Marco De Martino, Vanity Fair 17/12/2014, 17 dicembre 2014
NON APRITE QUELLA SCATOLA
Premessa: quando racconta della sua carriera J.J. Abrams, creatore della serie Lost e regista della prossima trilogia di Star Wars, finisce inevitabilmente a parlare di suo nonno. Lo fa anche con me. È stato infatti nonno Harry Kelvin, che aveva un’azienda di elettronica, a dare al piccolo J.J. la sua prima telecamera, la stessa che avete forse visto nelle mani dei ragazzi protagonisti del suo film intitolato, appunto, Super 8.
Con nonno Harry, il piccolo J.J. girava per Manhattan e un giorno finirono in un negozio di articoli per maghi e prestigiatori. Lì, per 15 dollari, Abrams comprò una Mystery box, una scatola piena di oggetti misteriosi. E non l’ha mai aperta.
La tiene nel suo ufficio, che mi porterà a visitare alla fine dell’intervista. Arrivarci però è un’avventura da film, che inizia quando il taxista si ferma davanti all’indirizzo di Santa Monica della Bad Robot, la casa di produzione di J.J. Abrams. Sorpresa: sul palazzo c’è scritto «Azienda nazionale macchine per scrivere», non perché lo fosse in precedenza (era una tintoria industriale), ma solo perché (come avrete ormai capito) a J.J. Abrams piacciono i misteri. Vicino al portone, una luce verde pulsa accanto a una scritta che dice: «Siete pronti?».
Dentro è come essere in quel negozio di articoli per piccoli maghi: sugli scaffali ci sono i busti di Spock e del capitano Kirk usati nello Star Trek diretto da Abrams, varie navicelle spaziali Enterprise, scatole di giochi da tavolo di Mission: Impossible (lui è stato regista del terzo episodio della serie) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (uno dei suoi film preferiti). Ci sono anche bacheche piene di coleotteri, vecchi telefoni, maschere di scimmie, teschi, statuette di supereroi. C’è un albero di Natale di fianco a una sala dove alcuni giovanissimi hipster stanno lavorando il legno come tanti piccoli elfi. Un poster riporta il motto del giorno dell’azienda Bad Robot: «Non posso tornare a ieri perché allora ero una persona diversa» (Lewis Carroll).
J.J. Abrams arriva in perfetto orario, in jeans e camicia di flanella, e mi offre un caffè nel bar aziendale. Ovviamente ci vediamo per parlare del suo ultimo mistero, che non è un film ma un libro, da lui creato con lo scrittore Doug Dorst. Si intitola S. La nave di Teseo, e ha l’aspetto di un libro pubblicato nel 1949 da V.M. Straka, un autore inventato. Basta però aprire il volume per scoprire tra le pagine cartoline, fotografie, lettere, foto. E per risolvere il mistero del libro bisogna leggere non solo il finto romanzo, ma anche le note scritte in corsivo ai margini del testo da due lettori – Jen ed Eric – che, mentre flirtano tra loro, indagano sul mistero dell’identità di Straka. «L’idea mi è venuta quando ho trovato in aeroporto un romanzo con una nota che invitava chi avesse trovato il libro, dopo averlo letto, a lasciarlo a disposizione di qualcun altro. Ho cominciato a chiedermi: come sarebbe una relazione nata dentro a un libro?».
Sembra una scommessa sul futuro dell’editoria cartacea.
«È soprattutto un tributo al romanticismo del libro fisico, che ti permette un’esperienza unica: questo romanzo non può essere letto nello stesso modo da due lettori diversi. È un atto d’amore verso l’oggetto libro, che a volte io amo più di quello che contiene. Sono un fanatico della rilegatura, amo capire come sono costruiti i libri, e non mi faccia parlare di cartotecnica perché andrei avanti per ore. Proprio ieri ho comprato un libro sul packaging strutturale, con tanto di dvd che insegna come costruire un volume».
È bravo?
«È come con la musica: so suonare, ma quando vedo un vero musicista sto zitto. La cosa più difficile è la legatura delle pagine: ci sono trucchi, tecniche, puoi usare delle graffette per evitare la cucitura delle pagine, che richiede mani veramente esperte. La rilegatura è un’arte, ma è bellissimo sapere che puoi fare anche tu qualcosa, per esempio una copertina: prima che lei arrivasse stavo tagliando del cartone per il nostro regalo di Natale aziendale».
Ma scusi, lei non dovrebbe essere occupato a fare gli effetti speciali di Star Wars?
«Guardi che rilegare un libro e lavorare con la computer graphic è la stessa cosa: nella nostra art room, quella dove ha visto lavorare i ragazzi che preparano i regali, abbiamo stampanti 3D ma anche presse per la lavorazione della pelle, una macchina per la serigrafia e una per ricamare. Questo libro, che sembra un oggetto antico, non sarebbe mai stato possibile senza il digitale. E in Star Wars vedrete effetti speciali quasi artigianali, mentre abbiamo usato nuove tecnologie più per togliere che per aggiungere. Guardi una scena che ti sembra incredibile e viene fuori che abbiamo levato digitalmente una gamba».
Star Wars uscirà tra un anno, ma già si sono scatenate polemiche infinite per i pochi secondi di trailer che lei ha diffuso: come fa fronte alla pressione dei fan?
«Quando diventa troppa, mi concentro sul lavoro: è come quando devi scalare una montagna troppo alta, e allora ti concentri sui singoli passi. Sarebbe un incubo se non sapessi che abbiamo fatto un lavoro fantastico, di cui non potrei essere più che soddisfatto. È l’unico rifugio che ho. Ma d’altra parte capisco i fan: lo sono stato anch’io, e penso che essere ossessionati da qualcosa sia fondamentale».
E lei di chi è stato fan?
«Di tanti, da piccolo scrivevo lettere ai miei idoli. Scrissi anche a Dick Smith, un truccatore mitico che aveva lavorato al Padrino e a tanti altri film: lui rispose mandandomi una scatola con dentro una delle lingue che aveva usato per L’Esorcista. Ce l’ho ancora».
La passione per il cinema viene da suo nonno?
«E dai miei genitori, che diventarono produttori proprio quando io cominciavo ad appassionarmi ai film: mi portavano a visitare gli studios, fu un sogno. Nonno ebbe un’altra funzione importantissima: mi mostrava come funzionavano le cose. Insieme smontammo una radio, un telefono: vedere che cosa azionava il campanello della suoneria mi aprì un mondo. Ricordo che quando andai a Disneyland girai l’attrazione dei Pirati dei Caraibi al contrario, e scoprii che simulavano un incendio con il cellophane e le luci gialle e rosse: fu bellissimo. Io vado pazzo per i trucchi, per i giochi di prestigio».
Li fa spesso?
«Anche stamattina, quando ho portato a scuola mio figlio di 8 anni: giriamo sempre con un mazzo di carte a testa e stavamo provando a mischiare usando una tecnica complicatissima che dopo otto mescolate riporta il mazzo nella sequenza da cui hai iniziato. Purtroppo non ho delle carte qui, le farei vedere come si fa».
Ha regalato una Mystery box anche ai suoi figli?
«Al piccolo, con cui facciamo i trucchi con le carte, non ancora: devo sbrigarmi. A mio figlio maggiore, che ora ha 16 anni, ne ho data una quando era bambino: ce l’ha ancora e, come me, non l’ha ancora aperta. Mia figlia invece l’ha aperta subito».
Ma scusi, perché non la apre?
«Perché così posso continuare a immaginare quello che c’è dentro, e l’immaginazione a volte è più importante della conoscenza. Anche quando racconti una storia è importante nascondere delle informazioni, fare in modo che la gente abbia voglia di arrivare fino in fondo. Viviamo nell’era dell’impazienza, tutti vogliono tutto subito, mentre il viaggio che ti porta alla meta è una delle cose più belle della vita».
C’è un segreto per creare belle storie?
«Ho fatto una domanda simile a Jim Brooks, quello che ha scritto Dentro la notizia e tanti altri film che amo: mi ha guardato come se fossi pazzo. Non c’è proprio nessun segreto. Venga, le faccio visitare gli uffici».
Mi porta nella art room a guardare i ragazzi alle prese con le scatole del regalo aziendale. Poi in una piccola sala di registrazione dove un supernerd sta preparando effetti speciali usando un sintetizzatore modulare da cui spuntano decine di cavi. J.J. Abrams gli chiede di mandargli una email per dirgli quali sono le marche migliori, quello risponde: «Sei sicuro di voler iniziare questa relazione? Può diventare un’ossessione». «Sì, lo so, ma so anche che non voglio sposarmi, è solo un rapporto occasionale», gli risponde Abrams.
Saliamo al secondo piano, nella sua suite di uffici, dove mi presenta la moglie, l’attrice Katie McGrath. Quando siamo di nuovo soli apre un cassetto. Dentro ci sono decine di mazzi di carte nuovi. Ne apre uno: «Le faccio vedere un trucco». Separa il mazzo e ci prova un volta: non ci riesce. Ci prova la seconda: neppure. «Il mazzo è suo», dice alla fine regalandomelo. E io esco pensando di avere vissuto un’esperienza unica: ho visto qualcosa che il regista, produttore, autore, rilegatore, prestigiatore J.J. Abrams non sa ancora fare.
simulavano un incendio con il cellophane e le luci gialle e rosse: fu bellissimo. Io vado pazzo per i trucchi, per i giochi di prestigio».
Li fa spesso?
«Anche stamattina, quando ho portato a scuola mio figlio di 8 anni: giriamo sempre con un mazzo di carte a testa e stavamo provando a mischiare usando una tecnica complicatissima che dopo otto mescolate riporta il mazzo nella sequenza da cui hai iniziato. Purtroppo non ho delle carte qui, le farei vedere come si fa».
Ha regalato una Mystery box anche ai suoi figli?
«Al piccolo, con cui facciamo i trucchi con le carte, non ancora: devo sbrigarmi. A mio figlio maggiore, che ora ha 16 anni, ne ho data una quando era bambino: ce l’ha ancora e, come me, non l’ha ancora aperta. Mia figlia invece l’ha aperta subito».
Ma scusi, perché non la apre?
«Perché così posso continuare a immaginare quello che c’è dentro, e l’immaginazione a volte è più importante della conoscenza. Anche quando racconti una storia è importante nascondere delle informazioni, fare in modo che la gente abbia voglia di arrivare fino in fondo. Viviamo nell’era dell’impazienza, tutti vogliono tutto subito, mentre il viaggio che ti porta alla meta è una delle cose più belle della vita».
C’è un segreto per creare belle storie?
«Ho fatto una domanda simile a Jim Brooks, quello che ha scritto Dentro la notizia e tanti altri film che amo: mi ha guardato come se fossi pazzo. Non c’è proprio nessun segreto. Venga, le faccio visitare gli uffici».
Mi porta nella art room a guardare i ragazzi alle prese con le scatole del regalo aziendale. Poi in una piccola sala di registrazione dove un supernerd sta preparando effetti speciali usando un sintetizzatore modulare da cui spuntano decine di cavi. J.J. Abrams gli chiede di mandargli una email per dirgli quali sono le marche migliori, quello risponde: «Sei sicuro di voler iniziare questa relazione? Può diventare un’ossessione». «Sì, lo so, ma so anche che non voglio sposarmi, è solo un rapporto occasionale», gli risponde Abrams.
Saliamo al secondo piano, nella sua suite di uffici, dove mi presenta la moglie, l’attrice Katie McGrath. Quando siamo di nuovo soli apre un cassetto. Dentro ci sono decine di mazzi di carte nuovi. Ne apre uno: «Le faccio vedere un trucco». Separa il mazzo e ci prova un volta: non ci riesce. Ci prova la seconda: neppure. «Il mazzo è suo», dice alla fine regalandomelo. E io esco pensando di avere vissuto un’esperienza unica: ho visto qualcosa che il regista, produttore, autore, rilegatore, prestigiatore J.J. Abrams non sa ancora fare.