Federico Fubini, la Repubblica 20/12/2014, 20 dicembre 2014
L’ASSALTO ALLA CASSA FERMATO DFAL TESORO. MA IL RISCHIO È CHE NON BASTI PER LA RIPRESA
La firma (elettronica) del ragioniere generale dello Stato Daniele Franco è arrivata quando l’ora dell’aperitivo era ormai passata. Gli italiani si stavano sedendo a tavola per cena. I tecnici della Ragioneria invece avevano appena finito di pesare e bollinare l’impatto di una serie di emendamenti che continuavano a entrare e uscire dalla Legge di stabilità.
Saltano i 3,2 milioni per gli eventi dell’industria della moda a Roma, si cancellano le mini-società partecipate con più amministratori che dipendenti, si garantiscono solo fino al 2017 i dipendenti delle provincie in via di scioglimento, restano fuori nove assunzioni al parco naturale del Gran Paradiso. E via ritoccando, o tenendo duro sui ritocchi, fino all’ultimo minuto. In un altro Paese più abituato a programmare, notava uno dei protagonisti ieri sera, si sarebbero fermate le macchine sei o magari 24 ore per valutare bene gli impatti di bilancio di ogni rammendo. Qui no. All’ora del telegiornale il testo correva di nuovo giù dalla Ragioneria a Palazzo Chigi, dove il premier Matteo Renzi ha rivisto ogni dettaglio, e al Senato che doveva votarlo in piena notte. Fino all’ultimo le proposte in bilico sono state circa trenta, e fra queste la più importante interessa 1,4 milioni di lavoratori autonomi.
Per loro gli ultimi mesi sono stati segnati da continue sterzate nel rapporto con il fisco, e ieri premevano per una correzione. A maggio anche gli autonomi avevano avuto diritto al taglio dell’aliquota Irap (l’imposta sulle società) dal 3,9% al 3,5% introdotto assieme al bonus da 80 euro alle famiglie. Poi la Legge di stabilità ha subito ritirato quello sgravio, con effetto (retroattivo) da gennaio scorso, mantenendo però una nuova tassa sulla rivalutazione dei beni d’impresa. Risultato: milioni di autonomi con partita Iva in Italia rischiavano la beffa di ritrovarsi persino con più tasse di prima. Di qui la corsa di ieri per con- cedere loro un credito d’imposta Irap del 10% all’ultimo minuto.
Visto da Bruxelles, Berlino, Francoforte, Parigi o Wall Street, difficile trovare una metafora più calzante di una certa idea d’Italia. Non è tanto lo zigzag delle procedure. È l’importanza fuori proporzione che a volte assume la tattica sulla strategia e sul senso di direzione verso il futuro. Non che quest’ultimo sia assente dalla Legge di stabilità, perché si trova nelle grandezze fondamentali: i 16 miliardi di tagli di spesa annunciati, i 6,5 miliardi di riduzione della componente lavoro dell’Irap per chi ha dipendenti, il taglio ai contributi per i nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Il punto è se questo impianto può davvero spingere l’Italia fuori da una fase lunga sette anni nella quale il reddito medio per abitante è sceso del 12%, con una distribuzione del tutto diseguale: la paga oraria di chi ha un contratto permanente è salita in media del 12%, dunque quella di tutti gli altri è crollata molto di più.
Se l’obiettivo era trascinare l’economia fuori dalla palude, la Legge di stabilità muove senz’altro passi concreti detassando i nuovi contratti di lavoro. Ma, quanto al resto, semina più incertezze che fiducia. Quando per esempio ha declassato l’Italia a appena un gradino dal livello «spazzatura», Standard & Poor’s ha sottolineato che il piano del governo per la riduzione della spesa «manca di dettagli» ed «esistono rischi nella sua attuazione». Marco Soncini di Telos, un consulente a cui si rivolgono gli investitori esteri, sospetta che la spending review si tradurrà in qualcosa di simile a nuovi tagli lineari - un po’ per tutti, senza scegliere e senza sfoltire - perché non si interviene sulle strutture istituzionali che generano la spesa stessa. Un caso emblematico è la sanità: in giugno il «Patto per la salute» dichiarava che il suo bilancio non sarà ridotto, ma i tagli affidati d’ufficio alle regioni rischiano di scaricare sui governatori il compito di decidere alla rinfusa proprio ciò che il governo centrale aveva promesso di evitare: la sanità pesa per quasi 80% dei bilanci regionali, non c’è molto altro spazio per trovare delle economie.
La lezione è che quando la spesa pubblica supera il 50% del prodotto lordo, come in Italia, non è più un problema contabile. Non si risolve appuntando un numero di miliardi alla riga dei tagli. È un problema radicato nelle istituzioni e loro nel funzionamento ed è lì che va risolto. Un modo per farlo sarebbe stato proibire agli enti locali di ricapitalizzare a getto continuo le loro società partecipate cronicamente in perdita o di foraggiarle con contratti generosi in misura assurda. Lì ci sarebbero molti miliardi di risparmi, da trasferire in tagli alle tasse sul lavoro e sulle imprese, nel frattempo sottraendo alla corruzione il suo brodo di coltura.
In questo la Legge di stabilità resta un’occasione mancata. Il governo ha scelto di non procedere a una detassazione più radicale sulle imprese o sul lavoro, magari finanziati con tagli di tasse fissati per legge da subito ma da attuare via via nei prossimi anni. Ha scelto di non farlo, perché vuole evitare una procedura per deficit eccessivo a Bruxelles e dunque accetta il rischio di una manovra che incide poco. Un antidoto parziale sarebbe indicare subito la strategia degli interventi per l’economia nel 2015 e nel 2016: chi investe ha bisogno di certezze e di visibilità su cosa lo aspetta. Ma quanto a questo, serviranno tempi più lunghi di quelli concessi ieri alla Ragioneria per bollinare la Legge di stabilità.