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 2014  dicembre 20 Sabato calendario

LA VERA STORIA DELLA CROCE FRA MAGHI E PAPI SANTI E RELIQUIE

Nella cattedrale di Echmiadzin, in Armenia, ho visto la lancia arrugginita di Longino, che trafisse il costato di Gesù. L’evidente età venerabile incute rispetto anche nel visitatore più scettico; che, contemplandola, si chiede se siano false quelle che altrove ne usurpano il nome. Ho visto a Roma, a San Pietro in Vincoli, le enormi catene di ferro che strinsero i polsi dell’apostolo nel carcere Mamertino. Ho visto a Venezia nel Tesoro della Basilica di san Marco una stilla del sangue di Cristo contenuta in un vaso di cristallo col coperchio di diaspro intagliato.
Ho visto qua e là un frammento dell’arca di Noè e un asse della mangiatoia di Gesù bambino. In teche d’argento e reliquiari d’oro tempestati di gemme, labili dietro una finestrella di vetro aperta nel metallo luccicante, ho visto minuscole schegge di ossa, rotule, falangi, denti, mani, crani, capelli, chiodi, laceri brandelli di stoffa, frammenti di epidermide etichettati come pelle umana.
Tutte queste “reliquie” non mi attraevano per la loro misteriosa origine ma per la loro essenza: la parola reliquia viene dal latino “reliquiae”: avanzi, resti. E nulla mi interessa più di “ciò che resta” — della vita individuale, delle idee collettive, delle glorie passate. Ma mi attraevano anche perché erano state oggetto di culto fanatico, eccitando al pellegrinaggio milioni di persone. Eccitando anche la fantasia di avidi cacciatori di denaro, truffatori, ladri e malandrini di ogni risma: ricordo la lettera, scovata in un archivio veneziano, di un tale che nel Seicento, con sfacciata improntitudine tentava, quasi riuscendoci, di vendere il coltello con cui san Pietro avrebbe tagliato l’orecchio a Malco. E se le reliquie minori giacciono dimenticate in vetrine polverose, altre proiettano nel presente il loro potere taumaturgico e indubbiamente magico.
Ho ripensato a tutto ciò leggendo l’agile volume della storica medievale Chiara Mercuri: La vera croce. Storia e leggenda dal Golgota a Roma ( Laterza). Che narra — con prosa sciolta e senza tecnicismi accademici — le vicissitudini della reliquia (anzi, delle reliquie) della croce su cui fu crocifisso Gesù Cristo. Detta “vera” per distinguerla dalle “false” (i patiboli dei ladroni). La quale vera croce, esumata a Gerusalemme da Elena, la madre dell’Imperatore Costantino, fu poi separata in più parti: quattro di esse furono portate a Roma, mentre quella rimasta a Gerusalemme fu sistemata nella basilica del Santo Sepolcro, che Elena fece edificare sulla collina del Golgota. A differenza di Roma, città di martiri, Gerusalemme non aveva un corpo santo da venerare (essendo vuoto il sepolcro di Cristo), ma un luogo (quello della Passione): la sacra reliquia della croce sostituì il corpo. Efficacemente Mercuri spiega ai lettori come, e soprattutto perché, un pezzo di legno di dubbia provenienza (ma anche il frammento di un osso o il lembo di uno straccio), possa divenire non solo oggetto di culto, ma simbolo dell’identità di una città e di un popolo.
Il protagonista del libro non è perciò la Croce. I protagonisti sono la donna e gli uomini che quella reliquia hanno trovato (“inventato”, si diceva in latino, il verbo “invenire” significando “trovare”), e reso essenziale alla comunità cui appartenevano. Perché nel IV secolo, quando il cristianesimo era una religione giovane, dilaniata dalle sette, e quando le eresie mettevano in dubbio la natura divina e umana di Cristo, la reliquia della croce divenne la chiave di volta dell’edificio dell’ortodossia. Essa provava (per una forma di sillogismo imperfetto) che la Passione fu vera, che Cristo era stato davvero crocifisso, che era davvero passato sulla terra. Il ritrovamento “della vera” croce aveva perciò motivazioni politiche. E politiche furono, nei seco- li successivi, le ragioni dell’affermarsi del suo culto — propugnato prima da Ambrogio, poi dall’imperatore bizantino Eraclio (il quale la recuperò al re persiano Cosroe, che nel 614 l’aveva trafugata da Gerusalemme per darla alla sposa cristiana), infine dai papi medievali che lottavano per imporre la loro autorità agli imperatori.
Ne risultano biografie sorprendenti di personaggi della tarda antichità o dell’alto medioevo: da Ambrogio, che prima di essere vescovo e santo fu un funzionario imperiale votato alla ragion di stato, fino al “barbaro” Carlomagno. Ma fra i personaggi che Chiara Mercuri delinea, con rapide digressioni e sussulti cronologici, spiccano l’incompreso papa Pasquale I, misconosciuto ricostruttore di Roma, e papa Silvestro II (Gerberto d’Aurillac), che per aver studiato in Spagna presso le scuole arabe fu sospettato di praticare le arti magiche. E soprattutto Jacopo da Varazze, il frate domenicano autore della Legenda Aurea . Scrisse in latino, e dunque figura nelle nostre storie letterarie solo attraverso le menzioni dei vari volgarizzamenti. Ma è stato uno dei più importanti scrittori italiani. Sicuramente il più letto. A lui si devono i racconti più fantastici, torbidi e cruenti della nostra letteratura — ricchi di avventure, travestimenti, fughe, torture e riscatti. A lui, infine, si devono un’infinità di quadri e capolavori della nostra storia artistica — perché è stato la fonte di tutti i pittori, per secoli. Come narratore della storia della Vera Croce, è l’ispiratore di Piero della Francesca, per l’omonimo ciclo di affreschi della chiesa di san Francesco che oggi costituisce la principale attrattiva di Arezzo — e ciò induce a perdonargli svariate nefandezze ideologiche.
Non ultimo merito del libro, ricordarci che la crocifissione non fu un privilegio del figlio di Dio. Era la pena di morte inflitta dai romani a quanti, non cittadini romani, fossero colpevoli di cospirare contro l’autorità. E che fu Costantino a vietarla, assumendo così la croce come simbolo del cristianesimo stesso. Le file di uomini crocifissi la scorsa estate nei crocicchi delle città siriane ricordano sinistramente quanto simbolico resti nell’immaginario contemporaneo questo supplizio — «crudele e tetro», per dirla con Cicerone, doloroso e atroce.
Melania Mazzucco, la Repubblica 20/12/2014