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 2014  dicembre 19 Venerdì calendario

DOPO IL SOGNO AMERICANO QUELLO CINESE?


[note alla fine]

Se siete in Cina e cercate un’informazione su internet, non userete Google ma Baidu. So volete lanciare una notizia o comunicare un’informazione in 140 battute, non andrete su Twitler ma su Weibo. Per comprare un libro, un telefono, dei pannolini o qualsiasi altra cosa, la vostra destinazione non sarà Amazon ma Tao Bao. Se aspirate al successo materiale, a un futuro migliore per i vostri bambini e alla ricchezza del vostro paese, non crederete al sogno americano (American dream) ma a queello cinese (zhong guo meng [1]).
Questo slogan, lanciato da Xi Jinping poco dopo la sua nomina a segretario generale del Partito comunista cinese (Pcc), sarebbe quindi solo una contraffazione, un clone del sogno americano abilmente utilizzato da Hollywood e dalla classe politica statunitense per estendere a livello mondiale l’influenza del loro paese?
Il paragone tra sogno americano e sogno cinese a ben guardare è un po’ semplicistico. Il primo è un’idea che si costruisce su una storia, sul mito di fondazione degli Stati Uniti, l’azione del perpetuo (ri)cominciare dove il successo è alla portata di tutti, dove ciascuno può inventare se stesso, alla faccia di qualsiasi determinismo. Il mito del sogno americano nasce dalla traversata dei Padri Pellegrini che nel XVII secolo fuggirono dalle persecuzioni per fondare una «città sulla collina», nuova Gerusalemme dove finalmente si sarebbe realizzata la volontà di Dio; si costituisce nel XVIII, insieme all’atto fondante della nazione che proclamava gli Stati Uniti come una terra dove gli uomini nascono davvero uguali e hanno diritto «alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità»; si rinnova nel XIX con la conquista del West e l’immagine del pioniere indipendente e libero di crearsi una nuova vita sulla terra «vergine», e con la grande ondata dell’immigrazione del 1860-1920 che porta il sogno americano al mondo intero. Nel XX secolo le guerre che hanno fatto degli Stati Uniti la prima potenza mondiale esportano anche l’American way of life, e il sogno diventa oggetto di consumo e di rappresentazione grazie al successo sia dell’industria automobilistica, sia del cinema hollywoodiano: punto di riferimento sempre più frequente nei discorsi degli uomini politici, che intendano esaltare le modalità con cui lo fanno progredire (Lyndon Johnson che promuove la sua Great Society) o che vogliano presentare l’America come una promessa sempre aperta («l’unione più perfetta» voluta da Barack Obama). Il sogno americano è quindi costruzione storica, strumento di propaganda politica, risorsa dell’immaginario e mezzo formidabile per creare consenso e far tacere le voci dissidenti («Non siete soddisfatti della realtà degli Stati Uniti? Vi resta sempre il sogno americano...»).
Quanto al sogno cinese, è nato meno di due anni fa e rappresenta per Xi Jinping un modo per affermare la sua «visione» della Cina, dopo la «società armoniosa» del suo predecessore Hu Jintao [2]. Ma la scelta della parola «sogno» non è casuale nel contesto presente. L’interdipendenza tra Cina e Stati Uniti sul piano economico è fortissima (la Cina detiene oltre mille miliardi di dollari di debito americano e gli Stali Uniti sono il suo primo partner economico). A livello geopolitico, la Cina si vuole affermare come potenza non minacciosa, pur accentuando la propria influenza in Asia, proprio nel momento in cui Barack Obama riorienta la sua politica estera verso il Pacifico per sostenere quanti temono l’ascesa cinese e tutelare gli interessi americani. D’altra parte, sono sempre di più i cinesi che aspirano a uno stile di vita occidentale (e i dirigenti del Pcc sono i primi a mandare i figli a studiare negli Stati Uniti) e il regime comunista continua a incoraggiare i cittadini ad arricchirsi. Ma insieme al sogno del successo materiale ribadisce con forza sentimenti nazionalisti e inasprisce la repressione contro i dissidenti. Perché questo è prima di tutto il sogno del partito: mantenersi al potere ad ogni costo.
La rinascita della nazione cinese
Racconta un famoso» testo (zhuang zhou meng die) che il filosofo Zhuangzi, passeggiando in un giardino, si addormenta e sogna di essere una farfalla. Al risveglio prova una sorta di vertigine: lui è Zhuangzi che ha sognato la farfalla, o è la farfalla, e ora sta sognando Zhuangzi? Il sogno qui è portatore di confusione, di interrogativi sull’identità, di esplorazione dei mondi possibili. Tutto il contrario del «sogno cinese» promosso da Xi Jinping che in realtà viene spesso interpretato come una replica del sogno americano, a sua volta contenuto in una dimensione strettamente individuale e materialista: ogni individuo avrebbe diritto al successo, ai soldi e ai piaceri del consumismo. I cinesi, forti della loro crescita e della ricchezza sempre più ingente di una parte di loro, sarebbero in grado oggi di aspirare e di partecipare a quel sogno. Del resto si dice sia stato l’articolo di un cronista americano, Thomas L. Friedman, a ispirare almeno in parte Xi Jinping. Scriveva Friedman nell’articolo pubblicato sul New York Times sotto il titolo «La Cina ha bisogno del suo sogno»: «Xi ha davvero un sogno cinese, diverso da quello americano? Perché se il sogno di Xi per la classe media cinese emergente – 300 milioni di persone oggi, e probabilmente 800 milioni entro il 2025 – è identico al sogno americano (una grossa automobile, una grande casa, Big Mac per tutti), allora ci occorre un altro pianeta» [3].
E tuttavia non è la dimensione individuale e materiale del «sogno cinese» e nemmeno, nello specifico, la questione ambientale quella che Xi Jinping ha messo in primo piano nel suo discorso del 29 novembre 2012. Visitando la mostra permanente «La via della rinascita» del nuovissimo Museo nazionale che illustra come la Cina si sia risollevata, in trionfo, dalle umiliazioni inflittele dagli occidentali nel XIX e nel XX secolo, XI ha proclamato che «il più grande sogno cinese» è quello della «rinascita della nazione cinese». E dalla fine dell’Ottocento che si parlava di fuguo meng, il sogno di fare della Cina un paese potente e ricco. Questi due slogan, sogno cinese e rinascita della nazione cinese, vengono nuovamente abbinati nel suo discorso del marzo 2013, con cui accettava la nomina a presidente della Repubblica popolare cinese. Il contenuto del sogno rimane piuttosto vago, tanto più che Xi si deve attenere agli obiettivi del piano quinquennale varato da Hu Jintao nel 2011 e anche, nel lungo periodo, a quelli definiti dal partito: arrivare ad avere una società «moderatamente ricca» entro il 2021 (un anno prima della fine del mandato di Xi) e a creare un «paese socialista moderno, ricco, forte, democratico, civile e armonioso» entro il 2049, 100° anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese [4]. Ma se quel sogno ha finora dettato riforme che appaiono piuttosto vaghe, si sta però dimostrando uno straordinario strumento di propaganda, già abilmente declinato dal potere cinese persino nei libri di scuola. Le grandi città del paese (Pechino, Chengdu, Chongqing e altre ancora) sono tappezzate di manifesti (con il logo «sogno cinese») in cui si vedono una bambina dallo sguardo sognante e lo slogan: «Il mio sogno, il sogno cinese»; un giovanotto dall’aria decisa con la scritta: «I giovani sono forti, la Cina è forte»; o ancora due bambini che giocano a scacchi cinesi mentre uno dice all’altro: «Mossa vincente, Cina!» [5]. La dimensione collettiva, nazionalista, è quindi atavica. Contrariamente al sogno americano, che è rivolto al futuro e fa degli Stati Uniti una terra di infinite promesse, il sogno cinese guarda a un passato glorioso che vuole ricreare; è un sogno di rinascita, e anche di rivincita (contro chi sta giocando a scacchi la Cina del manifesto?) contro un periodo buio durante il quale gli occidentali hanno defraudato la Cina del rango che le spettava, approfittando delle sue ricchezze. Gli Stati Uniti si presentano come una nazione «eccezionale» con una missione speciale, legata ai suoi valori, alla sua potenza, alle circostanze della sua fondazione. Per la Cina non si tratta di rivendicare l’eccezione ma, al contrario, la regola, la normalità. L’Impero di Mezzo è sempre stato il paese più potente del mondo: è quindi logico che, chiusa una parentesi (che corrisponde d’altronde grosso modo all’eccezione americana), voglia tornare a esserlo.
Questo appello al passato è evidentissimo nei manifesti del sogno cinese: per i materiali, il partito si è rivolto a diversi istituti di arte popolare. Così la bambina sognatrice raffigurata sul manifesto più noto è una statuina tradizionale d’argilla (nirenzhang) proveniente dagli atelier di Tianjin, e anche i bambini che giocano a scacchi sono vestiti con i costumi tradizionali [6]. I poster esaltano le virtù dell’armonia, dell’amore filiale e dell’economia. Il ritorno alle virtù tradizionali associate al confucianesimo non è nuovo e questa campagna non fa che prolungare una tendenza che dura da più di trent’anni; siamo lontanissimi dallo slogan «Abbasso la bottega di Confucio» del 4 maggio 1919 e anche dal regime comunista di Mao che, soprattutto durante la Rivoluzione culturale, condannava i valori del confucianesimo percepiti come arcaici e incompatibili con il comunismo [7].
Ma il sogno cinese non è un’uscita dal comunismo, tutt’altro. I manifesti che fanno riferimento diretto al regime sono rari (anche se si trovano slogan come «I comunisti sulla strada del sogno» o «Il partito comunista è ok»), ma il comunismo è comunque l’orizzonte del sogno e le libertà fondamentali ne sono escluse. Perché se c’è una cosa che Xi Jinping e i dirigenti del Pcc vogliono evitare è l’incubo della fine dell’Urss. Negli Stati Uniti il sogno americano è il cemento di una nazione che si definisce come creazione del suo stesso popolo, poiché non si fonda sulla storia (troppo recente) né sulla geografia (troppo mobile fino alla chiusura della frontiera, alla fine del XIX secolo) e nemmeno sull’etnia (benché gli americani siano da tempo definiti «per default» bianchi, anglosassoni e protestanti): il famoso e pluribus unum conferisce al paese uno straordinario fascino esteriore (chiunque può venire qui e avere successo) e insieme un discorso a uso interno (siamo sempre stati diversi e siamo fieri di tale diversità). La nazione è tenuta insieme da questo discorso, dal sogno che essa stessa si crea. Per i dirigenti cinesi il sogno è una difesa contro la diversità, un modo di ricreare l’impero di Mezzo, centralizzato e autoritario; la diversità (anche se oggi è rivendicata nel discorso del partito che propone una Cina «multiculturale») è un incubo, perché significherebbe perdita di territori (Tibet, Xinjiang) e perdita di potere (pluralismo politico).
Sognate, brava gente, che il partito vigila
Il ritorno alla Cina eterna caratterizzata da unità e potenza è in effetti associato, nel discorso e nelle azioni del potere cinese di oggi, con il rigore politico e il populismo. Malgrado la caduta di Bo Xilai, che rappresentava l’ala sinistra del partito, i «neomaoisti» non hanno perso tutta la loro influenza [8]; Xi Jinping ha lanciato una grande campagna, quella della «Linea di massa», che mira a riavvicinare il popolo al partito attraverso la lotta contro la corruzione (senza però mai proporre riforme in profondità del regime) e contro gli «stili di lavoro deprecabili» (formalismo, burocratismo, edonismo e stravaganza [9]), e che esalta alcune figure di funzionari modello pur continuando a celebrare, come sotto Mao, il giovane soldato Lei Feng, esempio di devozione al regime.
In parallelo a questo «codice di buona condotta», il presidente cinese ha rafforzato la repressione contro i dissidenti politici, contro chi difende i diritti umani e contro i fautori delle libertà civili in Cina [10]. L’attribuzione nel 2010 del premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo aveva consentito di riportare la dissidenza cinese sulla scena internazionale, senza che questo impedisse a Pechino di continuare a detenere in carcere lo stesso Liu Xiaobo. Dopo l’avvento al potere di Xi Jinping arresti e condanne si sono moltiplicati, ma non sembra che questo tocchi in alcun modo le cancellerie occidentali [11]. Il sogno cinese ha delle frontiere nettissime, soprattutto in campo politico, come illustra la vicenda del settimanale cantonese Nanfang Zhoumo, una delle pubblicazioni cinesi più liberali. Poco tempo dopo il discorso di Xi sul sogno cinese, uno dei redattori, Dai Zhiyong, ha scritto un editoriale intitolato «Il sogno cinese, sogno del costituzionalismo», che doveva uscire nel gennaio 2013. Nel testo il giornalista invocava un ritorno alla costituzione (che garantisce il rispetto dei diritti umani), la creazione di una nuova società capace di mescolare tradizioni cinesi e occidentali garantendo la libertà di ognuno e permettendo a tutti di realizzare il proprio sogno. Il direttore, giudicando l’articolo troppo liberale, lo tagliò in modo spietato e gli cambiò titolo (facendolo diventare «Siamo più che mai vicini al nostro sogno») prima di sottometterlo alla censura del Guangdong. Le autorità della propaganda chiesero ulteriori modifiche prima della pubblicazione: l’articolo finì per diventare un vero inno alla gloria del regime. La brutalità della censura, interna ed esterna, e la notorietà di Nanfang Zhoumo, hanno fatto esplodere uno scandalo su cui i media internazionali si sono buttati a pesce. La versione originale del testo ha potuto circolare in Cina grazie a internet, ma l’alt intimato dalla censura lo conferma: il sogno cinese non è quello del costituzionalismo e chi pretende l’applicazione del dettato costituzionale finirà per farne le spese. Del resto il Libro blu sulla sicurezza dello Stato del 2014 ha attribuito all’intervento di «forze ostili americane» le manifestazioni di lettori e giornalisti a sostegno di Nanfang Zhoumo.
A fare da bersaglio della repressione, in questi ultimi tempi, sono stati soprattutto gli avvocati più o meno direttamente connessi con il movimento di «difesa dei diritti», che da alcuni anni si va sviluppando in Cina e che chiede non la fine del regime ma semplicemente l’applicazione della legge. L’esempio più eclatante è quello di Xu Zhiyong, condannato il 22 gennaio 2014 a quattro anni di prigione. Xu Zhiyong è uno dei fondatori del Movimento dei nuovi cittadini e si è sempre mosso all’interno della legalità; non si tratta dunque di un vero e proprio «dissidente». Ma quando il suo movimento ha iniziato a organizzare manifestazioni a livello nazionale, non limitandosi più alla difesa di questo o quel caso particolare, il regime ha voluto tracciare chiaramente i confini da non oltrepassare [12]. Ciascuno può sognare a casa sua, ma quei sogni devono restare privati; l’unico sogno collettivo possibile è quello del comunismo.
Se alcuni considerano l’espressione «sogno cinese» sufficientemente vaga da permettere qualunque interpretazione, e che quindi potrebbe ritorcersi contro il partito «esasperando la sete di cambiamento» [13], resta pur sempre il fatto che il regime ha definito con chiarezza i suoi limiti politici e che la società civile non ha aspettato di essere autorizzata da Xi Jinping per sognare un’altra Cina, diversa da quella che lui promette.
Il sogno cinese, strumento di soft power?
Il sogno cinese è dunque prima di tutto destinato ai cinesi stessi: serve a esaltare il nazionalismo, a sottolineare il valore della Cina eterna, a offrire prospettive di ricchezza e di benessere ai cittadini dell’impero di Mezzo. Ma è anche uno strumento di propaganda esterna, perché la Cina vuole riprendere il posto che le spetta sulla scena internazionale. Nella ballata Sogno cinese (zhong guo meng) rimasta per molto tempo in testa alla hit parade e il cui video alterna immagini di portaerei, palazzi moderni e paesaggi bucolici, la soldatessa cantante Chen Sisi esprime benissimo l’associazione tra «sogno di una nazione ricca» e «sogno di un esercito forte».
Si tratta esattamente della stessa espressione utilizzata da Xi Jinping nel dicembre 2013 durante una visita alla marina militare cinese nel Sud del paese. In effetti negli ultimi anni la Cina ha incrementato moltissimo le spese militari, passando dai 30 miliardi di dollari del 2000 ai 188 miliardi del 2013 [14] e diventando il secondo investitore mondiale nel settore (a grande distanza dagli Stati Uniti con i loro 640 miliardi di dollari). I conflitti territoriali con i vicini di recente si sono moltiplicati: il più scottante è quello che vede la Cina opposta al Giappone per il dominio delle isole Diaoyu/Senkaku, ma recentemente si sono anche riaccese le tensioni con il Vietnam quando la Cina ha annunciato l’installazione di una piattaforma petrolifera in acque rivendicate dalle autorità vietnamite. I paesi del Sud-Est asiatico, riuniti nella lega Asean, lavorano del resto fin dal 2013 alla stesura con la Cina di un «codice di condotta» per il Mar Cinese Meridionale che possa appianare tali conflitti; ma i negoziati promettono di essere lenti e molti già prevedono che non se ne farà nulla [15].
In queste tensioni regionali si gioca anche in parte il futuro dei rapporti tra la Cina e gli Stati Uniti. In effetti, l’America sostiene il progetto di codice di condotta dell’Asean e intende contenere le mire della Cina nel Sud-Est asiatico per proteggere i suoi alleati e la sua stessa influenza. Nel 2011 Hillary Clinton, all’epoca segretario di Stato di Barack Obama, ha pubblicato su Foreign Policy un articolo intitolato «il secolo pacifico dell’America» nel quale annunciava per la politica estera americana un nuovo focus, dal Medio Oriente all’Asia, nel contesto del ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan. Poiché il futuro è in Asia, gli Stati Uniti dovevano esserci, anche per limitare l’influenza della Cina [16]. Se quest’ultima ha spesso criticato l’arroganza e la condiscendenza dell’America, percepita come una potenza in declino, dal lato americano si temono le conseguenze di una supremazia cinese in Asia e di un’influenza diplomatica che si opporrebbe in modo sistematico agli interessi degli Stati Uniti (anche alleandosi con la Russia nel veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma la Cina, pur affermando senza complessi la sua ritrovata potenza, non vuole apparire come una nazione bellicosa e mette in primo piano le sue «tradizioni», la sua ispirazione all’armonia in seno alla sua stessa società così come a livello internazionale. Oggi come oggi, cerca piuttosto di sviluppare il proprio soft power per non apparire troppo minacciosa: il sogno cinese allora può contribuire a promuovere il «fascino» della cultura cinese all’estero.
Bisogna raccontare le storie cinesi, diffondere le voci della Cina e spiegare le caratteristiche della nazione, ha spiegato Xi Jinping in un discorso nel gennaio 2014 [17]. Per il momento però questa strategia è ancora relativamente poco efficace, e la potenza della Cina poggia principalmente sulla sua forza d’urto economica, sugli investimenti all’estero e sullo sviluppo della sua potenza militare. Voler far passare tutto come «fatto culturale» eliminando totalmente la dimensione politica del soft power, secondo Joseph Nye (a cui si attribuisce la paternità del concetto) è illusorio.
Gran parte del soft power americano proviene dalla società civile (dalle università e dalle fondazioni fino a Hollywood e alla cultura pop) e non dal governo. Spesso gli Stati Uniti riescono a preservare il loro soft power grazie all’espressione critica e non censurata della società civile, anche quando le azioni del governo (come l’invasione dell’Iraq) lo smentiscono. In una strategia di potere intelligente, «duro» e «morbido» si rafforzano a vicenda [18].
Questo reciproco rinforzo in Cina però non avviene e la divulgazione della cultura cinese – per esempio attraverso gli istituti Confucio che dal 2004 nascono in tutto il mondo – deve partire dal regime ed essere sostenuta dagli organi di propaganda; la società civile non vi ha parte.

Che cosa sogna la Cina? Che cosa sognano i cinesi? Sono due domande molto diverse, e malgrado la traduzione di zhong guo meng con «sogno cinese», il concetto è legato alla nazione, più che agli individui che la compongono, e alla visione che ne ha il Pcc. Se ciascuno è «libero» di arricchirsi, questo arricchimento deve essere al servizio della grandeur nazionale, della «rinascita della nazione cinese». Il sogno americano, grande strumento di propaganda, è una creazione relativamente recente (i presidenti degli Stati Uniti hanno cominciato a usare regolarmente quest’espressione soltanto dopo la seconda mela del XX secolo [19])) ma che poggia su una lunga storia e sul modo in cui è stata plasmata all’interno del discorso politico, economico e culturale. Continua a dare l’immagine di una terra dove tutto è possibile, dove ciascuno si può reinventare e aspirare al successo; uno dei punti di forza di questa ideologia è la sua capacità di accogliere quel che resta ai margini, di creare un consenso «recuperando» le opposizioni per integrarle nel mainstream. Così il «sogno» di Martin Luther King nel 1963, formidabile atto d’accusa del sistema segregazionista americano, diventa parte integrante del sogno americano stesso, una volta «espunta» la questione dei neri con le leggi sui diritti civili. Martin Luther King entra dunque nel Pantheon degli eroi degli Stati Uniti mentre le sue rivendicazioni più radicali (per esempio la lotta contro la povertà attraverso la Poor People’s Campaign) sono sminuite o dimenticate; allo stesso modo, altre figure fondamentali della lotta per i diritti civili meno facilmente «recuperabili», come Malcolm X, vengono espunte dal consenso. L’America continua a presentarsi come una nazione eccezionale, «la sola nazione indispensabile» secondo Barack Obama nel suo discorso a West Point il 28 maggio 2014; anche quando cerca di smorzare i tamburi di guerra, è comunque ben decisa a preservare la propria influenza e a proporsi come custode della pace e della speranza per il mondo intero.
Il sogno cinese non copia il sogno americano se non nella sua dimensione materiale. E essenzialmente un oggetto di propaganda, interna ed esterna, e se si mantiene vago sul piano concettuale, nondimeno si associa a una politica che è quella della Cina dopo Deng Xiaoping: libertà economica e chiusura politica, unite a una visione della «Cina eterna» che si fonda sui valori dell’obbedienza e dell’armonia, valori che escludono implicitamente la democrazia, considerata un’importazione culturale dall’Occidente. Ciò nonostante, c’è chi continua a fare altri sogni, come i firmatari di Charta 08, che già otto anni fa, ben prima che Chen Sisi glorificasse il sogno cinese con gran dispiego di vocalizzi e di estetica militarista, scrivevano: «Noi speriamo che tutti i cittadini cinesi che condividono la nostra sensazione di crisi [...] parteciperanno attivamente a questo movimento civile per far progredire l’evoluzione della società cinese al fine di instaurare il più presto possibile uno Stato costituzionale, democratico e libero, per realizzare così il sogno più che centenario perseguito ma mai realizzato dai cinesi [20].
(traduzione di Anna Tagliavini)

1. C’è un’ambiguità, nella traduzione di questa espressione, tra «sogno della Cina» e «sogno cinese»: ma è quest’ultima a essere stata adottata alla fine, anche dai media di lingua inglese, che all’inizio la traducevano con China dream mentre oggi parlano di Chinese dream.
2. Oggi segretario generale del Partito comunista cinese deve sviluppare un concetto che definisce il centro del suo mandato: «la riforma e l’apertura» di Deng Xiaoping, le «tre rappresentazioni» di Jiang Zemin, la «prospettiva scientifica dello sviluppo» di Hu Jintao. Nozioni decisamente astratte che, in questi ultimi anni, sembrano aver lasciato il posto o essere associate a slogan sempre più immaginifici (società armoniosa, sogno cinese).
3. Th. L. Friedman, «China Needs Its Own Dream», The New York Times, 2/10/2012, (www.nytimes.com/2012/10/03/opinion/friedman-china-needs-its-own-dream.html). Di fatto le questioni ambientali preoccupano il potere cinese per motivi economici ma anche politici: gli scandali legati all’inquinamento rischiano di coalizzare il malcontento e di innescare manifestazioni di protesta.
4. Si veda «Chasing the Chinese Dream», The Economist, 4/5/2013.
5. L’intera campagna è pubblicata sul sito www.wenming.cn/jwmsxf_294/zggygg (in cinese). Per alcuni poster commentati e tradotti in inglese si veda l’articolo di I. Johnson, «Old Dreams for a New China», New York Review of Books (blog), 15/10/2013 (www.nybooks.com/blogs/nyrblog/2013/oct/15/china-dream-posters).
6. I. Johnson, cit.
7. Sull’uso di Confucio nella storia politica cinese si veda A. Cheng, «Confucius ou l’éternel retour». Le Monde diplomatique, settembre 2012.
8. J.-Ph. Béja, «Chine: des menaces sur la prospérité?», Esprit, gennaio 2013.
9. Si veda V.S. Rajan, «China: Can Xi Jinping’s “Chinese Dream” Vision be Realized?», 3/1/2013 (www.southasiaanalysis.org/node/1436).
10. Si veda per esempio il rapporto della ong Chinese Human Rights Defenders, secondo cui il 2013 è stato l’anno peggiore, per i diritti umani, almeno a far data dal 2008, quando la repressione era stata particolarmente severa per via delle Olimpiadi di Pechino (chrdnet.com/2014/03/a-nightmarish-year-under-xi-jinpings-chinese-dream-2013-annualreport-on-the-situation-of-human-rights-defenders-in-china).
11. Così, durante la visita in Francia di Xi Jinping nel marzo 2014 non si è nemmeno accennato alla morte, avvenuta solo dieci giorni prima, della militante per i diritti umani Cao Shunli. F. Bougon, B. Pedroletti, «Le président chinois en France: ce qu’on dira, ce qu’on taira», Le Monde, 25/3/2014.
12. B. Pedroletti, «À travers Xu Zhiyong, l’État chinois met en procès la classe moyenne et ses valeurs», entretien avec Nicolas Becquelin», Le Monde, 27/1/2014.
13. «Chasing the Chinese Dream», cit.
14. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (www.sipri.org/research/armaments/milex/recent-trends). Precisiamo che le cifre ufficiali sono di solito rettificate dagli istituti di ricerca per via della loro scarsa attendibilità (in generale le spese militari sono sottostimate).
15. Si veda C.A. Thayer, «Asean, China and the Code of Conduct in the South China Sea», SAIS Review of international Affairs, estate-autunno 2013, vol. 33, n. 2, pp. 75-84.
16. H. Clinton, «America’s Pacific Century», Foreign Policy, 11/10/2011 (www.foreignpolicy.com/articles/2011/10/11/americas_pacific_century?wp_login_redirect=0).
17. «Xi: China to Promote Cultural Soft Power», Xinhuanet, 1/1/2014 (news.xinhuanet.com/english/china/2014-01/01/c_125941955.htm).
18. J.S. Nye, «What China and Russia Don’t Get About Soft Power», Foreign Policy, 29/4/2013 (www.foreignpolicy.com/articles/2013/04/29/what_china_and_russia_don_t_get_about_soft_power#sthash.zosjhg1K.ZTpu10MK.dpbs).
19. Si veda A. Godet, «Le rêve américain dans la rhétorique présidentielle américaine moderne (1937-2010)», La Clé des langues (ENS Lyon/Dgesco), aggiornato il 31/8/2010 (cle.ens-lyon.fr/anglais/le-reve-americain-dans-la-rhetorique-presidentielle-americaine-moderne-1937-2010-p-2-101936.kjsp?RH=CDL_ANG100107).
20. Charta 08, citato in J-Ph. Béja, «Lointains héritiers de la Charte 77, des intellectuels chinois lancent la Charte 08», Esprit, febbraio 2009. [Il testo dell’appello è stato pubblicato in italiano su MicroMega 1/2009.]
*Pubblicato originariamente con il titolo «Après le rêve américain, le rêve chinois?», Esprit, «Le nouveau désordre mondial», agosto-settembre 2014.