Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano 20/12/2014, 20 dicembre 2014
QUELLI DI “NANO MALEDETTO NON SARAI MAI ELETTO”
Nella testa del franco tiratore. Dice al Fatto un ex ministro democristiano molto noto, che chiede per pudore di non fare il suo nome: “Il cecchino misura sempre il rischio. Se si prefigura un consenso alto, allora il franco tiratore non si espone, sarebbe un pericolo inutile. Accadde con Cossiga, quando lo votammo compatti nel 1985. Al contrario, se la situazione è incerta, fragile, precaria, gli interessi di tutti i traditori convergeranno per massimizzare gli effetti. E lo scenario di oggi risponde a quest’ultima ipotesi. È la situazione ideale per pugnalare. Anche perché gli attuali leader non hanno il fisico per reggere. Noi democristiani potevamo arrivare anche a venti scrutini, questi, invece, l’ultima volta sono andati nel panico dopo appena quattro votazioni e sono ritornati da Napolitano”.
SEMPRE PRESENTI
La categoria del franco tiratore è incorporata tra gli scranni del Parlamento italiano. I cecchini ci sono sempre. Sono eterni. Invisibili come fantasmi. Ci furono persino nell’elezione di Cossiga, citata dall’ex ministro dc. Ecco cosa annota il giornalista Giuseppe Sangiorgi, ex portavoce del leader democristiano Ciriaco De Mita, nel suo libro di ricordi, alla data del 24 giugno 1985: “Cossiga viene eletto al primo scrutinio con 752 voti. Alle 19 torniamo di nuovo a piazza del Gesù. Emozione. De Mita commenta il risultato: ‘I franchi tiratori, dice, non sono dc. Almeno una sessantina sono socialisti, poi degli altri partiti. Se non si fosse votato subito, e tutti, su Cossiga, ci sarebbe stato un disastro”. Da notare: pur emozionato e contento, il primo pensiero di De Mita va ai franchi tiratori e al pericolo corso. Un riflesso pavloviano, tipico per un politico della Prima Repubblica, quella del Novecento e dei partiti “pesanti”.
ONOREVOLI-LUPARA
L’apoteosi dei franchi tiratori - i franc tireurs erano i francesi che, a gruppetti, facevano azioni di disturbo contro i prussiani nella guerra del 1870 - è sempre stata l’elezione per il capo dello Stato. E la successione di Napolitano II si prefigura come il Vietnam del Caos supremo. Perché Renzi e Berlusconi e il patto del Nazareno dovrebbero riuscire laddove fallirono, tanto per fare un esempio, Fanfani (che era Fanfani), De Gasperi (che era De Gasperi) e finanche il patto del Caf formato da Craxi , Andreotti e Forlani? I trucchi dei grandi elettori per tradire nell’urna di Montecitorio sono stati vari. Prima che nel 1992 venisse montato il “catafalco” con le tendine, per ordine del presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, poi eletto al Quirinale, i franchi tiratori adottavano una tecnica velocissima. Alla partenza, esibivano una scheda col nome indicato dal partito, per far vedere a tutti che non erano loro i cecchini; quindi facevano pochi passi e infilavano disinvolti una mano in tasca; pochi secondi e la sostituivano con la scheda sabotatrice da infilare nell’urna. Oggi, nel segreto del catafalco, è tutto più facile. Indro Montanelli li chiamava gli onorevoli-lupara.
IL PRIMO IMPALLINATO
Dopo il “provvisorio” Enrico De Nicola, il primo, vero capo dello Stato, nel 1948, doveva essere il conte Carlo Sforza, antico liberale dell’era giolittiana. A sceglierlo fu lo statista dc Alcide De Gasperi. Ma Sforza non piaceva a tutti i democristiani. Per i dossettiani era tout court un puttaniere. Per altri, un filoamericano massone. Sforza è talmente sicuro che il 10 maggio, all’inizio degli scrutini, ha in tasca il discorso d’investitura. Il suo nome regge due scrutini. In una riunione del gruppo dc, De Gasperi compila l’atto di nascita dei franchi tiratori: “Meno applausi e più voti. Quello che è successo è grave perché significa che in avvenire, e magari per questioni molto più importanti che non l’elezione del presidente della Repubblica, non ci si potrà fidare nemmeno tra di noi”. Ha rivelato Emilio Colombo: “Io e altri sedici tra cui Moro e Fanfani votammo contro Sforza sia alla prima sia alla seconda votazione. De Gasperi capì e, attraverso Andreotti, offrì la candidatura a Luigi Einaudi”. Andreotti si presentò all’alba a casa Einaudi, al Tuscolano. Il futuro presidente, titubante, chiese: “Ma le pare opportuno avere un presidente zoppo?”. Venne eletto al quarto scrutinio.
IL SECONDO IN LISTA
Nell’aprile del 1955, scaduto il settennato einaudiano, il nuovo presidente della Repubblica doveva avere il profilo di Cesare Merzagora, indipendente eletto nella Dc e presidente del Senato. Stavolta a sceglierlo è Amintore Fanfani, il nuovo segretario della Balena bianca. Ma Merzagora è invotabile per le correnti di destra e di sinistra dello scudocrociato. Contro di lui lavorano Gonella e Andreotti, a favore di Giovanni Gronchi, cattolico progressista alla guida della Camera. I grandi elettori della Dc si riuniscono e votano segretamente sui due. Prevale Merzagora, il candidato è lui. La guerra è appena all’inizio. Il nome di Merzagora dura fino al terzo scrutinio, quando i cecchini della Dc diventano addirittura 160. Merzagora si ferma a 245, superato da Gronchi che ne raccoglie 281. Ha raccontato Andreotti: “Andai da lui con grande anticipo e gli dissi: ‘Scusa io ho vent’anni meno di te e tu mi potresti dire di farmi i fatti miei. Però lascia che ti dia un consiglio: non esporti, altrimenti non riesci’. Ma Fanfani e Scelba, mi rispose Merzagora, mi hanno assicurato che ho l’appoggio di tutto il gruppo. Quando te lo dicono in troppi è meglio diffidare, replicai io, andandomene”. Andreotti aveva ragione e quando Merzagora si ritira, commenta: “Mi sono fatto giocare come un bambino a moscacieca”. Gronchi viene eletto capo dello Stato al quarto scrutinio con 658 voti. È la prima volta che la televisione trasmette l’elezione per il Quirinale.
IL “BROGLIO” DEL ‘62
Nel 1962 si verifica per la prima volta una congiunzione politico-astrale ritenuta sino ad allora impossibile. L’indicazione del segretario democristiano, Aldo Moro, coincide con l’obiettivo finale: l’elezione del sassarese Antonio Segni, ministro dc degli Esteri. Con lui si schierano i dorotei, che formano la corrente più grande e potente del partito, e la destra interna. Il ruolo di guastatore e capo dei franchi tiratori è del presidente del Consiglio, Amintore Fanfani. Si comincia a votare il 2 maggio ma Segni non decolla. In tribuna stampa c’è Montanelli che registra la battuta di un collega americano sgomento: “Ma dove siamo? In Italia o in Nicaragua?”. Tra i cecchini fanfaniani c’è un giovane che si chiama Arnaldo Forlani. Ed è proprio Forlani che viene spedito da Fanfani a trattare con Segni. Allo stesso tempo, per trovare un accordo, Moro sonda Giuseppe Saragat, votato dalle sinistre, per chiedergli di farsi da parte. Lo scontro è durissimo. I vertici dc decidono di controllare i grandi elettori scortandoli fino all’urna e pretendendo di vedere le schede con il nome di Segni già scritto. Addirittura, al nono scrutinio, quando l’intesa tra Fanfani e Segni sembra cosa fatta e all’ottavo sono mancati solo quattro voti per il quorum, viene scoperto un broglio. Il senatore dc Antonio Azara è chiamato a votare ma non ha la scheda. Il suo collega di partito Angelo Cemmi gliene passa una al volo, già compilata col nome di Segni. I parlamentari comunisti sorprendono lo scambio tra i due e gridano: “Camorra, camorra”. Il presidente della Camera, Giovanni Leone, è costretto ad annullare la votazione. Si riprende alle dieci di sera e le schede cambiano colore. Gialle, non più bianche. Segni diventa presidente pochi minuti prima della mezzanotte del 6 maggio, dopo 110 ore di seduta.
LEONE NON PASSA
Nel 1964, Segni viene fulminato da una paralisi cerebrale ed è costretto a dimettersi. I grandi elettori si riuniscono di nuovo. Ed è in questa occasione che l’apologia del cecchino diventa un capolavoro di bizantinismo, doppiezza italica e crudele cinismo. A cesellare una scena memorabile è Aldo Moro, diventato presidente del Consiglio. È lui che lancia il candidato scudocrociato Giovanni Leone, che però Fanfani non vuole. Ma è lo stesso Moro a decapitare Leone. Così nel suo ufficio sale Carlo Donat-Cattin, capo della corrente di Forze Nuove. Moro gli intima: “Leone non deve passare”. Donat-Cattin gli chiede: “Come facciamo?”. Il presidente del Consiglio sentenzia, sibillino: “Per quanto mi riguarda io faccio il presidente del Consiglio. Quanto a voi, esistono i mezzi tecnici”. Il capo di Forze Nuove va via. Sulle scale i suoi fedelissimi lo interpellano: “Che cosa sono i mezzi tecnici?”. Donat-Cattin risponde in modo brusco: “I mezzi tecnici sono solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori”. Il 28 dicembre, viene eletto il socialdemocratico Giuseppe Saragat, dopo dodici giorni e ventuno scrutini.
L’OFFESA NELL’URNA
Il 1971 è l’anno della grande sconfitta di Fanfani. Stavolta è lui il favorito per il Quirinale. L’artista democristiano del cecchinaggio finisce per essere deriso nei primi scrutini, quando cominciano a mancargli i voti. A presiedere la Camera è Sandro Pertini, socialista. Fanfani è accanto a lui, come seconda carica dello Stato, alla guida di Palazzo Madama. Pertini prende una scheda e imbarazzato recita: “Nulla”. Ma Fanfani riesce a leggere quello che c’è scritto sopra: “Nano maledetto/ non sarai mai eletto”. I fanfaniani però non mollano e tentano di controllare il voto nel modo più semplice: chiedendo di scrivere “Fanfani” con inchiostro rosso o verde, a seconda delle correnti dc, oppure aggiungendo il nome di battesimo o uno dei titoli del candidato: “professore”, “presidente”, “senatore”. Tutto inutile. Leone si prende la rivincita sul “nano maledetto” al ventitreesimo scrutinio.
CAVALLI DI RAZZA
Nel 1978, le dimissioni di Leone per lo scandalo Lockheed, anticipano la riunione dei grandi elettori. Il candidato socialista è Antonio Giolitti ma passa Sandro Pertini al sedicesimo scrutinio con un record di consensi: 832. Tuttavia gli mancano 80 voti e lui impiegherà il settennato anche per dare un volto ai traditori. Detto all’inizio di Cossiga, nel 1992 si celebra la doppia giubilazione di Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti, cavalli di razza della Dc. Il primo, Forlani, è quello che rimane più scottato arrivando, il 16 maggio, a soli 39 voti dal quorum. I franchi tiratori sono 77, di cui 50 del suo partito. A quel punto la maggioranza del pentapartito schiera il socialista Giuliano Vassalli. I franchi tiratori schizzano a quota 180. Mai vista una cosa del genere. Il suo collega del Psi, Silvano Labriola, se la prende con il Vaticano, in latino: “Agnosco stylum Romanae Curiae”. “Riconosco il pugnale della curia romana”. La strage di Capaci fa passare Oscar Luigi Scalfaro. E arriviamo al 2013, dopo Ciampi e il primo Napolitano, eletto a maggioranza. Il Pd indica Marini, bruciato. Poi Prodi, accoltellato da 101 franchi tiratori. Dalla tribuna dell’assemblea democrat, Walter Tocci declama: “I franchi tiratori hanno una cattiva fama. Eppure, hanno sempre curato il bene della Repubblica. Per merito loro sono stati eletti i migliori presidenti”. Con il secondo Napolitano non è andata proprio in questo modo. Ma adesso ci sarà lo show del Nazareno, che rischia di azzerare tutti i precedenti storici.
Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano 20/12/2014