Matteo Della Vite, Marco Iaria e Luca Taidelli, La Gazzetta dello Sport 17/12/2014, 17 dicembre 2014
«L’INTER È NATA PER STARE SEMPRE IN CHAMPIONS»
Ha visto e vissuto mondi diversi, distanti e anche molto simili. Poi — inviato e invitato da Erick Thohir — è planato qui, su un Pianeta che è come pochi, probabilmente come nessuno: l’Inter. Ecco Michael Bolingbroke, londinese, CEO (Chief Executive Officer) nerazzurro dal 18 luglio 2014, l’uomo che porta visione periferica in un club che deve rimettere i conti in asse ma anche guardare dritto negli occhi il futuro. Facile no, impossibile nemmeno. Il sogno-Champions e San Siro, il «perfect man» Mancini e una Serie A che dovrebbe cambiare mentalità, il Fairplay finanziario e il mercato che verrà: nella sua prima intervista italiana e in Gazzetta , Bolingbroke dimostra che i concetti da seguire sono solchi chiari, netti, forti. Il resto, arriverà.
Lei ha lavorato per sette anni in uno dei club più grandi del mondo, il Manchester United. La prima domanda è scontata: chi gliel’ha fatto fare di arrivare in Italia, nel pieno della crisi del Paese e del calcio italiano, in una società fuori dalla Champions e in gravi difficoltà economico-finanziarie?
«Al Manchester ho trascorso un fantastico periodo della mia vita ma era arrivato il momento di una nuova sfida. E’ interessante questa prospettiva: per me l’Inter è un club di Champions League, perché pur non giocandoci da alcuni anni, come tutti i brand calcistici, il suo appeal resiste a lungo nel tempo. Quando pensi all’Internazionale continui a pensare a quello. E quello che voglio è che questo club torni in pianta stabile in Champions: non per un anno soltanto ma per tanto tempo. E’ vero che c’è la crisi ma l’Italia è una delle più importanti economie del mondo e Milano è una città vibrante con un’enorme reputazione. A Manchester la gente veniva solo per il calcio, Milano è differente, è una delle città più visitate d’Europa, c’è la Scala, c’è la moda e c’è pure il calcio».
Una bella concorrenza per San Siro, non trova?
«La verità è che i tifosi prima di morire vogliono vedere dal vivo almeno una partita al Camp Nou, una a Wembley e una qui, a San Siro. Certo, è uno stadio da migliorare, ma ha potenzialità enormi e un fascino unico. E’ uno stadio fantastico, stiamo discutendo su cosa fare, ma saremmo felici di restare a San Siro, è la nostra prima opzione».
E’ difficile dover condividere uno stadio con un’altra squadra? Cosa c’è nei vostri piani?
«Non è difficile ma diverso, rispetto a come ero abituato al Manchester United. Old Trafford si presenta tutto rosso, a San Siro ci si deve organizzare, per esempio per la corporate hospitality: però il vantaggio è che possiamo condividere i costi col Milan».
Quanto è distante San Siro, come «matchday experience», da Old Trafford? E su cosa state lavorando? Nel 2013-14 l’Inter ha incassato dallo stadio 19 milioni contro i 135 del Manchester United.
«Cifre giuste, e c’è una bella differenza. Quando vado alle partite casalinghe mi guardo attorno e sinceramente non riesco a comprendere come metà stadio sia vuoto. Nell’area attorno allo stadio, quella per intenderci che ti fa essere a San Siro entro un’ora e mezza, vivono 8 milioni di persone. Due terzi sono tifosi di calcio e 2,6 milioni tifano Inter: come diavolo è possibile che non si riempia lo stadio con 80mila persone? Il pubblico dovrebbe diventare parte integrante di una famiglia, la sfida è riempire lo stadio non solo per il derby ma ogni domenica, anche per le partite “normali”. Adesso vengono 30mila persone in media a gara, l’obiettivo è di arrivare a 50mila. E’ ovvio che vanno migliorati i servizi, i trasporti, la sicurezza, con settori adibiti alle famiglie. Ed è importante dire una cosa: non abbiamo alcuna intenzione di aumentare i ricavi alzando i prezzi dei biglietti ma semplicemente portando più gente allo stadio. In Inghilterra è differente perché gli impianti sono costantemente esauriti, mentre da noi l’indice di riempimento è molto più basso».
Per ripopolare San Siro è importante migliorare la qualità dello spettacolo in campo. Quindi non solo strategie commerciali ma risultati e prestazioni convincenti della squadra...
«Certo che è un aspetto importante. Solo quattro anni fa l’Inter ha vinto il triplete , quella deve essere la sua dimensione».
Il tifoso vuol sapere subito una cosa: l’Inter è da Champions già quest’anno?
«E perché no? Ci sono due strade, con due dinamiche diverse. Può arrivare con il terzo posto oppure vincendo l’Europa League. Ripeto: perché no?».
Perché Mancini ha il profilo perfetto per la futura Inter?
«Semplice: Mancini è un vincente. Non mi riferisco solo al suo passato nell’Inter, ma a quello che ha fatto con il Manchester City. Io stavo dall’altra parte e ho potuto osservare come ha trasformato la mentalità di quella squadra. Era un club a metà classifica e lui l’ha portato a vincere. Se eravamo già amici in Inghilterra (sorride, ndr)? Ci conoscevamo...».
Quali errori ha commesso la Serie A negli ultimi anni per ridursi a questo punto?
«Se riguardi la storia, la Serie A venti anni fa era il meglio. Cosa è successo di preciso? Prima la Premier e poi la Bundesliga hanno creato dei brand. Se la Serie A guarderà a quei modelli potrà tornare al vertice. Non può essere che così: il calcio e l’Italia camminano a braccetto. Il problema è che gli italiani non hanno fiducia nel loro prodotto».
Ecco: e allora la direzione da seguire qual è?
«Prima di tutto bisogna investire negli stadi perché si attiverebbe un circuito virtuoso: non solo per la gente, ma anche per le tv e gli sponsor, che preferiscono migliori “scenografie”. Poi la globalizzazione: si pensi agli orari delle partite, che dovrebbero essere più orientati ai mercati americano e asiatico. Sky e Mediaset sono interlocutori molto importanti per la Serie A, ma le 20.45 di domenica allontano le famiglie e i ragazzi perché l’indomani c’è la scuola. Se poi penso al mercato internazionale, alla Cina per esempio, lì è notte quando è prime time da noi».
In Serie A ogni club pensa al proprio orticello. Pare utopistico pensare di poter imitare quelle leghe che sono cresciute valorizzando il prodotto collettivo.
«Ma quella è l’unica strada per crescere, soprattutto nel contesto globale. Una grande opportunità è data dallo sviluppo della tecnologia digitale. Adesso c’è la possibilità di far vivere ai tifosi all’estero la stessa partecipazione emotiva di chi segue una partita allo stadio. La Serie A deve sfruttare questa leva per costruire un marchio forte nel Nord America e a Est. Ci sono club italiani come Juventus, Inter, Milan che sono marchi forti di per sé, ma la Serie A collettivamente può dare un valore aggiunto. Nemmeno s’immagina quanti benefici deriverebbero da un lavoro collettivo».
Ci sarebbe bisogno di un commissioner stile Nba in Lega?
«Eccome. Bisogna lavorare tutti assieme, stilare piani a 5-10 anni, pensare alla crescita complessiva del sistema».
Pare che il vostro piano quinquennale non abbia convinto gli ispettori del fair play finanziario dell’Uefa...
«E’ una cosa nuova per me, non mi risulta. Nel piano abbiamo mostrato come far crescere i ricavi, dallo stadio alle sponsorizzazioni, mantenendo sotto controllo i costi. Non è facile ma è ciò che richiede l’Uefa».
Dei 230 milioni prestati dalle banche, solo 30 milioni sono per la gestione corrente. Vi bastano? Ci saranno soldi per rafforzare l’organico a gennaio o in estate?
«Se ci saranno opportunità le coglieremo. Dipende da ciò che vuole fare e l’allenatore: tutto parte da lui, dalle sue necessità».
E’ indispensabile vendere prima di acquistare?
«Dobbiamo rispettare i parametri dell’Uefa ma la priorità è dare alla squadra e all’allenatore quel che serve per tornare in Champions. Se Mancini chiederà rinforzi troveremo il modo per accontentarlo. Ma sia chiaro: sempre dentro i vincoli del fair play finanziario».
Moratti ha versato quasi 1,3 miliardi di euro in 19 anni nell’Inter, in una gestione fortemente improntata al mecenatismo. Quanto è difficile rompere con questa tradizione e mettere in pratica l’autofinanziamento che anche l’Uefa chiede?
«E’ dura ma non abbiamo altra scelta. L’importante è che i tifosi, tutti quanti capiscano che in quest’era non è possibile spendere senza limiti. E’ cambiato il modo di gestire le società di calcio, non solo l’Inter. I proprietari non possono più iniettare soldi senza limiti nei club. L’unico modo è incrementare i ricavi e aumentare il potere di spesa».