Riccardo Staglianò, il Venerdì 19/12/2014, 19 dicembre 2014
LA VERA STORIA DEL CECCINO KYLE E DEL SUO UNICO ERRORE FATALE
Aveva cominciato con una donna. Fine marzo 2003, nella zona di Nassiriya. Lei si stava avvicinando a una decina di marine quando tirò fuori da sotto la tunica un oggetto giallo. Lui la seguiva dal mirino telescopico, appostato sopra un tetto. Era una granata, disse il suo capo ordinando di sparare. «Un colpo, un’uccisione» è il motto dei cecchini. Così fu. Benvenuto in Iraq, soldato Chris Kyle. Anni dopo scriverà: «Sparare era il mio compito, e non lo rinnego» e «salvai diversi soldati, le cui vite valevano chiaramente di più dell’anima perversa di quella donna». Un mirino davvero potente per potersi spingere, senza il minimo dubbio, in quelle profondità. D’altronde il suo plotone si era dipinto il Punitore, un supereroe giustiziere della Marvel, sul giubbetto antiproiettile e sull’elmetto. Centocinquantanove bersagli centrati dopo, il giovanotto del Texas era diventato una leggenda. Il più letale cecchino della storia americana, come recita il sottotitolo della sua autobiografia American Sniper (Mondadori, pp. 350, euro 18). Se le avessero seppellite tutte insieme le sue vittime avrebbero riempito una fossa comune degna dei narcos. Lui, autentica arma di distruzione di massa tra le farlocche annunciate allora, sembrava digerire bene il pesante record. La parte più difficile erano i ritorni a casa, tra una missione e l’altra. È così per tutti i reduci e Kyle, ormai star, voleva dare una mano. A tutti, compreso il venticinquenne disturbato che ebbe la pessima idea di portare con sé a un poligono vicino casa.
Se non fosse per il sanguinoso paradosso della sua fine, quella di Chris Kyle sarebbe una storia eccezionale solo a metà. Per un bimbo di Odessa, Texas, che ha imparato a sparare a otto anni, prima ancora di andare in bicicletta, avere una mira inesorabile non era poi così sorprendente. Il padre, insegnante e diacono, lo porta a caccia di fagiani, quaglie e cervi. A Kyle piace la vita nei ranch. Diventa bravissimo nel rodeo sino a quando un cavallo selvaggio non gli rovina addosso e gli spezza qualche costala e il polso. Carriera finita. Anni dopo le stesse viti usate per rimettergli insieme il metatarso rischiano di impedirgli anche quella per cui si sente più portato, entrare nelle Operazioni speciali della marina. Si addestra a Coronado, California, dove ha sede il Team Three dei Seals (il Six, al quale i suoi superiori lo candideranno, è quello che diventerà celebre per aver ucciso Bin Laden). Piccolissime micidiali unità per operazioni segrete che, il più delle volte, non devono lasciare traccia. Tra i corsi c’è la versione estrema del Sere, che sta per Survival, Evasion, Resistance and Escape, in cui il marine deve riuscire a liberarsi da un sequestro. L’ultra-addestramento dovrebbe ridurre al minimo il contraccolpo dello stress da disturbo post traumatico di cui, a vari livelli, un quinto dei reduci soffre. Gli sniper più di altri, perché loro la morte del nemico la vedono ad alta risoluzione, magnificata in ogni dettaglio splatter dal mirino telescopico.
Kyle non perde nessuna puntata importante del film tragico della guerra in Iraq. A Ramadi nel 2006 ne fa fuori così tanti che gli insorti mettono una taglia da 20 mila dollari sulla sua testa (per identificarlo affiggono sui muri foto della croce rossa da crociato che ha tatuata sul braccio) e lo battezzano il Diavolo di Ramadi. Pare che una volta infili due nemici seduti uno dietro l’altro su un motorino con un colpo solo («Quando il tuo mestiere è uccidere la gente, diventi creativo»). Un’altra, nell’assedio di Sadr City del 2008, fa fuori un bersaglio lontano quasi due chilometri (l’equivalente di una passeggiata di mezz’ora). Per una specie di eccidio personale durante la battaglia di Falluja riceve la Silver Star Medal, prima di una serie di riconoscimenti. Intanto, accanto a lui, i suoi commilitoni muoiono. Nel libro racconta di volti dilaniati dalle schegge o di un buon amico centrato in bocca. È un’orgia di sangue, non solo iracheno. È la guerra. È il suo mestiere, che lui svolge con una dedizione agghiacciante («Odiavo quei dannati selvaggi. Non ho ucciso persone col Corano in mano. Mi sarebbe piaciuto, ma non l’ho fatto»).
A casa la moglie Taya, con due figli piccoli, non ne può più di fare la vedova bianca. Ogni volta che torna le cose vanno sempre peggio. Dorme poche ore a notte. Si risveglia prendendo a pugni i fantasmi che lo ossessionano. Una volta, nel sonno, le stringe il braccio così forte da farle temere che glielo stia per spezzare. Bere è un anestetico. Prima birra, poi whisky, sino a quando non si schianta in auto contro una palizzata. Lo rilasciano perché è già un eroe. I periodi al fronte hanno alzato irreversibilmente l’asticella della sua aggressività. Vede uno che dà uno schiaffo alla fidanzata e lo massacra di botte. Ogni scusa è buona per fare a cazzotti. Nel 2010 un editor di Harper Collins gli propone di raccontare la sua vita. Lui accetta e gli affiancano uno scrittore e un avvocato. Il memoir venderà oltre un milione di copie, ma la fama non riempie il ground zero che il fronte gli ha scavato dentro. Taya gli dà un ultimatum: o torna a casa o lei lo lascia. Kyle Bass, un gestore di hedge fund che ha fatto fortuna scommettendo sui mutui subprime, cerca di riverginarsi aiutando i veterani. Conosce Kyle e gli finanzia la Craft International, che insegnerà l’arte della guerra ai privati.
La sua vita è rientrata nei binari, dopo aver rischiato di deragliare per sempre. Kyle racconta che, all’indomani dell’uragano Katrina, quando New Orleans sembrava la rappresentazione tridimensionale dello stato di natura hobbesiano, lui e un amico fanno il tiro a segno sui criminali per strada. Ne lascerebbero a terra trenta ma la storia non trova conferme. Un’altra volta, mentre fa il pieno da un benzinaio, due messicani provano a rubargli la macchina. Lui finge di consegnare le chiavi ma estrae una Colt 1911 e li uccide prima che possano dire disculpe. Nessuno sceriffo però ne ha sentore. Infine c’è la lezione che avrebbe dato a Jesse Ventura, leggenda del wrestling oltre che ex governatore del Minnesota. A un raduno di reduci avrebbe osato parlare male di Iraqi Freedom e delle sue vittime a stelle e strisce. A Kyle va il sangue alla testa e lo stende. Peccato che Ventura smentisca tutto, faccia causa e vinca un risarcimento da quasi due milioni di dollari. Apparentemente l’eroe, non potendo più fissare nuovi record al fronte, doveva alimentare il forno del proprio testosterone con della legna posticcia.
Tragicamente vero è, invece, il finale. Kyle è tornato nel villaggio dove è nato, a sud di Dallas. Mentre accompagna i bimbi a scuola una signora disperata lo avvicina. Ha un figlio tornato dall’Iraq con un bagaglio psicologico che non riesce a disfare. Attacca briga con tutti, entra e esce dalle cliniche. Magari lui, che c’è già passato e ha una fondazione per il recupero dei combattenti, potrebbe aiutarlo. Di certo ci può provare. Una mattina Kyle e un suo amico lo portano al poligono, il loro corrispettivo del bar o della bocciofila. Ma il ragazzo, dimesso frettolosamente da un centro mentale, ha demoni ancora più minacciosi di quelli con cui aveva dovuto fare i conti l’American Sniper. Che, per una volta, si rilassa. Nella sua semplificata visione del mondo good guys e bad guys erano facili da riconoscere, anche a chilometri di distanza. Il marine texano non rientrava certo nella seconda categoria. Ha così avuto buon gioco nel prendere uno dei fucili, freddarlo e consegnarlo alla fine assurda di uno sopravvissuto all’inferno sunnita e sciita, ma non al cristianissimo giovanotto della porta accanto.
Riccardo Staglianò