Davide Piacenza, Rivistastudio.com 16/12/2014, 16 dicembre 2014
E NON CI LASCEREMO MAI
A Encino, una delle zone con la più bassa densità di popolazione di Los Angeles, Renee vive da trent’anni in una villetta a schiera identica alle altre che costeggiano la sua via. A dire il vero, anzi, non ci risiede più dal marzo 2010, precisa una voce fuori campo in sottofondo, più o meno da quando una chiamata al 911 ha tradito una sua inconfessabile debolezza: Renee, una carriera da insegnante di educazione fisica, non aveva mai buttato via nulla dei propri averi. Letteralmente. Quando Bill Tweedy, un vigile del fuoco del posto, ha fatto un sopralluogo nella sua abitazione non credeva ai propri occhi: sbirciando oltre la porta di ingresso si intravedevano dune di quella che a prima vista pareva immondizia, ma a uno sguardo più attento era risultata essere una serie di mucchi costituiti dagli oggetti personali radunati in una vita, quella di Renee. In certe stanze le montagne di paccottiglia – in cui si riconoscevano scarpe, vestiti, scatole, borse – arrivavano fino al soffitto.
Quella descritta in questa scena è solo una puntata di Sepolti in casa, un format nato nel 2010 sull’emittente statunitense TLC col titolo Hoarders: Buried Alive e in seguito ritrasmesso in Italia da Real Time. Per quanto il confine tra fiction e realtà di qualunque reality sia oggetto di discussione, Sepolti in casa ha avuto un ruolo importante nel convogliare l’attenzione pubblica verso gli accumulatori patologici, anche conosciuti come disposofobici, le vittime di un disturbo che fino a poco tempo fa era considerato una forma accessoria di psicopatologie già note, come ad esempio il disturbo ossessivo-compulsivo. Ne soffre chi non riesce a disfarsi volontariamente degli oggetti di sua proprietà, a prescindere dal loro valore (c’è chi accumula libri, ma anche chi accumula spazzatura), e ne è condizionato a livello emozionale, sociale, fisico o finanziario.
Negli ultimi due decenni la ricerca psichiatrica, spinta da dati contrastanti sull’insorgenza di questo comportamento, ha ribaltato l’assunto che vedeva nella disposofobia un disturbo secondario. L’ultimo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – l’influente manuale delle malattie mentali compilato dall’American Psychiatric Association e giunto al suo quinto aggiornamento (DSM-5) dal 1952, anno della sua prima pubblicazione – nel 2013 ha conferito ufficialmente dignità scientifica a una nuova voce nella lista delle patologie mentali: l’hoarding disorder, il «disturbo da accumulo». «Creare una forma diagnostica unica in DSM-5 aumenterà la consapevolezza nell’opinione pubblica, aiuterà a identificare i casi e stimolerà sia la ricerca che lo sviluppo di trattamenti mirati per il disturbo da accumulo. Ciò è particolarmente importante perché gli studi provano che la diffusione del disturbo è stimata all’incirca tra il due e il cinque percento della popolazione», si legge sul manuale. E la percentuale è destinata a crescere nei prossimi anni, con l’invecchiamento della popolazione.
La storia dell’accumulazione compulsiva è anche fatta di vicende specifiche, affascinanti e assurde in involontario ossequio ai tratti tipici della malattia. Due, entrambe molto famose oltreoceano, le ha raccontate Joan Acocella sull’ultimo numero del New Yorker. La prima spiega un altro nome alternativo di questo disturbo: «Sindrome di Collyer». Nella New York di inizio Novecento, Homer e Langley Collyer erano rampolli di una famiglia molto in vista (il nonno era stato l’artefice di uno dei maggiori cantieri navali sull’East River, il padre era un ostetrico di fama) e vivevano nella sfarzosa brownstone di famiglia, sulla Quinta di Manhattan. Entrambi avevano frequentato con profitto la Columbia, dove Homer si era laureato in legge, Langley in ingegneria. Senonché col passare degli anni, e dopo la morte del padre, avevano smesso di lavorare e, a un certo punto, anche di pagare le bollette. Homer era diventato cieco e quasi paralizzato per una grave sindrome reumatoide, e Langley si occupava di lui, uscendo dalla fortezza solo a tarda notte per rimediare del cibo.
Tra la malavita newyorkese si era diffusa la voce secondo cui i due uomini avevano stipato grandi somme di denaro all’interno della casa. Eppure i ladri che erano riusciti a entrare avevano riferito soltanto di enormi e maleodoranti mucchi di pattume. Ogni dubbio alla fine venne dissipato da una chiamata di un vicino di casa dei Collyer alla polizia, un giorno nel 1947. Homer era stato trovato seduto sulla sua poltrona preferita, faccia sulle gambe, senza vita. Per trovare Langley si era invece dovuto cercare per giorni, per poi scoprire che era stato vittima di una trappola anti-ladro che lui stesso aveva piazzato tra i tunnel di passaggio scavati negli anni attraverso le montagne di rifiuti che occupavano l’intero volume della casa. Alla fine se ne erano contate centosettanta tonnellate a casa Collyer, di rifiuti. Si era accertato al di là di ogni ragionevole dubbio che Langley quando era morto stava portando la cena al fratello, in quella che doveva essere una sera come un’altra.
La seconda storia di accumulazione citata da Acocella, con un finale meno drammatico, è quella di Edith Ewing Bouvier Beale e sua figlia Edith – «Big Edie» e «Little Edie». Le due donne, di nobili natali (Big Edie era zia nientemeno che di Jacqueline Bouvier Kennedy Onassis), passarono venticinque anni della loro vita nella villa di famiglia, Grey Garden, a East Hampton, nella contea di Suffolk, in condizioni igienico-sanitarie che definire pessime sarebbe a malapena un eufemismo. Entrambe persone dotate di un carattere istrionico e amanti del divertimento, dal 1952 – quando Big Edie era stata lasciata dal marito, un avvocato di Wall Street – si erano autorecluse nel loro palazzo immerso nel verde, senza un reale perché, e avevano deciso di vivere in sole tre stanze della casa, abbandonando le altre all’incuria e agli animali selvatici.
Come si può vedere in Grey Gardens, un documentario girato nel 1975 dai fratelli produttori Albert e David Maysles e divenuto subito un cult del genere, Little Edie, nel frattempo divenuta cinquantaseienne, non aveva abbandonato una certa predisposizione per l’haute couture: amava indossare le sue gonne a rovescio e sfoggiare foulard e abiti improvvisati. E soprattutto litigare con la madre, minacciandola di andarsene, con ogni probabilità sapendo che non l’avrebbe mai fatto. Nel frattempo appena quattro anni prima, con grande imbarazzo della già funestata di per sé famiglia Kennedy, le autorità avevano intimato all’insolita coppia di abbandonare la casa, giudicata ormai inagibile. Lil’ Edie, con apprezzabile senso della misura, aveva parlato ai media di un «raid messo in atto da sgherri di una città repubblicana disgustosa e meschina», definendolo «la cosa più schifosa e atroce mai successa in America». Eppure, nonostante tutto, era profondamente legata alla madre, in una maniera non convenzionale (nel doc ci sono scene a loro modo molto tenere in cui madre e figlia mangiano insieme sul letto, ad esempio, circondate da gatti randagi e sporcizia). Quando l’anziana signora morì, nel 1977, Edith la giovane vendette l’intera proprietà al recentemente scomparso ex direttore del Washington Post Ben Bradlee, guadagnando 220 mila dollari.
Un apporto fondamentale nel distinguere la disposofobia dalle altre patologie mentali è arrivato dai nuovi metodi di indagine utilizzati nel campo delle neuroscienze. Nell’agosto del 2012 uno studio di David Tolin a Yale, Neural Mechanisms of Decision Making in Hoarding Disorder, ha gettato nuova luce sulla specificità neurologica dei pazienti affetti da questa malattia. I ricercatori hanno selezionato 43 persone che presentavano i tratti tipi dell’accumulazione compulsiva, unite a 31 a cui era stato diagnosticato un disturbo ossessivo-compulsivo e 33 persone del tutto sane. A ciascuno è stato chiesto di portarsi da casa pezzi di carta senza valore (depliant, volantini, ritagli di giornale), su cui è stata posta un’etichetta «tuo», ai quali sono stati uniti oggetti simili di provenienza esterna, con etichetta «nostro». La risonanza magnetica effettuata mentre si chiedeva al paziente di disfarsi del materiale ha rivelato che gli hoarders puri hanno gettato molti meno oggetti marchiati «tuo» rispetto a tutti gli altri partecipanti all’esperimento, testimoniando peraltro più ansia, incertezza e sensazioni legate al disagio.
Per lungo tempo, oltre a non aver avuto la dignità scientifica di un disturbo a sé stante da studiare e curare in modo indipendente, la disposofobia è stata trattata come una sorta di tratto caratteriale eccentrico o tipico della demenza senile (formulando una credenza erronea a partire da una realtà verificabile: gli anziani sono più propensi a custodire oggetti privi di valore, per ricordo). Scott Herring, professore di inglese all’Università dell’Indiana, ha scritto un saggio su questo tema, The Hoarders: Material Deviance in Modern American Culture. Oltre ai casi già citati passa in rassegna anche quello più celebre di Andy Warhol, che a fine giornata gettava tutti gli oggetti presenti sulla sua scrivania (scarti di cibo compresi) in uno scatolone, ci scriveva sopra la data del giorno e lo archiviava. Herring ha una tesi mutuata da Foucault: in realtà la psichiatria a livello accademico non sarebbe altro che una forma di controllo sociale. D’altronde i Collyer, che pure erano bianchi, vivevano ad Harlem, che negli anni della loro esistenza era diventato un quartiere a maggioranza nera. Il loro stile di vita sarebbe stato un pessimo segnale per l’America del periodo? Difficile dirlo. Certo è che, per quanto ne sappiamo ad oggi, a poca distanza dall’anno zero delle ricerche sull’accumulazione compulsiva, in fondo aveva detto bene Tyler Durden: «Le cose che possiedi alla fine ti possiedono».