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 2014  gennaio 24 Venerdì calendario

LA MORTE DI RE ABDULLAH

È morto il re Abdullah l’uomo forte del Golfo fedele alleato degli Usa
Riformatore, nemico di Al Qaeda, aveva 90 anni Al trono il fratello Salman, già governatore di Ryad
BERNARDO VALLI
RE ABDULLAH ben Abdel Aziz al Saud, morto a più di novanta anni nella notte del 23 gennaio a Ryad, era il decimo figlio di Abdel Aziz ben Abdel Rahman, conosciuto come Ibn Saud. Era nato nel 1924 (data approssimativa), prima ancora che il padre ampliasse con la spada i confini del deserto, ereditato come capo beduino, fino a creare l’Arabia Saudita attuale. La quale nel 1932 è diventata un Regno di cui lui, Ibn Saud, e cinque dei suoi trentasei figli (numero approssimativo) sono stati i sovrani. Il ventiseiesimo figlio, Salman ben Abdel Aziz, succede adesso, a 79 anni, ad Abdullah, ed è il sesto dei fratelli, meglio dei fratellastri, perché non figli della stessa madre, a salire sul trono.
Questo sommario albero genealogico rivela il carattere della monarchia saudita: ancora legata alla civiltà beduina dalla quale proviene, per quanto riguarda i riti della successione e dell’esercizio del potere, e al tempo stesso impegnata in un progresso lento, contrastato, ma evidente. Il re morto era l’espressione della doppia anima di quella che si può chiamare la tribù reale, essendo i discendenti di Ibn Saud (figli, nipoti, pronipoti) parecchie migliaia: senz’altro una delle più numerose ma anche delle più ricche famiglie del mondo, e tra le più potenti, poiché possiede un quinto delle riserve di petrolio, ed esercita un’autorità unica nella regione. Oltre ad essere uno dei più stretti alleati degli Stati Uniti.
Abdullah ha oscillato, a tratti con una velocità spericolata a tratti con timorosa prudenza, tra i principi di una società pastorale e quelli di una società impaziente di aprirsi al mondo, quello capitalista e consumista, ma anche religioso. Non democratico. Questo no. Le primavere arabe gli sono apparse pericolose insubordinazioni. L’hanno spinto a promuovere innovazioni sociali: aumento dei salari e costruzione di quartieri popolari. Ma anche a finanziare i militari egiziani, che prima hanno disperso l’insurrezione libertaria e poi hanno messo al bando i Fratelli musulmani. Una confraternita che Abdullah detestava. La sua visita in Vaticano ha sorpreso. Non aveva precedenti. Nessuno fino allora aveva immaginato possibile un incontro tra il custode della Mecca e il papa cattolico. Per l’Arabia Saudita è stato un sovrano riformatore, nei limiti consentiti dall’alleanza contratta dai Saud con la setta sunnita radicale degli Wahabiti, che risale al 18esimo secolo. Alleanza che ha contribuito in modo determinante alla nascita del Regno, e che i sovrani non possono trascurare.
La dottrina wahabita non si differenzia molto da quella del Califfato che occupa parte del territorio siriano e iracheno, e che ha fatto della pratica terroristica, estesa all’Europa, la sua naturale forma di lotta. Quando il Califfato (Stato Islamico) è emerso, l’Arabia Saudita si è chiusa in un silenzio tra l’imbarazzato e il compiacente. Col tempo però re Abdullah si è unito alla coalizione creata dagli americani contro il jihadismo in Siria e in Iraq. Cosi come ha condannato e combattuto Al Qaeda, dopo averla assecondata nella lotta contro i sovietici in Afghanistan, affiancandosi in quel periodo alla Cia americana. Abdullah ha sconfessato con forza gli attentati dell’11 settembre a New York, in cui erano coinvolti dei suoi sudditi. Lo stesso Bin Laden apparteneva a una potente e ricca famiglia saudita.
La stretta, storica alleanza con Washington, che risale ai tempi in cui alla Casa Bianca c’era Roosevelt, più che interessato al petrolio estratto a partire dal 1937, non ha impedito re Abdullah di condannare l’intervento americano in Iraq. Nel 2003 ha negato persino le basi che invece nella prima guerra del Golfo, ‘90-’91, l’Arabia Saudita aveva ampiamente concesso agli Stati Uniti. Benché accogliere un esercito di infedeli nel paese in cui c’erano La Mecca e Medina fosse considerata da non pochi musulmani qualcosa di simile a una bestemmia.
Il regno di Abdullah è stato ufficialmente abbastanza breve, appena dieci anni, dal 2005 al 2015. Ma egli ha governato molto più a lungo, come reggente, perché il fratellastro, re Fahd, era stato colpito nel ‘95 da un attacco cerebrale. Il meccanismo della successione al trono d’Arabia è singolare e misterioso. Anzitutto non è verticale come in gran parte delle monarchie. Non avviene di padre in figlio. È orizzontale, avviene infatti di fratello in fratello. Da qui l’età avanzata dei sovrani e dei principi ereditari. Il nuovo re, Salman, quasi ottantenne, fino a poche ore fa era il principe ereditario. E il successore a Salman, già designato, sarà il principe Muqrin, un altro fratellastro, il più giovane dei figli di Ibn Saud, che ha 69 anni. Poi si passerà ai nipoti, e il successore di Muqrin dovrebbe essere il principe Mohammed ben Nayef, il quale ha 55 anni, ed è attualmente ministro degli Interni.
Le sue sedici o più mogli Ibn Saud le sceglieva nelle tribù alleate o in quelle che sperava lo diventassero. L’harem rispecchiava la politica del grande capo beduino. E i figli delle varie mogli hanno creato dei clan, spesso in concorrenza: per cui i vari re erano e sono indicati anche sulla base delle madri. Abdullah era figlio dell’ottava sposa. Salman lo è della sesta, e della sesta è anche il nuovo principe ereditario, Muqrin. Come lo era re Fahd. L’affiliazione si estende ai nipoti, poiché la sesta sposa era la nonna del principe Nayef, il vice principe ereditario.
All’interno dell’ampia tribù reale starebbe dunque prevalendo un clan. Ma i criteri che regolano la successione sono molto più complessi. Dal 1953, quando è morto il fondatore del Regno, il trono passa da un fratello all’altro, ma la scelta non segue l’anzianità. Piuttosto il talento, dice la tradizione. Un principio abbastanza vago che dà spazio alle rivalità familiari. Re Abdullah ha creato sette anni fa un Consiglio della fedeltà, composto da una trentina di figli e nipoti di Ibn Saud. Ma sembra che quel comitato finisca con l’approvare il candidato del clan più forte, dopo lunghe trattative.
Il nuovo re, Salman, è stato a lungo, per quasi cinquant’anni, governatore di Ryad. E mi è capitato di assistere a una sua udienza. Mi è stato consentito in quell’occasione di rivolgergli alcune domande. Era in corso la guerra Iran-Iraq, nella seconda metà degli anni Ottanta, e naturalmente gli chiesi se sperava in una vittoria di Teheran o di Bagdad. La mia domanda era ingenua. E la sua risposta fu vaga. In realtà sperava che gli sciiti iraniani, aperti avversari del Regno sunnita d’Arabia, non vincessero. Ma non voleva neppure che il sunnita Saddam Hussein diventasse troppo potente. Infatti qualche anno dopo invase il Kuwait e si avvicinò minaccioso all’Arabia Saudita. Il principe Salman era già destinato al trono. La questione era l’età. Aveva poco più di cinquant’anni e poteva aspettare. Sembrava in buona salute. Ma sono passati alcuni decenni, quasi tre, e lui adesso è piuttosto malandato. Ed è difficile che abbia l’energia di accelerare le riforme che il fratellastro, figlio dell’ottava sposa, ha lasciato in sospeso. Inoltre è più conservatore di Abdullah.
La condizione femminile è un capitolo importante per giudicare il re defunto. Abdullah ha autorizzato le donne a lavorare come cassiere nei supermercati e ha nominato una donna vice ministro. Ha investito dodici miliardi e mezzo di dollari nella ricerca universitaria e le donne possono operare accanto agli uomini. Ma nonostante le promesse non hanno ancora il diritto di guidare un’automobile. Il re aveva annunciato elezioni municipali alle quali avrebbero potuto votare le donne. Ma il progetto è sfumato per opposizione delle autorità religiose. La sua grande eredità potrebbe essere il programma che prevede migliaia di borse di studio destinate a giovani, maschi o femmine, che vogliono andare a studiare all’estero. Ma il clan vincente, che ha designato principi conservatori come successori del nuovo monarca di salute malferma, non garantisce che quel programma venga realizzato come Abdullah si proponeva. E le autorità religiose emetteranno i soliti veti.
Nel rispetto della legge islamica, Abdullah non aveva più di quattro mogli per volta, e si era sposato almeno tredici volte. Ha lasciato sette figli, che occupano posti di rilievo nei governatorati e nella guardia nazionale. Tra le sue quindici figlie conosciute, una è una fisica molto rispettata, e un’altra è apparsa in televisione per difendere i diritti delle donne. Abdullah aveva ereditato il carattere guerriero del padre dal quale era stato educato come un beduino. Doveva correre a piedi nudi, cavalcare senza sella, e bere poco nel deserto. Nel quadro della società saudita appariva un uomo moderno, spesso costretto a piegarsi davanti ai religiosi e ai tradizionalisti.
È riuscito tuttavia a presentare alla Lega Araba un progetto per il riconoscimento di Israele, in cambio dello sgombero dei territori palestinesi occupati. Ha lasciato il paese in un momento particolarmente difficile. Nel vicino Yemen, considerato il cortile di casa, stanno prevalendo forze sciite ostili all’Arabia saudita. Per Ryad l’ipotesi che l’Iran, l’avversario principale, diventi una potenza nucleare non è del tutto svanita. E il Califfato, installatosi in ampie zone di Siria e Iraq, si pone al di sopra del Regno saudita, custode dei luoghi sacri dell’Islam. Oltre alla sfida militare c’è anche un affronto religioso.
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SOVRANO
Abdullah bin Abdulaziz: era salito al trono nel 2005, dopo la morte di re Fahd