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 2014  dicembre 16 Martedì calendario

J’accuse degli storici “Gli editori pensano soltanto al mercato” DICE di parlare a titolo personale, Walter Barberis, colonna della saggistica storica dell’Einaudi

J’accuse degli storici “Gli editori pensano soltanto al mercato” DICE di parlare a titolo personale, Walter Barberis, colonna della saggistica storica dell’Einaudi. «Non esprimo posizioni ufficiali della casa editrice dove lavoro da quarant’anni, anzi». Dice anche che lo Struzzo era leader nel settore della storiografia fino a una ventina d’anni fa, oggi non lo è più. E il suo discorso sembra molto chiaro: un pacato e argomentato atto d’accusa verso le grandi case generaliste che «disinvestono da un settore considerato improduttivo» e «dirottano gli investimenti su altre letterature». Sembra sconfortato Barberis, soprattutto nel confronto tra la stagione d’oro in cui la Storia d’Italia einaudiana in otto volumi vendeva un milione di copie mentre oggi ha successo la «storiografia della provocazione e della stupefazione su Mussolini, Padre Pio e Primo Levi: alludo ai libri di Sergio Luzzatto, evidentemente». Libri che tendono «a sollecitare adesioni e reazioni emotive piuttosto che lasciare lezioni di storia utili alla vita civile». Libri che ha pubblicato anche l’Einaudi. Dentro le nobili mura della Giunta centrale per gli Studi Storici, che oggi e domani festeggia il suo ottantesimo anniversario con un seminario, ci sarà anche l’occasione per togliersi qualche sassolino. La materia scelta dal presidente Andrea Giardina per la sezione di oggi pomeriggio è tra quelle più infiammabili, trattandosi di un matrimonio finito molto male. Editoria e ricerca storica, un sodalizio in affanno, minacciato da mille insidie. Nessun libro di storia — scritto da professionisti della disciplina — riesce ad avere gli onori della classifica. Nessun libro è oggi un fenomeno di massa. L’ultimo exploit, nota Barberis, è stato Il secolo breve di Hobsbawm. Il Carr della rivoluzione sovietica (200mila copie) non esiste più. La Storia delle donne in Occidente di George Duby e Michelle Perrot — successo laterziano in cinque volumi da 250mila copie — è un bel ricordo del passato. Intanto è cambiato il mondo, con internet, il divorzio tra cultura e politica, la regressione dell’università. Ma qualche conto è rimasto ancora in sospeso. E se Barberis — da storico oltre che da editor — appare severo nei confronti della sua stessa casa editrice generalista, con qualche eccezione gli schieramenti si dividono in due. Gli editori accusano gli storici di autismo accademico, pronti a entusiasmarsi davanti a nuove carte ma senza domandarsi se cambino davvero la prospettiva. Gli storici accusano gli editori di badare prevalentemente agli incassi, rinunciando al ruolo di regia culturale. Per Giuseppe Laterza, erede e artefice di un catalogo storico tra i più importanti, «gli storici di oggi dovrebbero tornare a lezione da Benedetto Croce, secondo il quale ogni vera storia è storia contemporanea. Spesso lo studioso che mi propone un libro lo fa perché ha trovato un nuovo archivio, che sarà pure importante nell’ambito della comunità scientifica ma per me non ha alcuna rilevanza se non cambia lo sguardo su un periodo oppure se non risponde a domande del presente. Ecco, le domande. Spesso sono io a farle, mentre mi aspetterei che fosse lo storico a suggerirle». Le ragioni della ricerca non sempre coincidono con quelle dell’editoria. Lo sa bene Ugo Berti, inventore per il Mulino di tanti bei libri di storia: «La ricerca segue i suoi criteri che sono legittimi, ragionevoli. Anche se le vicende dei concorsi fanno sorridere. Mi viene in mente un giovane studioso che rifiutò la mia proposta di un breve manuale perché irrilevante sul piano della sua carriera. Anni dopo mi avrebbe proposto un tomo di cinquecento pagine che per me era insensato, ma perfetto per le sue esigenze accademiche. Che la ricerca abbia o non abbia mercato è per molti un fatto irrilevante». Il problema è che il mercato negli ultimi anni è peggiorato. In libreria, specie per i saggi di cultura, la vidi ta è sempre più difficile. E gli editori si adeguano. Ancora Berti: «Ma noi, con tutto il nostro sussiego intellettuale, saremmo corsi dietro alle grandi firme, ai volti televisivi, ci saremmo buttati così a corpo morto nella fiera degli anniversari? Il lettore va e viene e l’editore deve proporre un prodotto che abbia un impatto immediato. Libri che siano in grado di passare sui giornali e magari in tv, quindi con tesi forti, auspicabilmente controverse, che attacchino, che svelino, magari sputtanino». Il matrimonio tra ricerca e libri rischia di esplodere, anche perché «il mercato diventa più mercantile e allo stesso tempo la ricerca, anche sotto la spinta della valutazione universitaria, tende a diventare più accademica». Quel che si perde, secondo l’editor del Mulino, è la misura intermedia. La storia si chiude nel fortilizio dell’erudizione e i lettori premiano i libri di Valerio Massimo Manfre- e Bruno Vespa. Un tempo la parola chiave era «funzione civile». Barberis ricorda la grande stagione dell’incontro tra il marxismo italiano di matrice gramsciana e la nouvelle histoire di derivazione braudeliana. «La storia era considerata lo strumento analitico su cui costruire la cultura di governo della sinistra italiana». Era l’epoca delle agenzie rateali sparse sul territorio, «che fidelizzavano il cliente e lo invitavano alla formazione di una biblioteca utile ai propri figli». Le opere di Gramsci vendevano 750mila copie, la Storia del Pci di Paolo Spriano circa 500mila. «Poi la politica dimentica la storia e la storia dimentica la politica», sintetizza Barberis. Il ruolo sociale dello storico s’impoverisce. Anche Andrea Giardina, insigne antichista, rimpiange le grandi opere einaudiane e le imprese editoriali laterziane che aprivano nuovi orizzonti culturali. «Oggi l’editore ha rinunciato al ruolo di promozione della ricerca, e dunque di regia intellettuale ». Una critica che Giuseppe Laterza respinge, rompendo il clima di nostalgia. «La promozione della ricerca spetta all’università, non all’editore, che deve dare forma alla ricerca sollecitando il grande pubblico. L’organizzazione culturale continua con nuove modalità come le “Lezioni di storia” per un pubblico vasto, non solo di specialisti, che poi potrebbe essere invogliato ad avvicinarsi al libro. Purché naturalmente sia scritto bene, con chiarezza». Questo per Laterza è un vecchio problema mai completamente risolto. «Non c’è educazione alla scrittura. Spesso mi capita di leggere testi oscuri e involuti. All’Università non c’è alcuna sanzione per chi scrive male. E non è vero che la storia non vende. Vende se scritta bene. I saggi di Emilio Gentile o Alessandro Barbero superano le ventimila copie. E sono libri molto rigorosi». La crisi della storia sembra colpire soprattutto i grandi gruppi, mentre risparmia chi si ritaglia una fisionomia più nitida, tra ricerca accademica e ruolo culturale svolto attraverso libri e riviste. Come la casa editrice Viella, chiamata dalla Giunta storica a testimoniare sul controverso matrimonio tra storia e mercato. «È vero che gli storici di professione spesso ripiegano su temi ultraspecialistici di interesse limitato », dice la fondatrice Cecilia Palombelli. «Ma è anche vero che spesso senza gli studi specialistici e di nicchia è impossibile che si arrivi al grande libro, quello che segna un punto di svolta nella ricerca e che raggiunge un pubblico di massa». Forte di una macchina più agile, e di una rete internazionale, la Viella riesce a trovare un equilibrio anche nei fatturati. E sta per lanciare una collana in lingua inglese, che proponga nel mondo la grande ricerca sulla storia italiana. Riuscirà la disciplina a riconquistare le ammiraglie dell’editoria? Il più sfiduciato appare Barberis, il quale esclude «che possa tornare una stagione favorevole », a breve o medio termine. «Occorrerebbe fare politiche di scouting sui giovani studiosi, investendo e rischiando. E confidando di meno su un prodotto meno internazionale, rintracciabile nelle grandi fiere del libro. Ma l’abitudine a una certa passività è un trend consolidato». Non aiuta poi il clima pubblico. «Non credo nella forza culturale delle compagini politiche in campo, nella loro intenzione di rifarsi alle lezioni del passato per orientare presente e futuro. Formarsi una coscienza storica è come pagare le tasse: se si può, si evita».