Nicola Piovani, Domenicale – Il Sole 24 Ore 21/12/2014, 21 dicembre 2014
L’ANIMA DEL DIALETTO
La canzone dialettale, popolare o d’autore che sia, è una canzone strettamente legata alla musicalità del dialetto in cui è scritta, che ne condiziona il rapporto metrica-melodia. Un esempio: una delle canzoni più toccanti della nostra tradizione, la genovese Ma se ghe pensu di Mario Cappello e Attilio Margutti, è una canzone che mi dà un piccolo brivido di commozione ogni volta che la sento dalle voci genovesi di Bruno Lauzi, di Antonella Ruggiero o di Gilberto Govi; e non solo. La forza miracolosa di quel canto prende vita proprio dall’incrocio fra una dolce melodia e la bella musicalità di quel dialetto. Toglietegli quella musicalità, traducetela in italiano e subito il miracolo si laicizzerà.
Ma penso anche a quando, pochi anni fa, al teatro Smeraldo di Milano un’incantevole Mariangela Melato, regalandoci un bis, attaccò a cantare O mama mia mi sto luntan (Nostalgia de Milan di Giovanni D’anzi - Alfredo Bracchi). Ero fra il pubblico e cercavo di nascondere i miei occhi diventati lustri. Da dove veniva tanta commozione? Certamente da un’invenzione melodica del geniale maestro Danzi e certamente da un testo nostalgico - che ripete grossomodo lo stesso concetto di Ma se ghe pensu, di ’A cartolina ’e Napule, di La porti un bacione a Firenze; lo stesso spleen da emigranti di altre cento canzoni campaniliste di mezzo mondo. (Mi sto chiedendo chissà quanti canti, per noi oscuri, faranno battere oggi il cuore dei migranti che arrivano da noi su un gommone della speranza). Ma l’inequivocabile fascino struggente di questi titoli si deve proprio alla musicalità di una lingua che è radicata nella gola e nel cuore degli artisti che li cantano.
Naturalmente questo discorso vale con ancor maggiore evidenza se lo riferiamo alla canzone e alla lingua napoletana, ricordarlo sarebbe un’ovvietà, visibile per chiunque. Meno facile invece portare questo discorso nel campo della canzone dialettale romana. Questo perché, secondo me, la lingua romana è stata spesso semplificata e mortificata dal cinema, dai comici televisivi, dalle banalizzazioni turistiche dei tanti "er": er Patata, er Cipolla, er Palomba… Si è diffuso il luogo comune che assume il romano come lingua greve, aggressiva, compulsivamente farcita di turpiloquio, cinica. E a rincarare la dose sono arrivate in questi giorni anche le intercettazioni telefoniche de "er Cecato" e di altri gentiluomini esponenti della criminalità romana. «Povera Roma nostra forestiera!» recita una celebre canzone di Libianchi - Granozio.
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Sono nato e cresciuto nel quartiere Trionfale di Roma, al cui centro si estendeva, nel dopoguerra della mia infanzia, un grandissimo mercato all’aperto. La lingua italiana lì non era di casa, si parlava il dialetto, l’italiano si sentiva solo alla radio, alla televisione e nei doppiaggi dei film americani. Ebbene, della lingua che ascoltavo da bambino ho una memoria soave, la memoria di una musicalità dialettale molto amabile, ricca e modulata, capace di espressioni gentili e invenzioni poetiche sorprendenti, come anche a tratti di invettive salaci. Ricordo la lingua delle madri del quartiere, non solo la mia: una parlata romana di una dolcezza che inteneriva il cuore, non soltanto quando era rivolta a noi bambini. Faccio fatica perciò a riconoscermi in questo dialetto televisivo, monotonamente gaglioffo, ossessionato dal turpiloquio fallico, sodomitico, scatologico.
Intendiamoci, quando un dialetto lo riproduce un alloglotto, qualcuno che è nato in un’altra città, è fatale che ne spinga e ne esasperi le caratteristiche. Come il non siciliano, che sicilianeggia riempiendosi la bocca di "mizzica"; o chi toscaneggia aspirando tutte le c che gli passano per la bocca. Persino il friulano Pier Paolo Pasolini, quando dialogò in dialetto romano, scivolò in qualche leggera esagerazione lessicale e di calata, pur avendo consulenti doc. Ettore Petrolini, che invece il dialetto lo conosceva in modo cromosomico, parlava un romano elegante e a volte anche gentile, a giudicare dalle registrazioni che ci sono arrivate. Riservava il romanesco gaglioffo e tracotante al suo personaggio Giggi er bullo: un bullo "dar cortello facile" appunto. Ma non tutti i romani sono metodicamente bulli.
Ancor oggi, frequentando caffè, negozi e tram della mia città, la musicalità della lingua che mi arriva alle orecchie e all’anima, a differenza della comicità nazionalmente diffusa, non mi sembra così minacciosa e triviale. Salvo eccezioni ovviamente, come in qualsiasi dialetto d’Italia: anche nella dolcissima lingua veneta quando si inveisce contro qualcuno si dà sfogo ai luoghi comuni fallici, scatologici e sodomitici.
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Ho progettato e messo in scena lo spettacolo Semo o nun semo, dedicato alle canzoni classiche romane, proprio perché avevo desiderio di costruire una serata teatrale su una lingua e una tradizione che meritano più rispetto di quanto ne abbiano. Ho scelto da questa tradizione i pezzi che mi sembrano più potenti e più teatrali, dai più noti a quelli poco conosciuti, e ci ho inserito anche un inedito, una serenata arrivatami per tragitti familiari. Ho steso degli arrangiamenti che riproducessero l’anima di queste canzoni nel modo più fedele possibile (e il modo più fedele non sempre è la filologia). Ho messo insieme un valente ensemble di musicisti, cinque artisti cantanti, e ci siamo radunati in teatro: Il teatro è l’unico luogo in cui questa operazione avrei potuto realizzarla in totale libertà espressiva, avendo come unico limite il divertimento di quel pubblico che la sera sceglie di venirci a sentire e a vedere.
E, fra me e me, ho dedicato questo spettacolo a tutte le vecchie madri del quartiere Trionfale, compresa la mia.
Nicola Piovani, Domenicale – Il Sole 24 Ore 21/12/2014