Fabio Sindici, La Stampa 28/10/1956, 28 ottobre 1956
Vent’anni prima di Occupy Wall Street, migliaia di ragazzi arrabbiati si erano messi in marcia nelle vie della Downtown di Manhattan verso il New York Stock Exchange, allora come oggi centro e simbolo del potere finanziario globale
Vent’anni prima di Occupy Wall Street, migliaia di ragazzi arrabbiati si erano messi in marcia nelle vie della Downtown di Manhattan verso il New York Stock Exchange, allora come oggi centro e simbolo del potere finanziario globale. L’obiettivo erano i grandi gruppi farmaceutici quotati in Borsa, accusati di speculazioni sui prezzi dei medicinali anti-Aids. La «peste del secolo» aveva tagliato più vite a New York che in ogni altra città degli Usa. Era il virus che univa le persone in marcia. La rabbia e la paura facevano da collante. Nella seconda metà degli Anni 80, in America, le manifestazioni avevano preso un ritmo incalzante. I bersagli erano le istituzioni politiche, il potere economico, la Chiesa, i media: per il modo in cui si occupavano della nuova, terribile malattia. I cartelli portati nelle marce e gli sticker lasciati nella metropolitana rilanciavano slogan feroci e beffardi. Ideati e redatti da scrittori underground e dai collettivi dell’avanguardia artistica newyorchese dell’East Village e del Lower East Side. «Più che una guerriglia urbana, è stata una guerriglia semantica» spiega Tommaso Speretta, autore di Rebels Rebel (Ribelli, Ribelle) libro appena uscito che racconta la storia poco nota di una mobilitazione artistica e letteraria negli anni in cui del virus dell’Hiv si sapeva poco o niente, ma si cominciava a morire. In tanti. «È stata una mobilitazione contro il silenzio delle istituzioni, basti pensare che il presidente Ronald Reagan parlerà per la prima volta in pubblico di Aids nel 1987, sei anni dopo che i primi casi erano stati accertati e quando ormai negli Stati Uniti l’epidemia aveva già fatto 41 mila morti». Le prime reazioni nascono da associazioni spontanee, dai gruppi di auto-aiuto di persone colpite dal morbo che si trasformano in organizzazioni di attivisti come Act Up; e dai collettivi dell’arte underground quali i Gran Fury e i Group Material. Insomma, è la stessa storia, la stessa rabbia vista nel film Dallas Buyers Club, ma ambientata negli atelier degli artisti e nelle gallerie semiclandestine di Alphabet city. È appena arrivato sui canali Sky della televisione italiana il film The Normal Heart (Il cuore normale) con Julia Roberts, tratto da una commedia dello scrittore Larry Kramer, uno dei fondatori di Act Up. Mentre è in corso di produzione la seconda parte. Entrambi i film rievocano le lotte di quegli di anni. Sono le vicende che ritroviamo nel libro di Speretta. Che ha avuto un singolare percorso editoriale. Scritto in italiano, è stato stampato in inglese da una casa editrice belga, la Merpaper Kunsthalle. E ha trovato un distributore in America, dove esce in contemporanea all’Europa. Rebels Rebel mette a fuoco l’uso dell’arte come arma mediatica da parte delle avanguardie coinvolte nel movimento anti-Aids. L’ampia parte iconografica mostra le opere, i cartelloni, i video elaborati dai Gran Fury, dai Silence=Death Project, dagli artisti di Group Material e di Art Positive. Immagini che giocano su doppi sensi in equilibrio sul filo del rasoio. Come nel poster «He kills me» creato da David Moffet, con il volto di Reagan accanto a un bersaglio. Dove «kills» può essere inteso in due modi: mi uccide e mi fa morire dalle risate. Gli artisti di Gran Fury i giornali se li facevano da soli: stamparono quattro pagine negli stessi caratteri del Times, in cui tutte le notizie riguardavano l’Aids, mentre in testa alla prima pagina si leggeva: «New York Crimes». «È interessante vedere come questi metodi di interferenza con i media anticipino artisti pubblici di oggi quali Bansky, gli Adbusters e i collettivi legati al movimento di Occupy Wall Street», spiega Speretta. Erano drop-out, artisti marginali che, tra mostre e manifestazioni, ottennero il «quarto d’ora di celebrità», predetto da Andy Warhol. Le loro opere finirono in vetrina al New Museum di New York, nelle gallerie d’arte, l’Aids Timeline dei Group Material approdò alla Biennale del Whitney Museum, dopo essere stata oscurata a Times Square. Uno strano percorso, dalla piazza ai musei. «Gli stessi committenti si chiedevano se fosse arte o propaganda», dice Speretta. Certo non era arte disinteressata. «Quando un famigerato manifesto destinato alla Biennale che mostrava un pene eretto accanto a papa Giovanni Paolo II fu bloccato alla dogana italiana, i Gran Fury strillarono alla censura. In realtà erano felicissimi del clamore». L’opera fu esposta. Per paradosso, il movimento si esaurì per aver centrato il suo scopo. Le campagne sull’Aids negli Anni 90 venivano commissionate ad agenzie pubblicitarie, non più ad artisti infuriati. I collettivi si sciolsero. L’ultima opera dei Gran Fury è del ’95 e s’intitola Pink Slip, in cui i membri del gruppo annunciavano l’addio. Un’altra opera-poster dichiarò: «L’arte non è sufficiente». Però aveva acceso le luci, scatenato qualche cortocircuito. Ora l’arte degli arrabbiati, tutta tesa al presente, torna nei libri e nei film che ne evocano la memoria.