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 2014  dicembre 21 Domenica calendario

IL MIO ULTIMO NATALE IN DIVISA

Era l’ultima occasione per vivere l’esperienza di un Natale in divisa. Nei primi giorni del mese di gennaio del 1960 l’Esercito mi avrebbe congedato e sarei tornato a indossare panni civili, a meno che non scoppiasse la terza guerra mondiale. Ma anche lì: eravamo in grado di reggere un attacco dall’Est per un quarto d’ora al massimo. Desideravo un Natale in divisa per avere un ricordo da contrapporre a quelli di mio padre. Classe 1911, sergente maggiore di artiglieria alpina, era stato su vari fronti e l’aveva sempre scampata. E ora, al termine di ogni pranzo natalizio, attaccava con la solita musica: «Vi ho mai raccontato dei miei Natali di guerra?».
Avrei avuto diritto anch’io ai miei cinque natali di guerra: il 10 giugno del ’40 avevo appena compiuto tre anni e stavo per compierne otto il 25 aprile ’45. Solo che i miei si erano guardati bene dal farmelo notare, nell’intento di tenermi lontano dalle brutture della vita. Dovevano mettermi sull’avviso: prendi un quaderno e segnati tutto, così quando avrai figli e nipoti al termine del pranzo di Natale li potrai sfinire con le tue rievocazioni. Noi bambini sentivamo il respiro della guerra solo d’estate, in campagna, quando la zia prometteva: «Se fate i bravi questa sera vi porto in collina a veder bombardare Torino». In mancanza di meglio, potrò raccontare un Natale in divisa.
GREGARIO PER NATURA
I miei colleghi erano stati lieti di cedermi il turno per trascorrere la festa a casa. Ero fatto per la vita militare; gregario per natura, oppresso dal senso del dovere, era un piacere impagabile ubbidire a ordini insensati. Far girare a vuoto i gruppi elettrogeni per consumare gasolio al fine di evitare che l’anno prossimo ce ne assegnassero una quantità minore. Allenare la mia squadra per arrivare a montare in meno di 15 minuti un cannone da 40 millimetri, il tempo impiegato da un caccia avvistato su Parigi per arrivare sul cielo di Milano. Qualcuno insinuava che negli Stati Uniti impiegavano già i missili terra-aria ma, si sa, sugli americani se ne dicono tante. Del pollo arrosto scelgo l’ala perché mi fa tornare al tempo felice della scuola di artiglieria contraerea di Sabaudia e al suo motto: «Contro l’ala nemica mi addestro e tempro».
Quel mattino di Natale ho celebrato un vera cerimonia degli addii. Addio alla bella città di Lodi, addio al XVII Reggimento; ufficiale di picchetto, ho potuto ispezionare i corpi di guardia e tutti gli anditi della caserma. Ho tenuto per ultimo l’addio più commovente, alle sponde alberate dell’Adda in uscita da Lodi, uno dei più bei paesaggi del mondo (Pasolini docet). Pedalavo nella nebbia in bicicletta lungo lo stretto sentiero che rasenta la sponda, sfiorando arbusti bianchi di brina. Il pretesto era l’ispezione al corpo di guardia di stanza alla polveriera del reggimento, collocata in mezzo ai campi per limitare i danni di un’esplosione. È Natale anche alla polveriera: la sentinella di turno dorme accucciata nella sua garitta. Riesco a sfilare via il suo fucile Garand e a nasconderlo dietro un albero; con una scampanellata sveglio l’artigliere. Mi godo la sua espressione di terrore quando si accorge che gli hanno rubato l’arma e poi gliela restituisco. È il mio regalo di Natale: non c’è felicità maggiore di uno scampato pericolo.
Fiero del mio bel gesto, ritorno in caserma per il pranzo; siamo in pochi alla mensa ufficiali, seduti attorno a un unico tavolo. Si rievocano i momenti di gloria dell’anno che sta per finire, il servizio d’ordine a Milano per le celebrazioni del centenario della seconda guerra d’indipendenza, con l’incontro fra il generale De Gaulle e il nostro Giovanni Gronchi, mezzo metro più in basso, l’alto onore fatto al nostro comandante affidandogli il delicato incarico di presiedere alla collocazione delle fioriere lungo il percorso della sfilata. Alle 15 fa il suo ingresso alla mensa ufficiali il vice comandante, un uomo mite e triste come tutti i tenenti colonnelli. Domanda: «C’è qualcuno di lor signori che sa giocare a Monopoli?». «Io», ho risposto, ansioso di compiacerlo. «Bene, si presenti fra mezz’ora nell’alloggio del colonnello comandante».
SFIDA A MONOPOLI
Suono, l’attendente mi apre e mi accompagna in sala da pranzo; sul tavolo di legno scuro c’era già il tabellone di Monopoli aperto e i soldi di carta divisi in quattro parti. Seduti attorno al tavolo, in attesa del mio arrivo, c’erano il signor colonnello, il triste suo vice e la figlia del colonnello, una bambina magra, bruna e scura di carnagione, di sei o sette anni, che il nostro comandante aveva avuto in età avanzata e per la quale stravedeva. Nei pomeriggi domenicali il papà insegnava alla bambina a guidare il 1100 in dotazione facendola sedere sulle sue massicce ginocchia e impugnare il volante; in quelle ore, se proprio si doveva attraversare il cortile, lo si faceva correndo dopo aver detto una preghiera. Di fronte al colonnello sono scattato sull’attenti; lui ha accennato col capo al posto ancora vuoto. Mi sono seduto di fronte alla bambina e, senza che tra noi fosse scambiata una sola parola, abbiamo incominciato la partita.
GIOCHI TRUCCATI
Il colonnello e il suo vice si comportavano da novellini e la bambina faceva quello che poteva. Io, se gioco, è per vincere. Monopoli incarna gli spiriti animali del capitalismo, devi far fallire i concorrenti. Dopo meno di un’ora, stavo contando le 75 mila lire per comprare il Parco della Vittoria e il Viale dei Giardini e dare la mazzata finale, quando, alzando lo sguardo, ho incrociato quello del tenente colonnello con un messaggio inequivocabile: doveva vincere la bambina, la figlia del comandante! Ho dissipato una fortuna ma ce l’ho fatta, la piccola ha vinto. Se anche qui i giochi sono truccati, ho pensato in quel momento, tanto vale ritornare alla vita borghese e non avere rimpianti.
Bruno Gambarotta, La Stampa 21/12/2014