Luca Valtorta, la Repubblica 21/12/2014, 21 dicembre 2014
NATALE IN CASA LIGA
[Intervista a Luciano Ligabue] –
CORREGGIO (REGGIO EMILIA)
Quelle foto di Ghirri fatte di nebbia e di mistero con quel cielo così grigio e case con giardino dalle porte che si aprono sul nulla. A Correggio alle due del pomeriggio un sole malato filtra giallino da nuvole pallide. Corso Mazzini è deserto, tutto sembra come sospeso. Stacco. Luciano Ligabue cammina in un panorama di devastazione. Tutto è distrutto: l’officina, la catena di montaggio, il reparto verniciatura. E poi, passando dalla fabbrica agli uffici, il laboratorio, le “risorse umane”, persino la direzione generale con ancora le tende alle finestre. Ogni cosa è rimasta congelata al momento in cui tutto è finito.
Delocalizzazione, chiusura della piccola e media impresa d’eccellenza: sono stati anni terribili. Non è solo un videoclip quello de Il muro del suono, la canzone che apre Mondovisione, il tuo ultimo disco...
«Il fatto è che non ce la facevo più a tacere, per troppi anni mi sono censurato, e così ci sono almeno due brani saturi di questo stato d’animo in Mondovisione: Il muro del suono e Il sale della terra. Il videoclip de Il muro del suono, quello della fabbrica abbandonata, congelata, l’abbiamo girato nelle Reggiane. Una fabbrica che nei suoi tempi migliori dava da lavorare a venticinquemila persone. Enormi fabbricati in cui venivano costruiti anche aerei, treni. Sono lì a languire dagli anni Novanta… La canzone verso la fine dice una cosa chiara: “Chi doveva pagare non ha mai pagato”. Oggi la gente paga scelte fatte da altri. E non capisce perché il mondo sia andato nella direzione opposta a quella che credevamo possibile».
Qualcuno dirà: cosa ti immischi, lascia stare la politica, continua a fare canzoni d’amore.
«Credo invece di aver sbagliato a darmi dei limiti in precedenza. L’ho fatto perché la gente è già molto arrabbiata, ma era inevitabile che le tensioni sociali esplodessero. E comunque non voglio rassegnarmi alla rassegnazione».
Edmondo Berselli, modenese, sosteneva che il segreto del successo non solo economico dell’Emilia Romagna fosse la Cultura, quella con la C maiuscola. Aveva ragione?
«Ti dico solo questo. Quando avevo tra i quindici e i vent’anni a Reggio Emilia nascevano le radio libere e tu potevi farne parte: non c’era alcun filtro. I cantautori erano al loro meglio e gli artisti internazionali più importanti, da Dylan a Neil Young, passavano di qui. Qui Benigni sollevò Berlinguer alla Festa de l’Unità. Gli ospedali, le scuole, gli asili funzionavano. C’era una grande forza popolare che stava dietro una grande idea: quella che fosse possibile cambiare le cose in meglio. Oggi dire “comunista” sembra una parolaccia. Ma io resto fermo a Gaber. In Qualcuno era comunista , canzone che dovrebbero insegnare nelle scuole, diceva: “Qualcuno era comunista perché sapeva che poteva essere felice solo se lo erano anche gli altri”. Ecco: io mi sono formato su quelle parole lì, e oggi non riesco a nascondere la mia disillusione».
Tu l’hai conosciuto Berselli, vero?
«Mi aveva fatto un’intervista per l’ Espresso . Mi raccontò che si trovava spesso con gli amici a suonare. Mi fece un appunto su un accordo di Certe notti perché non gli tornava del tutto».
E Tondelli? Anche lui era di Correggio.
«Per parecchi anni ho scritto canzoni troppo influenzate dai cantautori, canzoni che non mi appartenevano, brutte canzoni. Poi un giorno esce Altri libertini, un libro straordinario. Lì capisco che anche un angolo di paese poteva diventare così importante da finire in un libro. Fu un’illuminazione. Ecco quello che dovevo raccontare: le cose che avevo sotto gli occhi. La mia prima canzone incisa si intitolava Sogni di rock’n’roll, ed è il racconto di un mio sabato sera».
Come ci riuscisti?
«Grazie a un altro personaggio straordinario, altro emiliano, Pierangelo Bertoli. Non lo conoscevo. Lo cercai sull’elenco: Sassuolo, Bertoli Pierangelo. Il numero lo fece Claudio Maioli, che poi sarebbe diventato il mio manager, io mi vergognavo. “C’è uno bravo che fa delle canzoni, possiamo venire a fartele sentire?”. Mi disse te brev, sei bravo. A quel punto cominciai a crederci».
Un altro di queste parti: Pàvana, Guccini.
«Verso i grandi si provano sentimenti come stima e ammirazione, a Guccini si vuole anche bene».
Hai appena fatto un duetto di quelli veri, non le solite cose a tavolino con un altro grande, Francesco De Gregori.
«Avevo dodici, tredici anni quando uscì Alice . È un classico anche nel suono, negli arrangiamenti, non puoi rifarla se non stravolgendola. Francesco ha deciso di usare due chitarre e con il tempo in tre, come se fosse un valzer, quindi stravolgendone anche l’idea ritmica. Ha avuto coraggio e sono contento che sia andata così bene. De Gregori viene immediatamente associato ai suoi testi ma in realtà nel suo lavoro c’è moltissima ricerca armonica. La donna cannone è un pezzo armonicamente molto complesso. Solo le grandi canzoni da complesse diventano semplici all’orecchio della gente».
Altri artisti con cui hai un rapporto particolare?
«Mi ha fatto piacere quando abbiamo fatto “Italia Loves Emilia” per raccogliere fondi, fare una versione di Tex molto aspra con i Litfiba e vedere Piero come ai bei tempi. Con Jovanotti ci messaggiamo. Però, ecco, c’è stima, c’è rispetto ma non è che ci vediamo tutti i giorni, ognuno ha le sue cose da fare».
La musica,e il calcio. Com’è che tifi Inter?
«Perché quando ero bambino stava vincendo tutto, io però mi sono beccato poi i quarant’anni di buio fino al 2010, un anno straordinario in cui finalmente è tornato a vincere: ero commosso. Ancora oggi riesco a farmi guastare l’umore alla domenica. Lo so, è pazzesco, ma non c’è niente da fare».
Giochi ancora?
«No, saranno tredici anni che non gioco più. Ho chiuso in bruttezza, lo dico con rammarico. Un giorno vado a Torino a presentare un libro, mi chiama Baricco: “So che sei qui. Devi venire a giocare con la Nazionale scrittori, non hai scuse”. Penso: “Non saranno dei grandi atleti”. E invece: la peggior partita della mia vita. Non ho toccato palla e quando l’ho toccata l’ho toccata male. Ho capito che era ora di smettere».
Suoni davanti a decine di migliaia di persone: è difficile salire su un palco?
«Quella per me è la parte più bella, più gioiosa. Come posso spiegare? Lì emerge una parte di me che mi sorprende. Mi sento a mio agio, mi sembra di essere tornato a casa, mi fa star bene per giorni e giorni. Fosse per me suonerei tutte le sere».
Perché oggi tra i più giovani nessuno riesce a catalizzare l’attenzione?
«Io sono stato fortunato: nel 1990 ho firmato un contratto con una multinazionale che ha detto “io mi impegno con te con tre album, se non va bene il primo proviamo col secondo eccetera”. Vuol dire che c’è un investimento a lungo termine. Oggi è impensabile, si va avanti di singolo in singolo, non ci sono investimenti sulla produzione e quindi come fai a farti conoscere tra le migliaia di cose che escono ogni mese?».
Oggi i tuoi amici sono gli stessi di allora...
«Sì, con uno ci conosciamo da quasi cinquant’anni. Con altri dalle medie. Abbiamo affittato una casa in campagna con un biliardo e un calciobalilla, ci troviamo a giocare a carte e quasi ogni venerdì a cena».
Ma quando scendi dal palco cosa succede? Non senti un senso di vuoto?
«Per me la cosa difficile è quando finisco il tour, non ho ancora un nuovo progetto davanti e gli amici sono tutti al lavoro. E poi per quanto tu abbia esperienza non sai mai se le tue canzoni verranno apprezzate perché la ricetta non c’è».
Hai cambiato look: capelli grigi senza preoccuparti dell’iconografia da rockstar che vi vorrebbe eternamente giovani...
«Mi ero rotto i coglioni di tingermi i capelli e di sentire gente che mi diceva “ma sai che in quella trasmissione si vedeva, erano un po’ rossi”. Il culmine è stato quando mi sono presentato a casa con i capelli giallastri e mia moglie è quasi svenuta. Lì ho detto basta. Comunque giuro: non lo facevo per vanità. Solo per una sorta di senso del dovere nei confronti del rock».
“È un Natale molto duro, sembra vuoto dentro”, dice un’altra canzone del disco… «Quella canzone parla di un fatto personale ma comunque sì, la lettura si può allargare, non c’è dubbio. Le feste però sono tali proprio perché possono aiutare, anche se per un breve periodo, a cambiare un po’ l’atmosfera. Ben sapendo che la soluzione ai problemi non passa mai di lì».
Luca Valtorta, la Repubblica 21/12/2014