Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 17/12/2014, 17 dicembre 2014
BILANCIO DI UNA VITA ALLA BOA DEGLI OTTANT’ANNI. MI SENTO COME IL GRANDE FIUME OKAVANGO QUANDO, INFINE, RAGGIUNGE IL DESERTO
Nel Vecchio Testamento, Salmo 90.10, il limite della vita umana è definito in 70 anni, estensibile fino a 80. Lo stesso dice Erodoto (I 32 e III 22). Confesso che mai avrei pensato di arrivare a 80 anni, da piccolo ero di salute cagionevole, papà morì a 41 anni. Ebbi un’infanzia silenziosa ma felice, a 10 anni causa una bomba divenni balbuziente, il silenzio aumentò, mi impegnai molto per tornare normale, a 20 anni ci riuscii, in silenzio la mia autostima esplose (sarebbe riesplosa altre due volte, dopo la stagione di «Mani pulite» e dopo il licenziamento da Fiat).
In modo casuale, da ragazzo scelsi uno stile di vita che, nel lungo periodo, mi avrebbe premiato. Sposai il primo amore, una ragazzina della stessa classe sociale (fu una geniale furbata), avemmo subito Luca e Fabio (altra furbata), mai tentò di cambiarmi, mi accettò così com’ero: avido di imparare, di lavorare, di cambiare lavoro e contesti, un decisionista finto democratico, calmo ma irrequieto. A quarant’anni ci tarammo su un tenore di vita da operai benestanti, e così invecchiammo: certo i guadagni del momento furono apprezzati, ma rimasero un soprammobile, non solo senza alcun potere ricattatorio su di noi, meglio, furono strumento di libertà intellettuale.
Ero (e rimasi) un liberale-anarchico, seppur molto rispettoso delle leggi e delle gerarchie, con un obiettivo preciso: essere uno perbene, come mamma e papà. Un amico recente, Marco Veglia, professore di Filologia Classica e di Italianistica all’Università di Bologna ha inquadrato i miei 80 anni con una sola locuzione («la qualità della sua vita si può compendiare nella visione umoristica che ha della realtà»). In effetti, sono stato parte di un mondo ove l’unica modalità per sopravvivere, senza vergognarti troppo di te stesso, è confrontarti con gli altri, specie quelli al potere (il modello in essere è tarato per scegliere i peggiori), campando utilizzando l’arma bianca dell’ironia.
Posso dire di aver visto ogni paese del mondo (mi manca l’Afghanistan), ma tre luoghi in questi giorni mi sono tornati alla mente, perché coerenti con i miei 80 anni. Il grande fiume Okavango, immenso, impetuoso, pieno di sé, fino a quando non incontra il deserto del Kalahari, allora rallenta, stupefatto lotta per rimanere unito, sconfitto, si disperde in un delta immenso, capisce che neppure un suo rigagnolo melmoso arriverà mai al mare. È il mio caso, ora anch’io sono nel delta dell’Okavango, può darsi che a quella duna laggiù non ci arrivi, ma ci tenterò lo stesso.
Il Perito Moreno, in Patagonia, sei su un gommone a meno 20 gradi, guardi dal basso questo parallelepipedo di ghiaccio perenne alto 60 metri, largo 5 km, lungo 30, piccoli iceberg cadono nel lago Argentino con un suono sordo. Ti senti un microorganismo, ti immedesimi nel ciclo della natura, allora tutto ti diventa chiaro, un giorno toccherà a te cadere, e fonderti col lago.
Le Galapagos, quando ci arrivi rimani senza parole, sono un inno alla vita, al futuro, non più il tuo, quello dei tuoi amati nipotini. Sono stato sempre molto legato al cibo, disprezzo i cibi globalizzati («sì nel mio orto, mai nel mio stomaco», è lo slogan di una vita), a 80 anni il pane continua a essere, a ogni risveglio, il mio primo pensiero, so molto sul pane, non delego ad alcuno il suo acquisto giornaliero: la mamma mi insegnò che è solo plurale. Mi ripeteva: si dice il «nostro pane», mai il «mio».
Nello scorso fine settimana tutti noi, nipoti, nuore, figli (siamo dieci), abbiamo trascorso due giornate in un piccolo hotel di legno e di pietra, sotto il Colle di Tenda. Abbiamo bevuto vini meravigliosi, mangiato specialità cuneesi nel ristorante Nazionale: esiste dal 1896, era una stazione di posta sulla «Via del Sale». Una sera, mia moglie e io abbiamo illustrato a nuore e figli, oralmente, il nostro testamento (siamo i primi a farlo, i nostri genitori e nonni non avevano nulla da lasciare). E’ stato orale perché se ci si vuol bene il notaio è inutile. Il mattino di domenica, partenza per la Lunigiana, verso il Castello di Terrarossa (dei Malaspina), qui si è svolta la cerimonia del Premio Lunigiana Storica (sono state premiate le migliori tesi di laurea, libri, documentari, film, attinenti al territorio), io ho avuto il prestigioso, «Lunigianese dell’anno». I «miei vecchi», ramo paterno, erano contadini (non certo mezzadri), poveri ma ambiziosi, uno fece persino carriera, divenne parroco di Mochignano, frazione di Bagnone, nel cuore del Vescovado di Luni.
Sono tornato a casa felice, mi sono rifugiato nei miei ricordi, nei miei amati interstizi, ho ripreso a scrivere camei, ironizzando con leggerezza su Renzi, su Berlusconi, sulle altre miserabili leadership dell’Occidente. In primavera uscirà, per i tipi della Grantorino Libri, un libro di Angela Maria Borello «Maestra, ma che ne sarà di me?», raccolta nature di ragionamenti di bambini dai 2 ai 6 anni, con una meravigliosa prefazione di Massimo Recalcati. Immagino che, per la quarta volta (penso l’ultima), la mia autostima esploderà. Prosit.
Ad maiora semper, caro Riccardo.
Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 17/12/2014