelano sono impietosi.

La storia e le sue lezioni inutili
Nonostante gli asfissianti controlli sui prezzi l’inflazione venezuelana è la più alta del mondo: 65 per cento l’anno scorso; l’indice di scarsità dei beni di prima necessità ha toccato il 33 per cento; la moneta nazionale, che al cambio ufficiale è scambiata a 6,30 per un dollaro, sul mercato parallelo ha perso il 178 per cento del suo valore in un anno e ora si scambia a 162 bolivares per un dollaro. Le riserve valutarie, che cinque anni fa ammontavano a 32 miliardi di dollari, sono scese a 21 miliardi. Il tasso d’interesse sui bond decennali, che un anno fa stava attorno al 10 per cento, nel gennaio 2015 ha toccato il 29,9 per cento. Il deficit di bilancio l’anno scorso è stato del 17 per cento (nell’Eurozona non possiamo sfondare il 3 per cento) e attualmente, in mancanza di correzioni, sarebbe al 20. La Federazione delle Camere di commercio avverte che il paese dispone di riserve di beni di prima necessità per soli 45 giorni, dopodiché se il governo non sarà in grado di finanziare le importazioni sarà carestia vera. Per l’anno corrente il Fmi prevede, a causa del crollo del prezzo del barile di greggio (che rappresenta il 95 per cento dell’export venezuelano), un’ulteriore contrazione del Pil del 7 per cento. Altri istituti prevedono che l’inflazione salirà al 73 per cento e che l’indice di scarsità dei beni peggiorerà.
Secondo Nicolas Maduro, lo sfortunato successore di Hugo Chávez, le cause di tutto questo sono la «guerra economica» organizzata dagli imprenditori privati e dalla opposizione e il complotto internazionale che ha causato l’improvvisa flessione del prezzo del greggio per mettere in difficoltà i paesi anti-imperialisti. La prima avrebbe determinato la penuria dei beni di consumo, la seconda la crisi di liquidità e di solvibilità. In realtà, malmenate da un decennio di nazionalizzazioni, di concentrazione dei poteri e dei mezzi di comunicazione nelle mani dell’esecutivo, imprese private e opposizione politica sono a malapena in grado di reggersi in piedi. La colpa del tracollo economico del Venezuela è interamente responsabilità di chi lo ha governato per 15 anni ripetendo tutti i classici errori del socialismo dirigista, ignorando tutte le lezioni della storia. Il collasso del prezzo del petrolio è soltanto l’incidente di percorso che farà uscire di strada improvvisamente un veicolo destinato già di suo a schiantarsi.
I numeri del Venezuela erano già pessimi all’inizio della scorsa estate, col barile di petrolio sopra i 100 dollari. I due peccati originali del disastro venezuelano sono la mala gestione dell’industria petrolifera e le politiche di controllo del cambio e dei prezzi al consumo. Tutte e due sono opera di Hugo Chávez, che non ha pagato pegno perché è morto prima che i nodi venissero al pettine e perché durante il suo governo il prezzo del petrolio è sempre e soltanto aumentato, passando da 9 a 100 dollari al barile. È stato lui a mangiarsi la gallina dalle uova d’oro, cioè l’industria petrolifera. Ed è stato ancora lui a gettare le basi della penuria di beni di consumo e dell’inflazione che oggi affliggono il paese.

Benzina per tutti, paga Pantalone
Quel che il socialismo bolivariano ha fatto all’industria petrolifera lo si riassume in poche, eloquenti cifre: quando Chávez è salito al potere nel 1999 la Pdvsa, la compagnia nazionale degli idrocarburi, aveva 51 mila dipendenti e produceva 3 milioni di barili al giorno; oggi ne ha 140 mila e produce solo 2,5 milioni di barili al giorno. La produttività è scesa da 58,8 barili al giorno di greggio per dipendente a 17,8 appena. Il regime ha trasformato la più efficiente impresa pubblica del petrolio di tutto il Sudamerica in una vacca da mungere per obiettivi di politica interna e internazionale e nel caposaldo delle sue politiche clientelari. Cogliendo l’occasione dello sciopero del dicembre 2002 che aveva per obiettivo di far cadere il suo governo, Chávez licenziò 15 mila dipendenti della Pdvsa e li sostituì con fedelissimi del suo partito. Da quel momento il numero dei dipendenti andò aumentando senza nessuna relazione con l’efficienza e la competenza. La contabilità divenne opaca: coi profitti del petrolio venivano finanziate direttamente le “missioni popolari” chaviste nei quartieri poveri, fuori dal controllo dei ministeri e del parlamento.
Scrive Andreas Oppenheimer, uno dei più famosi giornalisti latinoamericani, che «la produzione venezuelana di petrolio, che rappresenta il 95 per, cento delle entrate da esportazioni del paese, dovrebbe essere utilizzata in tutte le scuole del mondo per illustrare agli studenti cosa succede quando un governo populista comincia a distribuire la ricchezza del paese sotto forma di sussidi, senza investire nella manutenzione e nell’innovazione». La situazione oggi è arrivata al punto che Maduro ha dovuto ordinare importazioni di greggio leggero da mescolare col greggio pesante locale, che altrimenti non si riesce a esportare. Il Venezuela non riesce più a produrre greggio leggero perché non ha investito nel settore né fatto manutenzione degli impianti, mentre le compagnie straniere si rifiutano di investire per paura di nazionalizzazioni.
Ma dove sono finiti i profitti del petrolio? Una parte si è trasformata in stipendi parassitari e un’altra in finanziamenti extra contabilità generale alle missioni bolivariane, come detto sopra. Un’altra ancora in sussidi al prezzo del carburante, che in Venezuela è praticamente distribuito gratis alla pompa: un litro di benzina costa 0,097 bolivares al litro, cioè poco più di 1 centesimo di euro al cambio ufficiale. Questo sussidio costa allo Stato circa 12 miliardi di dollari all’anno, e Maduro ha fatto sapere che vorrebbe intervenire su questa voce della spesa pubblica per riportare il bilancio sopra la linea di galleggiamento. In passato tutti i presidenti che hanno cercato di eliminare o ridurre fortemente le sovvenzioni al prezzo dei carburanti hanno dovuto affrontare sommosse popolari: il prezzo della benzina è il grilletto dell’inflazione, che in Venezuela già tocca vertici altissimi.
Un’altra parte dei profitti del petrolio è andata bruciata nel programma Petrocaribe: dai tempi di Chávez, il Venezuela vende petrolio a prezzi stracciati a 13 paesi dei Caraibi e dell’America centrale in nome della solidarietà anti-imperialista, ovvero per attirare i paesi vicini nella sua sfera di influenza e garantirsi un pacchetto di voti ai vertici dell’Oea, l’Organizzazione degli stati americani che non ha mai votato una mozione di condanna delle pur numerose violazioni dei diritti umani in Venezuela. La parte del leone dentro a questo schema tocca a Cuba: dei 200 mila barili al giorno di petrolio venduti attraverso Petrocaribe, 100 mila hanno per destinazione L’Avana. Si calcola che dal 2005 ad oggi questo meccanismo sia costato alle finanze venezuelane la bellezza di 44 miliardi di dollari.

L’oppressione delle imprese
È interessante a questo punto stilare la mappa delle destinazioni del petrolio estratto dalle terre e dalle acque del Venezuela: 600 mila barili sono destinati al consumo nazionale, che come abbiamo visto è praticamente gratuito; 200 mila prendono la strada di Petrocaribe; altri 500 mila salpano per la Cina come pagamento in natura degli interessi su 50 miliardi di dollari di prestiti che Pechino ha fatto al paese sudamericano. Prendendo per buona la cifra di 2,5 milioni di barili estratti al giorno, per l’esportazione a prezzi di mercato restano solo 1,2 milioni di barili, il cui valore si è più che dimezzato negli ultimi sei mesi. Quest’anno potrebbero portare nelle casse statali soltanto 20 miliardi di dollari. Appena due anni fa le importazioni venezuelane valevano 77 miliardi di dollari, e già allora c’erano code davanti ai supermercati.
Penuria di merci, code ai negozi e apparizione del mercato nero dei prodotti come delle valute sono fenomeni ben noti di tutte le economie socialiste dogmatiche, ma in Venezuela li si attribuisce a un complotto antigovernativo che farebbe sì che le merci vengono tenute in magazzino in attesa di aumenti dei prezzi. Le grandi imprese della distribuzione ricevono continuamente visite fiscali che controllano i magazzini: nessuna è mai stata presa in castagna. Le ragioni per cui gli scaffali sono vuoti sono ben altre. Come ha dichiarato l’ex rettore dell’Università cattolica Andrés Bello, il gesuita Luis Ugalde, «quando lo Stato ha avuto risorse da investire, anziché aiutare le imprese produttive a migliorare la loro competitività, le ha rese deficitarie nazionalizzandole, come è successo con AgroIsleña o Sidor (due imprese, la prima dell’agroindustria e la seconda dell’acciaio, statalizzate da Chávez, ndr). Una cosa è dire “Dobbiamo essere produttivi”, e un’altra capire che non ci sarà produttività senza stimoli alla produttività. Se producendo molto io guadagnerò lo stesso che producendo poco, non mi sforzerò mai di produrre di più».
Spiega il consulente di un’impresa multinazionale che opera in Venezuela: «Le imprese devono rivolgersi al governo per ottenere i dollari necessari a importare nel paese mezzi di produzione o prodotti finiti, e il governo deve approvare la richiesta. Deve verificare che la merce non sia già prodotta a livello nazionale, poi decide se la quantità richiesta è accettabile e se l’importazione è prioritaria. Spesso vengono approvati quantitativi inferiori a quello che è stato richiesto. Se due imprese fanno la stessa richiesta, capita che solo una venga ritenuta prioritaria e approvata. Allora l’impresa che ha avuto il via libera vende in un batter d’occhio i suoi prodotti perché il concorrente non c’è, e gli scaffali restano vuoti. La gente si accaparra le merci temendo che il mese dopo non ci sarà più nulla». «Quando avete l’approvazione governativa, la storia non è finita», dice un altro consulente, che lavora per una compagnia aerea. «Con il nulla osta governativo dovete rivolgervi al Cadivi, l’ente che eroga materialmente la valuta estera per pagare le importazioni. In passato l’ente era corrotto, e assegnava valuta al cambio ufficiale a imprese fittizie che fingevano di importare ed esportavano i capitali. Adesso eroga i dollari col contagocce, perché le riserve si sono prosciugate. Le compagnie aeree a un certo punto hanno sospeso i voli, perché erano creditrici di milioni di dollari che avevano anticipato dalle loro amministrazioni all’estero».

Se si risveglia l’opposizione
Di fronte alle difficoltà governative, l’opposizione si sta rianimando. Per lungo tempo divisa fra i moderati del Mud (Tavola dell’unità democratica) capeggiati da Henrique Capriles e i radicali di Voluntad Popular, il cui leader Leopoldo López si trova in prigione da quasi un anno, l’opposizione ha ricominciato a manifestare unitariamente nelle strade dal 22 gennaio. L’obiettivo è vincere le elezioni politiche previste per la fine dell’anno in corso. È però a tutti chiaro che il Venezuela è in condizioni talmente precarie che non basterà un eventuale cambiamento di governo per evitare la catastrofe. Servirebbe l’unità nazionale, ma l’attuale dirigenza del partito socialista bolivariano creato da Chávez non appare disposta a una soluzione del genere.