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 2014  dicembre 16 Martedì calendario

L’ARTE MILITANTE FA VINCERE LA BANALITA’

Scritto nel 1885, utile nel 2014, il piccolo libro di James Whistler, Alle dieci di sera (Castelvecchi). Perché allora il problema dell’arte ideologica, della pittura di propaganda, non era poi così grave. Sì, poco prima c’era stato Gustave Courbet, il realista di Funerale a Ornans che aveva fieramente dichiarato: «Le mie simpatie vanno al popolo, e devo rivolgermi direttamente a lui». Sì, poco dopo ci sarebbe stato Pellizza da Volpedo, il divisionista del Quarto stato, della fiumana di proletari illuminata dal sol dell’avvenire. Ma realisti e divisionisti erano ancora fior di pittori e quando si dimenticavano di buttarla in politica ecco che riemergeva la vituperata bellezza. Forse Whistler era preveggente, sapeva che il peggio sarebbe arrivato e per provare a frenarlo decise di tenere una serie di conferenze, fissate appunto alle dieci di sera, da cui poi trasse il libro che ho fra le mani. A Londra, Oxford e Cambridge parlò a favore dell’arte per l’arte, ossia dell’arte «senza pretese di ammaestrare». I suoi eroi si chiamavano Rembrandt, Tintoretto, Velazquez, Veronese: «Non erano riformatori né benefattori, non ambivano a cambiare l’ambiente circostante».
Anche Whistler, oltre che un teorico, era un pittore, un pittore americano però quasi del tutto europeizzato (più che negli Stati Uniti visse a San Pietroburgo, Parigi e Londra). Di lui si ricorda Sinfonia in bianco n° 1, quadro che dovrebbe rappresentare la purezza e però contiene elementi che oggi susciterebbero indignazione sui social: la modella fu amante del pittore quand’era ancora minorenne (dagli al pedofilo!) e sotto i suoi piedi si stende una pelle d’orso (dagli all’ecocida!). Se non fosse un quadro dell’Ottocento, se fosse presentato oggi alla Biennale, femministe e animalisti avrebbero di che strepitare. All’epoca, 1862, venne invece criticato lo stile, secondo alcuni eccessivamente preraffaellita.
Bei tempi quelli in cui una tela veniva giudicata innanzitutto per la forma, il colore, l’esecuzione. Oggi invece se si parla di un’opera d’arte lo si fa solo ed esclusivamente per il suo contenuto o, meglio, per la capacità di scandalizzare che ha il suo contenuto. Valido esempio contemporaneo di arte non per l’arte ma per qualcos’altro è Giuseppe Veneziano, pittore nato in Sicilia nel 1971 e ormai da tempo residente a Milano. Pittore di un certo successo, va detto. Chi apre il suo sito internet si troverà dentro un’orgia con Berlusconi (poteva mancare Berlusconi?) che palpeggia Cicciolina, Hitler (poteva mancare Hitler?) che lega Jessica Rabbit, Mussolini (poteva mancare Mussolini?) che riceve le attenzioni orali di non ho capito chi. Un quadro sconfortante a cominciare dalla qualità pittorica: ma qualcuno si soffermerà mai sulla qualità pittorica di questo quadro? Se al tempo di Whistler eravamo alle dieci di sera, qui siamo a notte fonda. A Londra, Oxford e Cambridge il pittore-conferenziere parlò invano: «Non date ascolto all’urlo dell’indecenza, a quest’ultima arringa del banale».
Fra gli indecenti urlatori di quest’arte non per l’arte ma per qualcos’altro non bisogna mai dimenticarsi Maurizio Cattelan: sarà pure un prepensionato ma il suo dito medio è sempre lì a imbruttire Piazza della Borsa. Dobbiamo sopportarlo ancora a lungo? Quand’è che lo mandiamo in discarica? Non bisogna farsi deviare dalla presunta ironia: il dito di Cattelan contro la Borsa è come il servizio di Milena Gabanelli contro la Moncler, un rigurgito di moralismo, un attacco allo sporco capitalismo. Arte ideologica insomma, così come ideologica è la televisione di Report. Ovviamente non è un fenomeno solo italiano. Al Museo Pecci di Milano, fino all’Epifania che tutte le mostre si porta via, chi proprio vuole potrà vedere la retrospettiva minacciosamente intitolata Gender agendas della californiana Suzanne Lacy: un’artista, dicono, ma a mio avviso innanzitutto una sindacalista, un’attivista, una Femen a seno coperto. Il comunicato stampa parla di «indagine sulla condizione femminile attraverso una forte carica politica e civile, nella considerazione del potere dell’arte come strumento di lotta e di promozione di idee libertarie e progressiste». Insomma un’artista da Otto Marzo e quindi una non artista, l’esatto contrario di quanto auspicava Whistler, pittore dell’impolitico e dell’incontaminato. Un altro anti-Whistler, ennesimo esempio di arte non per l’arte è il celebre Ai Weiwei. Io non dico che non sia effettivamente perseguitato dal regime comunista cinese, dico che se non fosse stato vittima di una persecuzione nessuno avrebbe lodato i puerili mattoncini Lego, i patetici fiori di porcellana, gli scontati aquiloni che compongono la sua ultima mostra di Alcatraz, famoso ex carcere. Nessuno avrebbe osato scrivere che il dissidente di Pechino ha contribuito «al cambiamento di un mondo dell’arte dominato dal carrierismo». Bisognerebbe darsi una calmata, riscoprire il senso del ridicolo e tenere a freno l’adulazione, non stiamo mica parlando di San Francesco: Ai Weiwei la carriera eccome se l’ha fatta. E nel frattempo il mondo dell’arte non è cambiato di un millimetro, ovvio.
L’art-star cinese non mi piace e non sarebbe piaciuta nemmeno a Whistler, contrario a confondere «la bellezza con la virtù». Combattere per la libertà è cosa buona e giusta ma non è sufficiente per produrre l’arte pura che lui praticava e ancor meglio sognava.