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 2014  dicembre 21 Domenica calendario

MICHEL PICCOLI

Arriverà? Non arriverà? Jane Birkin non lo sa. Michel Piccoli avrebbe già dovuto essere seduto qui, nella grande cucina di casa sua. Tutti e tre avremmo dovuto anche parlare dello spettacolo Gainsbourg poète majeur — letture di canzoni come poesie, dal 28 febbraio al primo marzo 2015 in scena a Solomeo nel teatro di Brunello Cucinelli — ma non si è ancora visto. «Mi ha chiamata ieri, gliel’ho ricordato, speriamo bene». Finalmente suonano alla porta e il meraviglioso signore, il più leggendario degli attori, l’ultimo testimone di un cinema europeo che non esiste più, fa il suo ingresso in casa Birkin.
È arrivato a piedi, e con questo freddo e a quasi novant’anni (ottantanove tra una settimana), attraversare due ponti — Birkin abita sulla rive gauche, lui sulla droite, tra loro c’è un’isola sopra la Senna — non è impresa facile. Tutto bene? «Perché mai dovrebbe andare male?» risponde sfilandosi l’elegantissimo trench. Deve avere attraversato i ponti con classe, con leggerezza, con calma, proprio come in settant’anni di carriera ha attraversato almeno tre centinaia di personaggi. Di lui, oggi, fa ancora impressione l’imponenza. Da un uomo così non ci si aspetterebbe discrezione. Invece Piccoli è sempre stato un grande timido, un pudico, un eterno meravigliato. Un uomo segreto, perfetto per registi grotteschi e surreali — da Ferreri a Buñuel — ai quali quel suo candore apparente ha reso grande servizio. «Non sono timido», dice, «sono impressionato. Quando parlo con qualcuno che mi sembra eccezionale, e può accadere, sono l’uomo più modesto possibile.
E molto attento». Considerando che la sua lunga carriera è stata piena di incontri con uomini straordinari, deve aver passato una vita in silenzio. «No, non è vero, ho anche molto parlato, ho cercato di andare d’accordo con tutti».
Del passato è difficile chiedere. I ricordi sembrano troppo lontani. Nel momento in cui parla Piccoli è lucidissimo, poi fa una pausa e chiede: «Che cosa stavo dicendo?», come se la frase appena detta si cancellasse all’istante dalla sua memoria. «È molto complicato, nella mia testa è molto complicato» ripete spesso. E d’altra parte, perché mai chiedergli de Il disprezzo di Godard, accanto a Brigitte Bardot, che nel 1963 lo consacrò tra i grandi? Perché farlo parlare dei sei film — da Bella di giorno a Il fascino discreto della borghesia, fino a Quell’oscuro oggetto del desiderio — girati con Buñuel? Dei tanti con Ferreri, La grande abbuffata inclusa, e anche Dillinger è morto fondamentale nella sua carriera? E di Claude Sautet del quale negli anni Settanta è stato l’ acteur fétiche? Del Salto nel vuoto di Bellocchio che nell’80 gli valse l’unica Palma, quella al migliore attore, a Cannes? Di Oliveira, Malle, Chahine, Ruiz, Anghelopulos, Resnais? Di tutti loro sappiamo già molto. Questa sera Piccoli segue percorsi mentali propri, recita a soggetto in quel modo non attoriale che lo ha reso il gigante che è.
«Non vivo giorno per giorno, me ne frego. Non so quando morirò, non so perché ho vissuto. Anzi, lo so, ma non lo dirò. Ho lavorato tutta la vita e lavorando non ho mai saputo che anno fosse. Capisce? Quando lavoro dimentico le date, il tempo non mi interessa. È così da sempre». Ma, anche se nel 2012 ha girato tre film (Resnais, Ruiz, Carax) e l’anno scorso un altro (del giovane belga Thomas de Thier), ricorda il suo ultimo grande ruolo in Habemus Papam di Nanni Moretti? «Ho interpretato tutti i ruoli allo stesso modo, uno vale l’altro. Non sono mai stato totalmente un personaggio, ho sempre recitato con umorismo e con una certa distanza. Quando un attore fa l’attore non mi piace. Quando l’attore è troppo serio, troppo solenne, diventa presuntuoso. Insopportabile». Recita con umorismo anche un ruolo tragico? «C’è umorismo in tutte le opere, anche nelle tragedie, vous comprenez? ». Anche nei suoi ultimi grandi ruoli teatrali? Nel Re Lear ( 2006-2007)? Nel vecchio Minetti ( 2009) seduto sulla sua valigia in una notte di Capodanno, aspettando invano un direttore di teatro e un ultimo ruolo? «Che cosa fa di tragico Minetti?». Muore. «E allora?». E allora... «Il registro di un attore cambia tutto il tempo, non resta sempre tragico o comico. Con registi contorti come Buñuel e Ferreri si rischiava di essere parodie d’attori. Non ci sono regole per recitare, ma io ho praticato la distanza, l’umorismo, la follia e anche una certa severità. In tutti i ruoli, in cinema e in teatro, è la replica dell’altro che ho rispettato. In scena o sul set siamo sempre stati più di tre: l’autore, il regista, io e il mio o la mia partner. L’attore che pensa di essere solo, di essere l’unico, può essere bravissimo, ma per me non lo è. Ci sono attori talmente attori, talmente meravigliosi, che fanno schifo. Puoi dire (e imposta la voce, ndr) “Vado ancora a prendermi del dolce cara, ne vuoi un po’?”, e allora che fai? Ridi!». Tutti i registi hanno capito il suo umorismo e la sua follia? «Se non lo capivano cambiavo film». Era facile con Ferreri? «Molto facile, meravigliosamente facile». E con Sautet? «Era difficile per lui. Sautet era sempre angosciato. Diceva: e adesso come faccio? Difficile lavorare con un regista che non è sicuro di come fare». Hitchcock? Difficile? «Con lui ho fatto un solo film, ma non ne ricordo il titolo ( Topaz, 1969, ndr) credo che sia stato uno dei meno riusciti». Oliveira? «Talmente meraviglioso da non risultare mai difficile. E comunque alle volte i registi difficili sono così intelligenti che capisci comunque quello che devi fare».
Una vita piena di teatro e di cinema, di vita vera — con tre mogli: l’attrice Eleonore Hirt madre di sua figlia Anne-Cordelia, poi Juliette Greco dal ‘66 al ‘77 e infine la sceneggiatrice Ludivine Clerc con la quale ha adottato Missia e Inord — e anche di impegno politico. Ancora oggi Piccoli fa campagna per i socialisti, per la Siria, contro il Front National e per Amnesty. In una delle sue autobiografie Greco dice che il vostro matrimonio finì per noia. Si sente un uomo noioso, signor Piccoli? «Era lei che si annoiava, ma non credo che mi abbia sempre trovato noioso. Comunque se ne andò lei. Mi lasciò. Era tanto tempo fa, ma me lo ricordo ancora». È bello avere una vita lunga? «È fondamentale. Le persone, più o meno meravigliose, che ho conosciuto e che sono morte giovani... è stato un errore. Se muori molto vecchio, come me, e in buona salute, come me, allora è perfetto». Che cosa vorrebbe ancora recitare in teatro? «Adesso?». Ci pensa un po’, sta per dire qualcosa. Si ferma. «No, comunque è finita. Capisce? Teatro finito, cinema finito». Non ne ha più voglia? «Non sono io, sono le assicurazioni che non hanno più voglia. È pericoloso assicurare un attore vecchio. Potrebbe morire. E se si ammala durante le riprese? Un regista può anche lavorare da vecchio. Oliveira ha più di cent’anni, ma se si ammala c’è sempre l’aiuto regista che continuerà il suo lavoro». E che cosa fa un attore se non recita? «Può accadere che scriva». Un romanzo? «Non lo so ancora, lo sto scrivendo. Sarà un romanzo? Una farsa? Sarà inutile? Allora lo strapperemo». Triste senza la scena? «Non sono triste. È così. È un mestiere molto difficile, ma sono sempre stato felice di farlo. Ho avuto la fortuna di recitare talmente tanto, ho talmente lavorato... certo se potessi continuare lo farei, ma non posso. È finita, e basta così». Lo spettacolo su Gainsbourg, allora? «Dura poco». Veramente vorrebbero poi farne una tournée nel 2015. «Troveranno qualcun altro».
Laura Putti