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 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

PD-COOP INTRECCIO PERVERSO

Nell’unica riforma anti-corruzione varata in Italia dal 2000 ad oggi si nasconde una sorpresa tinta di rosso: la norma più criticata, quella che ha diviso in due il reato di concussione, è servita prima di tutto a salvare le grandi cooperative edilizie emiliane da un processo potenzialmente rovinoso. Favorendo anche un imputato politico di primo piano, l’ex numero uno del Pd lombardo Filippo Penati. Quando la tagliola della prescrizione ha annientato le accuse più gravi, però, i magistrati di Monza hanno trasmesso ad almeno due procure emiliane le notizie di reato più compromettenti. Ricavate da intercettazioni e da altri elementi d’accusa che hanno fatto sospettare l’esistenza di un «livello nazionale» di rapporti tra affari e politica. Una specie di partito-azienda in versione di sinistra. O meglio, un partito-ombra, totalmente sconosciuto agli elettori, in grado di gestire i traffici di appalti e tangenti. E perfino di cambiare le leggi e condizionare le decisioni del parlamento per garantire l’impunità.
L’inchiesta di Monza non ha potuto essere confermata né smentita dai processi, azzerati sul nascere proprio dalla riscrittura del reato di concussione, ma certamente non è liquidabile come un’accusa isolata. Altri indizi di un possibile «sistema nazionale», che potrebbe collegare alcune tra le maggiori cooperative rosse con una parte del Pd, sono stati raccolti dai pm milanesi che continuano a indagare sull’Expo, dopo aver ottenuto la prima raffica di patteggiamenti. Anche i magistrati veneziani che hanno scoperchiato lo scandalo del Mose, spingendo decine di imprenditori a confessare, hanno raccolto testimonianze su presunti accordi segreti tra le cooperative venete e i colossi emiliani per spartirsi, con la benedizione delle rispettive correnti locali e nazionali del Pd, gli appalti miliardari di Venezia.
Oggi gli interrogativi sul grado di coinvolgimento della sinistra nel malaffare politico-affaristico sono tornati di drammatica attualità con le retate di “Mafia Capitale”. L’inchiesta della Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone ha rivelato un’alleanza trasversale tra il cooperatore rosso Salvatore Buzzi e l’ex terrorista di destra Massimo Carminati, ora in cella come capo di un’organizzazione mafiosa cresciuta con la corruzione. Lo scandalo ha travolto l’amministrazione nera di Gianni Alemanno, ma ha colpito anche importanti esponenti del Pd laziale, riaprendo una polemica che viene da lontano: i compagni che rubano sono solo “mele marce” o frutti avvelenati di un “sistema”?
Le Procure più attive nella lotta alla corruzione inseguono da più di vent’anni il fantasma di un possibile «livello nazionale» delle tangenti rosse. Nel 1992-94 i magistrati del pool Mani Pulite erano riusciti a provare che l’allora Pci, a Milano, era dentro nel «sistema»: le tangenti sugli appalti venivano divise tra i partiti di maggioranza e opposizione con percentuali prefissate. A beneficiare del malaffare milanese però era solo la corrente migliorista, alleata con il Psi di Craxi. In un unico caso, con le corruzioni per gli appalti dell’Enel, i magistrati dimostrarono il coinvolgimento del Pci a livello centrale. Di qui la condanna definitiva di Primo Greganti come tesoriere nazionale delle tangenti rosse. Il suo silenzio, nonostante una lunghissima carcerazione preventiva, ha però impedito di smascherare i suoi complici nella sinistra, anche perché il “compagno G” aveva approfittato della crisi del Pci per tenersi le ultime mazzette e comprarsi una casa a Roma.
Vent’anni dopo, nonostante o forse a causa di quella condanna, Greganti ha potuto rimettere le mani sui grandi appalti dell’Expo. Nel 2013-2014 il suo ruolo è cambiato: non porta più le tangenti al partito, ma le intasca per sé, insieme all’altro pregiudicato berlusconiano Gianstefano Frigerio e a nuovi faccendieri di centrodestra. Le microspie della Procura registrano che nella Tangentopoli di oggi sono proprio i faccendieri a «formare le squadre» di imprese che vincono gli appalti dell’Expo. E quando confessa le sue corruzioni, anche l’industriale Enrico Maltauro conferma di essersi associato alle cooperative rosse, come la Manutencoop o la Cefla di Imola, «per avere una copertura politica a sinistra».
Maltauro è il primo a parlare ai magistrati di «un sistema illecito nazionale» e a fare i nomi dei presunti protettori politici dei faccendieri: «Greganti mi parlava di Bersani, Fassino, Burlando e Sposetti; Frigerio aveva come riferimenti Berlusconi, Letta, Lupi e Maroni». Nessuno di loro è indagato: le inchieste non hanno accertato alcun versamento ai partiti. Piuttosto, sono le imprese che sembrano diventate correnti: il Manuale Cencelli applicato agli appalti. L’odore di «sistema» torna fortissimo se, accanto alle indagini, si tiene d’occhio il parlamento. Il 14 ottobre 2013 l’imprenditore Maltauro, che ignora di essere intercettato, spiega a Frigerio perché dovrà rinunciare a un alleato come la cooperativa rossa Cmc di Ravenna: «Abbiamo un problema molto pesante, molto serio, con i nostri amici di Cmc... C’è stata una richiesta del pm di bloccare l’operatività dell’azienda... Quindi, se vedi Primo (Greganti) gli dici: scusa, adesso vediamo come fare...». Il «problema» che spinge Maltauro a rinunciare alla Cmc per puntare sulla Manutencoop è l’inchiesta sul porto di Molfetta: oltre 150 milioni di euro sprecati in un tratto di costa minato da migliaia di ordigni inesplosi. Principale indagato è l’ex sindaco Antonio Azzolini, ora senatore del Nuovo Centrodestra. Il 4 dicembre scorso il Senato ha negato alla procura di Trani l’autorizzazione a usare come prove le intercettazioni del politico. Gli atti parlamentari registrano un voltafaccia del Pd: l’ex pm Felice Casson era favorevole alle intercettazioni, ma la maggioranza del partito lo ha sconfessato. Forse è solo un caso. O forse Maltauro conosce davvero il «sistema»: se il partito di Alfano e Lupi pensava al suo senatore, magari «il problema» del Pd era proprio la Cmc.
A Monza la Procura è salita ancora più in alto, mettendo sotto inchiesta il Consorzio Cooperative Costruzioni (Ccc) di Bologna, un colosso con 240 imprese associate e 20 mila dipendenti, guidato da Omer Degli Esposti. L’accusa più grave, rivolta in primis al democratico Penati, riguardava la maxi-area dell’ex Falck: per renderla edificabile il politico avrebbe preteso dieci milioni di euro, incassandone almeno due tra il 2000 e il 2003, versati da due imprenditori che poi hanno confessato. In aggiunta, i proprietari dei terreni, Luca e Giuseppe Pasini, si sarebbero sentiti imporre un ricatto economico: affidare i lavori residenziali alla Ccc; e pagare altri 2,4 milioni, mascherati da false consulenze, a due professionisti, indicati come presunti tesorieri di Degli Esposti.
Importanti conferme a queste accuse sono arrivate da altri due grandi imprenditori: sia Edoardo Caltagirone che l’allora amministratore delegato della Falck hanno testimoniato che, per fare affari edilizi in una città rossa come Sesto San Giovanni, bisognava per forza trattare con la Ccc. E pagare i due presunti consulenti-tesorieri di Degli Esposti. La Ccc, per inciso, è ricomparsa nell’affare immobiliare dell’ex Falck anche con la nuova proprietà (non indagata).
Convinti di avere «prove plateali» sul sistema Penati-Pd-Ccc, i pm di Monza chiedono il rinvio a giudizio il 24 settembre 2012. La legge Severino viene approvata il 6 novembre ed entra in vigore il 14: l’effetto è la prescrizione immediata della «concussione per induzione» contestata alla Ccc. Anche Penati, dopo aver dichiarato di voler sfidare in aula i suoi accusatori (rimarcando che Pasini padre si candidò con Forza Italia), alla fine approfitta del colpo di spugna e ora resta imputato solo delle corruzioni meno gravi. Mentre Degli Esposti e la sua Ccc non sono stati neppure processati.
Di tutta l’istruttoria monzese, a questo punto restano aperti sono i tronconi inviati ad altre procure: i magistrati di Monza hanno intercettato, tra l’altro, colloqui riservati tra Omer Degli Esposti e alcuni parlamentari della vecchia guardia del Pd tra cui lo storico tesoriere nazionale Ugo Sposetti. E nel mirino c’è sempre il «sistema» cooperative-partito.
Anche a Venezia spuntano nuove piste investigative sul malaffare di sinistra. Piergiorgio Baita, l’ex manager della Mantovani spa, ne ha parlato per primo negli interrogatori-fiume in cui si giocava la scarcerazione e il futuro dell’azienda di cui era anche azionista. Il punto da chiarire era molto delicato: nel Consorzio Venezia Nuova (Cvn), la cabina di regia del Mose, hanno trovato posto le cooperative rosse venete, riunite nel Coveco, ma anche il colosso emiliano Ccc, rappresentato dal solito Omer Degli Esposti. Eppure a gestire tutti i traffici di fondi neri e tangenti, con soci del calibro di Mantovani, Condotte, Mazzi-Fincosit e altri signori degli appalti, sembrano essere solo i cooperatori veneti. Baita risponde ai pm rivelando che sul Mose sarebbe esistito «un accordo». ovviamente riservato, «tra le cooperative venete e quelle emiliane». Il verbale integrale sembra una lezione: «I consorzi di cooperative sono entità che dovrebbero coordinare tutte le cooperative associate», spiega Baita. «La prima finalità è di squisita matrice imprenditoriale: consentire a una cooperativa di utilizzare i requisiti di un’altra associata per partecipare a bandi di gara... Per questo ci sono consorzi di tipo nazionale o locale: il più grosso dei nazionali è il Ccc di Bologna, quelli locali sono il Coveco nel Veneto, l’Etruria in Toscana...».
Ed eccoci a Venezia: «Chi dovesse rappresentare le cooperative nel Cvn è stato oggetto di un aspro scontro tra il consorzio nazionale di Bologna e i locali del Coveco», dichiara Baita. Che precisa: «Il Coveco è storicamente un associato di Venezia Nuova, mentre il Ccc è entrato più recentemente». Quando? «Quando c’era Bargone ministro dei Lavori pubblici, che ne chiese l’inserimento nella compagine del Mose». Per l’esattezza Antonio Bargone è stato sottosegretario ai Lavori Pubblici nei governi Prodi, D’Alema e Amato dal 1996 al 2001; poi è diventato presidente di una società autostradale. Dopo il suo intervento, sempre secondo Baita, «all’interno del Cvn non si capiva più chi dovesse rappresentare le cooperative: se il rappresentante del Ccc di Bologna, Degli Esposti, o quello del Coveco: la mediazione fu favorita da Giovanni Mazzacurati». Il presidente-padrone del Cvn, conclude Baita, decise di lasciare un veneto, Pio Savioli, in grado di «fare da equilibrio tra i due consorzi e le varie parti politiche che rappresentano, perchè il Coveco faceva riferimento a una certa sfera di sinistra e il Ccc a un’altra». Un gran bel patto tra affari e politica: per una sinistra serenissima.