Emanuela Audisio, la Repubblica 21/12/2014, 21 dicembre 2014
“VINSI PER FIDEL E PER IL POPOLO MA SOLO CON I SOLDI DELL’AMERICA IL NOSTRO PAESE TORNERÀ A CORRERE”
[Intervista a Ana Fidelia Quirot] –
Tormenta del Caribe, così la chiamavano. Perché quando piombava sul traguardo degli 800 metri era la tempesta perfetta. Ci scherzava: sono il vento del popolo.
Già il nome diceva tutto: Ana Fidelia. Il resto con l’oro al collo lo aggiungeva lei: «Para mi y para Fidel». Ana Fidelia Quirot correva gli ottocento come un soldato corre a piantare la bandiera sulla collina. Con forza, volontà, senso del dovere. Era la rivoluzione cubana in pista, il simbolo di uno sport che voleva essere diverso. Una delle pochissime a scendere sotto il minuto e 55 secondi.
Una companera vincente: 39 successi consecutivi dall’87 al ’90.
La versione femminile di Alberto «Caballo» Juantorena. Poi nel ’93 non si sa se per disgrazia o voglia di farla finita (era incinta di Javier Sotomayor, saltatore in alto), la cucina a cherosene le scoppia in faccia. Ana è una torcia, ha l’incendio sul corpo, all’ospedale scuotono la testa: «Questa non ce la fa». Fidel Castro corre da Ana, lei tutta incerottata gli chiede: «Correrò di nuovo?». Lui sorride, i medici sono più chiari: «Prima bisogna non morire ». La sua bimba di sette mesi nasce, ma non sopravvive. Dopo 21 operazioni Ana torna in pista, gareggia all’estero, ringrazia la grande scuola medica cubana che l’ha salvata, al rientro viene ricevuta da Castro che l’abbraccia: «Sei stata coraggiosa ». Lei gli mette la testa sul petto e piange. Ana Fidelia ha dato l’addio allo sport nel duemila. Oggi a 51 anni è madre di due figli, si è risposata con un italiano, ha un incarico nella commissione nazionale di atletica cubana.
Ana cosa pensa del disgelo?
«Quello che pensano tutti i cubani. Sono a l’Avana e le facce sono contente. E’ una cosa buona, ci porterà possibilità. Non so quando veramente finirà l’embargo, nel senso che ora il congresso Usa lo dovrà approvare, ma per quello che riguarda lo sport di alto livello noi siamo abbastanza stremati e sofferenti. Nel mondo è cambiata la tecnologia, i materiali, la metodologia, l’assistenza sanitaria agli atleti. E noi in questo restiamo penalizzati. Non si fanno più allenamenti di sera, per risparmiare la luce, nel baseball non ci sono palle di ricambio, mancano i guantoni, non abbiamo piscine per il nuoto, la nostra attrezzatura è scarsa. Non ospitiamo nemmeno più gare e manifestazioni. Certo abbiamo scuola, tradizione e predisposizione sportiva. Ma ora le nuove generazioni hanno la possibilità di avere un futuro».
Altrimenti c’era la fuga?
«Sono scappati tanti campioni, tanti talenti sono fuori. E anche tanti tecnici. Anche se da più di un anno c’è la possibilità di poter chiedere il passaporto e passando attraverso Cuba Deporte, agenzia di Stato, di andare a giocare all’estero, versando il 66% dei propri contratti. Il baseball emigra soprattutto in Messico e in Giappone. La boxe ha aperto al professionismo. Ma al cubano piace restare a casa, un po’ come all’italiano. Bisogna solo metterlo in condizione di poter essere competitivo».
Cuba ai Giochi di Londra è finita 16esima, un declino inarrestabile?
«No. Perché ha migliorato Pechino, 28esima. Anche se a Mosca nell’‘80 finimmo quarti e quinti a Barcellona nel ‘92. Altre isole caraibiche come la Giamaica hanno trovato un’eccellenza sportiva. Lo sport di alta prestazione non sopravvive con il romanticismo, ma se hai a disposizione laboratori, strumenti, soldi per comprare medicine, per curare i tuoi atleti, per aiutarli a recuperare. Lo dice una che ha perso due Olimpiadi, Los Angeles ‘84 e Seoul ‘88, per la decisione del suo paese di boicottarle».
Yasel Puig, nazionale di baseball, è scappato cinque volte e nel 2012 ha firmato per i Dodgers un contratto da 124 milioni di dollari.
«Io devo tutto a Cuba e alla sua medicina. Quando ho avuto l’incidente sentivo un odore di gomma bruciata. Solo che era la mia pelle. Avevo tanta sete. Il 38% del mio corpo era bruciato. Ustioni di terzo grado: sullo stomaco, sul collo, sotto le braccia. Ero un orrore. Avevo 29 anni. Quando mi hanno dato uno specchio ho urlato: dovevate farmi morire. Le mani sono ancora accartocciate, le braccia sono una piaga, il collo è devastato. Ma mi hanno salvata, mi sono stati vicini, con grande competenza. Per far ripartire lo sport abbiamo bisogno di finanziamenti. Come facciamo se i premi in denaro che vinciamo nei tornei americani vengono congelati? Non ci si può allenare sempre facendo a meno di qualcosa. Fìdel credeva nello sport, lo aiutava, oggi il disgelo potrà aiutarci a far andare più veloce il motore della nostra gioventù. Ad aprire canali commerciali e rimesse dall’estero».
L’embargo ha tolto o dato medaglie a Cuba?
«Tutte e due. Ci ha dato orgoglio e rabbia. Io sono tornata a correre solo per quello. Perché tutti dicevano che sarebbe stato impossibile. Il senso della sfida, della diversità, il grande pugile Stevenson che rifiuta cinque milioni di dollari per l’amore di otto milioni di cubani, quello dobbiamo continuare ad averlo. È la motivazione che ci ha fatto volare. E io voglio che l’America rispetti questa nostra storia. E’ giusto aprirsi, ma senza annacquarsi. Però lo sport oggi ha un mercato e se vogliamo starci con la nostra qualità dobbiamo avere rapporti, confrontarci, misurarci».
Qual è stato il sacrificio più duro sotto l’embargo?
«Essere soli. Andare a competere all’estero come cani randagi. Gli altri atleti avevano figli, mariti, sorelle, famiglie al seguito. Per loro le manifestazioni sportive erano un’avventura in comune. Noi non avevano soldi per pagare i biglietti ai nostri cari, per poter condividere un viaggio, non c’erano le possibilità. Ogni medaglia è stata nostra, ma solitaria».
Emanuela Audisio, la Repubblica 21/12/2014