Rodolfo Casadei, Tempi 18/12/2014, 18 dicembre 2014
IL JIHAD DELL’ORO NERO
GLI INTERROGATIVI sulle conseguenze del crollo del prezzo del petrolio – meno 40 per cento fra giugno e oggi, un salto all’indietro dai 108 ai 60 dollari al barile – si riducono a uno: crollerà prima l’industria dello shale oil americana, la folla di piccoli produttori indipendenti che ha reso possibile il miracolo dell’imminente autosufficienza energetica degli Stati Uniti, oppure crolleranno prima i regimi politici di paesi produttori come Venezuela e Nigeria, o addirittura come Iran e Russia? Tutto il resto è chiaro, tutte le altre domande hanno già una risposta. È chiaro chi sono i vinti e chi i vincitori: quando il risparmio sulla bolletta petrolifera equivale a un trasferimento di 1.300 miliardi di dollari dai paesi produttori a quelli consumatori, lo capisce anche un bambino chi ci perde e chi ci guadagna nell’immediato. Ci perdono l’Arabia Saudita, la Libia, l’Iraq, l’Angola, il Messico, la Russia, il Venezuela, la Nigeria, il Canada, la Norvegia. Ci guadagnano l’India, la Cina, il Sudafrica, l’Eurozona, il Giappone, gli Stati Uniti, il Pakistan e la Turchia. L’Italia, secondo il Wall Street Journal, risparmierà 15 miliardi di dollari in un anno. Che si spera non saranno interamente assorbiti dalle tasse sulla benzina, come hanno fatto in passato tutti i governi italiani. È ovvio che ci perdono sia le grandi compagnie petrolifere, quelle private come quelle di Stato, sia le piccole aziende statunitensi dello shale oil americano. Chiare e semplici sono anche le ragioni per le quali si è arrivati al crash del prezzo del greggio: la strutturale flessione dei consumi di petrolio e gas naturale in Europa (fra il 2004 e il 2013 i quattro maggiori consumatori europei, Germania, Francia, Regno Unito e Italia, sono passati da 661,4 a 561,5 milioni di tonnellate di equivalente petrolio all’anno, che vuol dire meno 15 per cento in un decennio), il rallentamento della crescita economica energivora della Cina e l’irruzione sul mercato del petrolio e del gas di scisto, soprattutto di produzione statunitense, meglio noti come shale oil e shale gas. La domanda si è contratta, l’offerta è cresciuta: i prezzi potevano solo sprofondare. Ed è ovvio, infine, che prima o poi i prezzi rimbalzeranno verso l’alto. Ma prima che questo accada, potrebbero verificarsi rivolgimenti geopolitici di grandissima portata. Dietro l’andamento attuale del prezzo del petrolio non c’è nessun complotto, a condurre le danze è la legge della domanda e dell’offerta. Però questo andamento non può non avere conseguenze politiche, e il fatto che chi potrebbe fare qualcosa per cercare di scongiurare queste conseguenze non faccia nulla, ha certamente un significato politico.
Chi può intervenire per fare rialzare i corsi in discesa di una materia prima? I produttori, ovviamente. Se riducono l’offerta, il prezzo per unità risalirà. La principale organizzazione di produttori di petrolio è, come si sa l’Opec. I 12 paesi che la compongono assommano l’81 per cento delle riserve conosciute di greggio e rappresentano il 60 per cento delle esportazioni mondiali di petrolio. Se decidono di ridurre la produzione, il prezzo mondiale si rialza. La storia però insegna che quando si è trattato di gestire un eccesso di domanda, il cartello ha funzionato, quando si è trattato di gestire un eccesso di offerta come nel caso attuale il cartello non ha funzionato.
Guerra agli Stati Uniti?
Nel 1973 e nel 1979, le date dei due shock petroliferi, la domanda era forte e l’Opec con le sue politiche ha spuntato grandi rincari. Ma quando si prospetta il taglio della produzione per affrontare situazioni di eccesso di offerta come oggi – si calcola che si stiano estraendo mondialmente quasi 3 milioni di barili al giorno in più del necessario –, l’accordo fra i 12 non si trova. A meno che non si sacrifichi l’Arabia Saudita, il più grande produttore ed esportatore del pianeta: attualmente produce 11,5 milioni di barili al giorno, dei quali 8,5 vengono esportati. Negli anni Ottanta i sauditi ridussero la loro produzione dai 10,2 milioni di barili al giorno del 1981 ai 3,6 del 1985 per far rialzare i corsi del petrolio. Stavolta non hanno nessuna intenzione di accollarsi tagli. La riunione dell’Opec del mese scorso si è conclusa con un nulla di fatto, con grande preoccupazione dei ministri del petrolio di Venezuela e Nigeria, perché l’Arabia Saudita ha messo in chiaro che non avrebbe ridotto la sua produzione nonostante il crollo dei prezzi del 40 per cento nel giro di sei mesi. Se il mercato continuerà, come è probabile, ad andare come va adesso, nel giro di un anno Riyadh perderà qualcosa come 117 miliardi di dollari (rispetto alle entrate che le avrebbe garantito il prezzo del petrolio del giugno 2014), equivalenti al 15,8 per cento del suo Pil. Eppure il comportamento dell’Arabia Saudita ha senso sia in termini di competizione per i mercati dell’energia, sia in termini geopolitici.
Quando il mese scorso l’assemblea dei paesi dell’Opec ha respinto le proposte di chi voleva diminuire la produzione per fare risalire i prezzi, l’amministratore delegato di Pioneer Natural Resources, una delle principali compagnie dello shale oil americane, ha commentato: «L’Opec ha dichiarato guerra all’industria americana». Non è andato molto lontano dalla verità. I sauditi sono convinti che i colpevoli dell’eccesso di offerta siano i nuovi produttori americani, quelli che grazie alle tecniche di trivellamento orizzontale e di fracking (frattura delle rocce contenenti petrolio) hanno portato la produzione statunitense di idrocarburi dai 5,5 milioni di barili al giorno del 2011 ai 9 milioni di barili di fine 2014. Sono anche convinti che il ribasso di prezzi che essi stessi hanno causato finirà, se durerà abbastanza a lungo, per spazzarli via. Spiega Massimo Nicolazzi, uno dei più noti manager italiani del petrolio (Eni, Lukoil e oggi amministratore delegato di Centrex) a un convegno Ispi a Milano: «Per sviluppare un giacimento convenzionale, si investe per 5-8 anni, poi si apre il rubinetto, e per 8-10 anni si ricavano profitti senza bisogno di nuovi investimenti. Invece nello shale oil non c’è giacimento: il petrolio viene dall’attività di fracking. Questo significa che se non allargo le operazioni, l’attività che dà 100 barili dopo un anno me ne dà solo 35. Perciò devo sempre fare investimenti per allargare le attività e continuare a generare profitti. Per fare questo le piccole imprese americane indipendenti devono vendere in anticipo la loro produzione per poter chiedere prestiti alle banche a supporto dei loro investimenti. Perciò sono colpite per prime dalla flessione dei prezzi». Il boom dello shale oil e dello shale gas americano è imperniato sull’indebitamento: l’industria nel suo insieme ha accumulato debito per 163 miliardi di dollari in un decennio. Non tutti i produttori, però, si trovano nella stessa situazione: le compagnie più grandi appaiono in grado di sopportare il debito anche con un prezzo del petrolio basso, quelle più piccole no. Con un barile del petrolio a 70 dollari, imprese grandi come la Eog Resources e la Devon Energy avrebbero debiti pari ai propri profitti annuali prima della tassazione, una posizione sostenibile. Ma altre (Laredo Petroleum, SandRidge Energy) si troverebbero con debiti superiori di quattro volte ai profitti prima della tassazione e anche di più: una posizione insostenibile. Secondo il Financial Times il costo di produzione del barile del settore shale oil americano è di 76 dollari, contro un costo dei paesi Opec inferiore ai 40 dollari (25 circa nel caso dell’Arabia Saudita). Ciò vorrebbe dire che il barile a 60-65 dollari è destinato a spazzare via l’industria americana. Ma così non sarà: è più probabile una selezione darwiniana che permetterà alle aziende più strutturate e meno indebitate di rimpiazzare quelle piccole destinate alla bancarotta. Alcuni prevedono a termine una situazione in cui la produzione di shale oil americano non aumenterà più, ma si assesterà attorno ai valori attuali. E questo avverrebbe anche con un barile a 50 dollari.
Ridimensionamenti e cancellazioni di progetti non riguardano solo lo shale oil, ma anche la produzione tradizionale delle grandi compagnie. Coi prezzi del barile in picchiata, molti investimenti diventano non redditizi e quindi vengono annullati. Si stima che con un prezzo attorno a 70 dollari sarebbero a rischio progetti destinati a entrare in funzione nel 2016 per 1,5 milioni di barili al giorno e nel 2017 per 1 milione di barili al giorno. La BP, già azzoppata dall’incidente della piattaforma Deepwater Horizon nel 2010 per il quale sta pagando 1,4 miliardi di dollari di danni, ha annunciato tagli alle spese per 1 miliardo di dollari l’anno prossimo e migliaia di licenziamenti. Resteranno fermi i progetti di sviluppo del petrolio delle sabbie bituminose del Canada, di quello brasiliano nelle acque profonde dell’Atlantico e anche molti progetti relativi al gas naturale: il suo prezzo è collegato a quello del petrolio, e già si incolonnano le cancellazioni di progetti di infrastrutture portuali di stoccaggio del gas per miliardi di dollari dal Canada all’Australia.
L’Arabia Saudita lascia che i prezzi cadano perché ha l’obiettivo strategico di mettere fuori mercato i produttori americani di shale oil. Ma non solo. Si può dire che sta cercando di prendere due piccioni con una fava. I prezzi bassi del petrolio danneggiano il principale avversario geopolitico dei sauditi: l’Iran. E pure il paese che sta armando e finanziando il regime di Bashar el Assad in Siria, che Riyadh ha giurato di far cadere per sostituirlo con un regime sunnita, cioè la Russia. In valore assoluto i sauditi hanno più da rimetterci degli iraniani e dei russi dalla flessione del grezzo del petrolio, ma sono in condizioni molto migliori per resistere alle pressioni sul bilancio nazionale che ciò comporta. Il Wall Street Journal ha calcolato che, con il barile del petrolio a 71,3 dollari com’era all’inizio di dicembre anziché a 108,5 com’era in giugno, l’Arabia Saudita ci rimette una cifra pari al 15,8 per cento del suo Pil, l’Iran “solo” il 4,9 per cento e la Russia il 4,7. Però l’Arabia Saudita ha 750 miliardi di dollari di riserve valutarie, mentre quelle dell’Iran ammontano solo a 68 miliardi. Teheran spende, secondo gli analisti, 1,5 miliardi di dollari al mese per sostenere i suoi alleati in Siria e in Iraq ed è indebolita dal regime di sanzioni a cui da anni è sottoposta. Mosca sta molto meglio a livello di riserve valutarie: con 428 miliardi di dollari è il sesto paese al mondo nell’apposita classifica. Però sono già diminuite del 20 per cento rispetto a un anno fa, il rublo ha perso il 40 per cento sia sull’euro sia sul dollaro e le sanzioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea rendono difficile il rifinanziamento dei debiti di banche e imprese (quelli dello Stato sono minimi). Nel 2015 gli equilibri di bilancio di Russia e Iran sono destinati a degradarsi ulteriormente: per mantenere la spesa pubblica attuale, Mosca avrebbe bisogno di un barile del petrolio a 107 dollari, Tehran a 131. O taglieranno, o si indebiteranno. Ma le sanzioni in vigore contro i due paesi rendono loro difficile rifornirsi sul mercato internazionale dei capitali.
L’esplosione sociale
Con ogni probabilità, tuttavia, le prime vittime in ordine di tempo di un ribasso durevole del prezzo del greggio non saranno né i produttori di shale oil americano, né la Russia o l’Iran, ma, come nella più classica delle eterogenesi dei fini, due paesi produttori estremamente fragili che con le tensioni mediorientali non c’entrano nulla: il Venezuela e la Nigeria. Lì si rischia veramente l’esplosione sociale nel corso del 2015. A Caracas l’inflazione galoppante, la scarsità cronica di beni di prima necessità e l’aumento dei tassi di povertà sia relativa sia assoluta avevano già messo alle corde il governo di Nicolas Maduro all’inizio di quest’anno, figuriamoci l’anno prossimo, quando gli introiti del petrolio forniranno solo i due quinti delle risorse di cui il regime avrebbe bisogno per chiudere in equilibrio il suo bilancio. Stesso discorso per la Nigeria, che ha più riserve valutarie del Venezuela (39 miliardi di dollari contro 21,1), ma una popolazione molto più numerosa e molto più povera. In dieci anni di crescita a tassi del 7 per cento annuo basata quasi esclusivamente sull’export di idrocarburi, la Nigeria è passata dal 62 per cento al 33,5 di poveri assoluti. Ma un crollo delle entrate petrolifere, mentre il nord del paese è in preda al terrorismo dei Boko Haram, potrebbe far precipitare la situazione. O Caracas, o Abuja: nel 2015 una delle due andrà a gambe all’aria. Oppure tutte e due.