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 2014  dicembre 21 Domenica calendario

SADE, I VELENI DELLA VIRTU’ NELLO SPAZIO TRAGICO

Temo che leg­gere Sade con una mano sola, come dice­vano i nostri nonni, sia diven­tata un’attività del tutto desueta, ammesso che le fan­ta­sie del Mar­chese siano mai dav­vero ser­vite a quel nobile e igie­nico scopo. Inol­tre, vi deve pia­cere quella roba lì, molto imbrat­tata di merda e san­gue, e fino a qui può andare anche bene, ma soprat­tutto infar­cita, anche sul più bello, delle tre­mende digres­sioni filo­so­fi­che, tra le più pre­ve­di­bili e ripe­ti­tive della sto­ria umana. Forse è venuto dav­vero il momento di un’antologia ben fatta, capace di pescare le migliori nefan­dezze sepa­ran­dole da tutto il resto. È in que­sti ver­tici di scel­le­ra­tezza che il pro­di­gio della scrit­tura sadiana rivela ancora intatta la sua forza, che deriva da un’intuizione deci­siva del potere della parola, e in par­ti­co­lare della parola scritta. La quale pog­gia sem­pre sulla capa­cità di imma­gi­na­zione del let­tore, o della let­trice ovvia­mente, i quali, men­tre desti­nano una delle mani all’ufficio che sap­piamo, imma­gi­nano ciò che leg­gono, forse in maniera ancora più per­versa e tru­cu­lenta (chi può saperlo ?) di come lo imma­gi­nava colui che ha scritto.
Il con­ta­gio di Sade è impla­ca­bile: se lo leggi, e imma­gini ciò che descrive, sei come lui, sei capace di imma­gi­nare quello che ti fa imma­gi­nare. Se fos­sero stati scritti con una mag­giore sag­gezza arti­stica, forse libri come Juliette o le 120 gior­nate di Sodoma avreb­bero dav­vero inne­scato una rivo­lu­zione della sen­si­bi­lità senza pre­ce­denti nella cul­tura occi­den­tale. Pro­vate a imma­gi­nare la mente di Sade con il talento di un Tur­ge­nev o di un James…
C’è poi il cosid­detto Sade «casti­gato», ovvero quello che si può leg­gere tenendo como­da­mente il libro con due mani. Quando a sessant’anni, nel 1800, pub­blicò la serie di lun­ghi e tetri rac­conti «morali» inti­to­lata I cri­mini dell’amore, ben pochi se la bev­vero, tanto è vero che ritornò pre­sto in galera per poi essere rin­chiuso nel mani­co­mio di Cha­ren­ton, dove morì nel 1814. Ovvia­mente, non si tratta di una reden­zione e nem­meno, in fin dei conti, di un’ipocrisia. L’interesse di que­sta parte «casti­gata» della sua opera risiede sem­mai nella coe­renza con la quale Sade per­se­gue il suo gran­dioso pro­getto let­te­ra­rio fon­dato sul potere della scrit­tura.
Il Bene ci verrà dun­que ammi­ni­strato con la stessa nefan­dezza riser­vata al Male. Per que­sto supremo ten­ta­tivo di misti­fi­ca­zione, anche la por­no­gra­fia si rivela inu­tile, e Sade la sacri­fica volen­tieri sull’altare delle sue ambi­zioni. Ne nascono alcune gemme nar­ra­tive come il romanzo breve Flor­ville e Cour­val o della fata­lità (Elliot, tra­du­zione di Elena Faber, pp. 93, euro 10,00), che Filippo D’Angelo ha inse­rito in una edi­zione par­ziale dei I cri­mini dell’amore, acu­ta­mente cen­trata sul tema (molto caro a Sade) dell’incesto (L’Orma Edi­tore, pp. 216, euro 14,00). La prima di que­ste due edi­zioni è arric­chita dall’ultimo sag­gio scritto da Ric­cardo Reim, che ci ha lasciati poche set­ti­mane fa. Reim è stato un geniale uomo di tea­tro e insieme uno straor­di­na­rio cono­sci­tore della sto­ria del romanzo moderno, e soprat­tutto dei suoi sva­riati enfers, sia neri che rosa. Il suo è il miglior via­tico per l’illuminante espe­rienza di que­sto Sade pala­dino della Virtù, capace di distil­lare i suoi nuovi veleni nell’efficace alam­bicco della forma breve.
La scom­messa è tra le più dif­fi­cili, per­ché rove­sciando il cal­zino della sua filo­so­fia, lo scrit­tore dovrà dimo­strare che il risul­tato è iden­tico, come una somma che rimane sem­pre la stessa mutando l’ordine degli addendi. Qua­lun­que cosa l’uomo pensi o dichiari di se stesso, le forze oscure di cui è ostag­gio fini­scono per vani­fi­care ogni discorso. È que­sto il senso pro­fondo di quella fata­lità che tra­sforma la vir­tuosa Flor­ville nell’autrice dei peg­giori delitti che si pos­sano imma­gi­nare. Tutto ciò che la gio­vane donna fa per ripa­rare ai suoi errori e con­for­mare il suo com­por­ta­mento ai suoi scru­poli, fini­sce per rive­larsi un pezzo della trap­pola mor­tale che finirà per stri­to­larla. E quando l’«orrore» della verità si mostra in tutta la sua ter­ri­bile evi­denza, all’eroina di Sade non rimane altra scelta che quella di spa­rarsi un colpo di pistola in testa. Come la pro­ta­go­ni­sta di una tra­ge­dia arri­vata al suo fune­sto scio­gli­mento, avrà giu­sto il tempo di tirare le somme: «o vedo il mio amante in mio fra­tello o vedo il mio sposo nell’autore dei miei giorni, e se guardo a me stessa vedo solo l’esecrabile mostro che ha pugna­lato suo figlio e ucciso sua madre».
Ma lo spa­zio tra­gico imma­gi­nato da Sade, più che da esseri umani in carne ed ossa, è popo­lato da mario­nette della sorte, prive di ogni spes­sore psi­co­lo­gico. Come Justine, modello asso­luto e per­fetto di tutte le vit­time sadiane, anche Flor­ville è inca­pace di pen­sare il senso di ciò che subi­sce. La sua è una cata­strofe che non pro­duce nes­suna catarsi. E gli ideali vir­tuosi che dovreb­bero con­so­larla anche nella sven­tura si sciol­gono come neve al sole. Sono solo il rove­scio spe­cu­lare delle lun­ghe eser­ci­ta­zioni filo­so­fi­che dei tanti mal­vagi liber­tini ai quali Sade ha dato voce nella sua opera. Con per­fida mali­zia, Sade ci mostra come da un mede­simo argo­mento con­ven­zio­nale si pos­sano trarre con­clu­sioni ugual­mente vero­si­mili per gli apo­lo­geti del Vizio e per i difen­sori della Virtù.
Negli ammo­ni­menti del pro­tet­tore di Flor­ville, uomo one­sto ed assen­nato, si rico­no­scono molti degli argo­menti favo­riti dei suoi nemici. Così, sfrut­tando una famosa pagina di Mon­tai­gne sulle dif­fe­renze dei costumi umani e la rela­ti­vità della morale, il liber­tino ne trarrà la con­clu­sione che tutte le norme sono arbi­tra­rie e disprez­za­bili dall’uomo supe­riore. Il vir­tuoso, par­tendo dall’identica pre­messa, potrà invece con­vin­cersi che i dif­fe­renti costumi sono la prova dell’esigenza uni­ver­sale di rea­liz­zare il Bene, quali che siano le con­di­zioni dell’esistenza e le tra­di­zioni par­ti­co­lari («Per­ché i diversi climi, i diversi tem­pe­ra­menti hanno neces­sità di diversi tipi di mode­ra­zione, per­ché, in una parola, la virtù si è mol­ti­pli­cata in mille forme diverse, si può soste­nere che non c’è virtù sulla terra? Sarebbe come dubi­tare della realtà di un fiume quando si separi in mille rami diversi»).
I ragio­na­menti del Sade «vir­tuoso», insomma, non sono un’alternativa auten­tica all’apologia del vizio e della pre­po­tenza alla quale aveva assue­fatto i suoi let­tori. Se le stesse parole, gli stessi con­cetti pos­sono ser­vire a un’affermazione e ugual­mente al suo con­tra­rio, signi­fica solo che entrambi i discorsi, quello liber­tino e quello vir­tuoso, sono finti, ina­de­guati a espri­mere la tre­menda realtà che ci sovra­sta, con­du­cen­doci tutti a un’identica fine. Se la fata­lità potesse par­lare, quello sì che sarebbe un discorso rive­la­tore. Ma la fata­lità è muta, intenta alla sua strage per­pe­tua, e forse nem­meno lei, come le sue vit­time, sa cosa pen­sare di se stessa. Ne ver­rebbe fuori, suprema intui­zione, l’immagine di un uni­verso com­ple­ta­mente idiota, nel quale non hanno senso né il pen­siero né gli eventi che lo smen­ti­scono.
È una lezione pre­ziosa, que­sta del vec­chio Sade, soprat­tutto in un’epoca in cui le sedu­zioni del Bene si rive­lano ancora più per­ni­ciose delle pre­ve­di­bili e usu­rate lusin­ghe del Male. Forse pen­sava pro­prio a Sade Kafka, quando nel penul­timo dei Qua­derni in ottavo scri­veva che «il male è il cielo stel­lato del bene». Ma non c’è biso­gno di sta­bi­lire qual­che filia­zione diretta. Più pro­ba­bil­mente sia Sade che Kafka, esseri umani dotati di una supe­riore con­sa­pe­vo­lezza, guar­da­vano le oscure stelle dello stesso cielo, l’unico che ci sia stato con­cesso di scrutare.