Roberto Giardina, ItaliaOggi 23/12/2014, 23 dicembre 2014
GLI SBERLEFFI DEGLI AMANUENSI
Berlino
Dobbiamo il nostro patrimonio culturale agli amanuensi del Medioevo. Chiusi nei loro monasteri, monaci infaticabili trascorrevano la vita a copiare codici, a salvare manoscritti dall’oblio, combattendo contro il tempo. Ci hanno lasciato pagine miniate, iniziali trasformate in capolavori. Quanti giorni, quanti mesi per una sola gigantesca «A» o una «M» a inizio della pagina? Quanti anni per un intero testo?
Per copiare una Bibbia occorreva almeno un anno di lavoro ininterrotto, senza pause, riposi, giorno dopo giorno. È il mondo de «Il nome della rosa» di Umberto Eco.
Al liceo, quando le professoresse d’italiano cercavano di strapparci una parola di riconoscenza e di ammirazione per l’opera degli amanuensi, c’era sempre qualcuno che commentava sottovoce: «Ma tanto non avevano niente da fare». Nei conventi stavano al caldo, avevano da mangiare, fuori infuriavano le guerre, imperversava la carestia. Vero, ma a stare con la penna d’oca sempre in mano, si annoiavano. Nelle celle faceva freddo, l’inchiostro non fluiva limpido e la cartapecora non sempre era stata tirata bene, cosparsa d’imperfezioni, di peli, di grumi.
«E loro cercavano di distrarsi», dice lo storico Erik Kwakkel, dell’Università di Leiden, in Olanda, che ha studiato al microscopio centinaia di manoscritti eseguiti in Inghilterra, tra il 1075 e il 1150, da monaci provenienti in genere dalla Normandia, facendo straordinarie e divertenti scoperte. In lettere minuscole, che sfuggono a una lettura distratta, un monaco ha aggiunto sul margine di una pagina «Quest’opera è finita, maestro, dammi qualcosa da bere». Se il maestro se ne fosse accorto, invece d’un boccale di birra o di sidro, l’avrebbe spedito in cella per una lunghissima penitenza. O quel maestro se ne accorse, e si limitò a un sorriso complice. Di sicuro, si annoiava pure lui.
Gli amanuensi passavano il tempo a disegnare negli angoli faccette buffe, gnomi che mostravano la lingua, o il sedere, al futuro lettore. E spesso cambia la mano e l’inchiostro: un decennio o un secolo dopo è il lettore a profanare il testo con commenti e disegni profani per vincere a sua volta il tedio dello studio. Il fatto, per la verità, era noto agli esperti, ma lo studio di Kwabbel è il primo ad occuparsi a fondo dei capricci e scherzi degli amanuensi. «Si comportavano esattamente come noi, quando, durante le riunioni e le assemblee, all’Università, o nei consigli di amministrazione, ascoltiamo discorsi inutili e interminabili. Ci sfoghiamo a tracciare scarabocchi sui taccuini, o a fare la caricatura dell’amministratore delegato». «Era importante la cosiddetta “probatio pennae”», spiega lo storico, la prova del pennino, per verificare la qualità dell’inchiostro, e dato che la pergamena era preziosa, il monaco compiva il controllo sull’ultima pagina che restava in bianco».
La prova si trasformava in una sorta di firma del monaco che personalizzava il suo lavoro, destinato altrimenti a rimanere anonimo. E lo stesso, ha scoperto Kwakkel, avveniva nei monasteri di Utrecht in Olanda, o a Colonia. «In un certo senso, continua il professore, eseguivano quel che oggi chiameremmo un selfie. Invece di firmare la loro fatica, nascondevano un loro minuscolo autoritratto in un fregio, nella miniatura d’una lettera, o nel testo. La stessa faccetta tramandava ai posteri la laboriosità di un amanuense. Non conosciamo il suo nome, ma riconosciamo la sua mano beffarda». O lanciava tra le righe messaggi pubblicitari: chi desidera un libro così magistralmente copiato venga da me a Parigi, di fronte alla Cattedrale di Notre Dame_
Un anonimo amanuense che non condivideva il testo che era obbligato a copiare, ha inserito la sua critica definendo l’autore men che mediocre. Un altro critica una cattiva traduzione, e non si trattiene da aggiungere la sua versione: «Ecco come avrei tradotto io». Molti monaci, dice Kwakkel, erano tenuti al voto del silenzio, e quelle parole sono una specie di grido d’aiuto, l’unico modo di esprimere il proprio pensiero: ecco sono qui, esisto anch’io.
Roberto Giardina, ItaliaOggi 23/12/2014