Anjelica Huston, VanityFair 10/12/2014, 10 dicembre 2014
E ALLA FINE LO PICCHIAI
Fu in piedi accanto a un nastro bagagli nella dogana dell’aeroporto di Los Angeles che, nel marzo del 1973, la mia vecchia vita finì e cominciò quella nuova. Avevo 21 anni, e quel giorno la mia strada e quella di Bob Richardson si separarono. Lui era un fotografo audace e provocatorio, di anni ne aveva 45, e da quattro condividevamo, in un appartamento al Gramercy Park di New York, una relazione tempestosa. Non fosse stato per la presenza di mio padre e della sua ultima moglie, Cici, con i quali io e Bob eravamo stati in vacanza in Messico, dubito che avrei mai trovato l’ultimo briciolo di coraggio necessario a lasciarlo.
Mi trasferii temporaneamente a Pacific Palisades nel ranch di cui Cici era stata proprietaria prima di sposare mio padre, e che adesso stava ristrutturando per accogliere alcuni dei tesori di St. Clerans, la tenuta nell’Ovest dell’Irlanda dov’ero cresciuta.
Curiosamente, in California ebbi la sensazione di tornare a casa. A Los Angeles ero nata. Il cielo sopra il deserto era sgombro e di un azzurro terso. Vivere di nuovo con mio padre era strano, ma presto sarebbe partito per New York, dove avrebbe ripreso a lavorare all’Agente speciale Mackintosh.
Viaggiando in macchina su Sunset Boulevard sotto un sole pallido, notai che il panorama era spoglio e insieme appariscente, composto perlopiù da capannoni e facciate a due piani. C’erano file di alte palme e jacarande viola. Tirava vento, e l’aria secca aveva un profumo dolce. Su Rodeo Drive, l’ingresso della boutique di Giorgio era ricoperto da un tendone sotto cui i nebulizzatori diffondevano il suo profumo.
Dentro, mariti comprensivi bevevano espresso davanti a un lucente bar d’ottone, mentre le mogli compravano vestiti di piume e abiti da cocktail ornati di perline. All’epoca, Los Angeles era una piccola città, con un’atmosfera straordinariamente eccitante e al tempo stesso un po’ provinciale.
Un giorno d’aprile, un’amica di Cici – Brigitta – proprietaria di un negozio di vestiti su Sunset Boulevard, le disse che sarebbe andata a un party a casa di Jack Nicholson, e la invitò ad accompagnarla. Cici le chiese se poteva portare la sua figliastra, e Brigitta disse che non c’era problema: era il compleanno di Jack, e lui adorava le belle ragazze.
Mi feci prestare un abito da sera da Cici: nero, lungo, aperto sulla schiena e con una spilla di diamanti. Brigitta venne a prenderci in macchina, e insieme raggiungemmo la casa di Jack su Mulholland Drive, in cima al crinale che separa Beverly Hills dalla San Fernando Valley. Sembrava di stare sul tetto del mondo. La porta del modesto ranch a due piani si aprì, e apparve quel sorriso. Più avanti, quando Jack sarebbe ormai stato una star immortalata sulla copertina di Time, Diana Vreeland lo avrebbe ribattezzato «il sorriso che uccide». Ma allora io pensai: «Ah! Sì. Ecco un uomo per cui potresti perdere la testa». Nel 1969, quando ancora vivevo a Londra, ero andata con alcuni amici a vedere Easy Rider in un cinema di Piccadilly Circus, per poi tornare a rivederlo da sola di lì a qualche giorno. A colpirmi, dal primo istante in cui Jack apparve sullo schermo, fu quel suo miscuglio di disinvoltura ed esuberanza. Fu proprio vedendo quel film, credo, che come tanti altri mi innamorai di Jack per la prima volta.
La seconda fu quando aprì la porta di casa in quel tardo pomeriggio d’aprile, sotto un cielo ancora invaso dalla luce dorata dell’ultimo sole. «Buonasera», disse raggiante, aggiungendo poi uno strascicato: «Io sono Jack, mi fa piacere che siate riuscite a venire».
Ci fece cenno di entrare. Il salotto dal soffitto basso era pieno di candele e gente sconosciuta. Servivano cibo greco, e in sottofondo c’era musica. Ballai con Jack per ore. Quando mi invitò a passare la notte con lui, chiesi consiglio a Cici. «Stai scherzando?», rispose lei. «Ma certo!». Il mattino dopo, quando alzandomi indossai di nuovo l’abito della sera prima, Jack era già sceso. Un uomo che in seguito avrei scoperto essere lo sceneggiatore Robert Towne entrò in casa e mi squadrò incuriosito dal fondo delle scale. In quella arrivò Jack, che disse: «Se tu sei d’accordo, ti farei riaccompagnare a casa da un taxi. Io sto andando a vedere la partita». La corsa verso Palisades durò mezz’ora. Scendendo dal taxi nel mio abito da sera scollato sulla schiena, trovai Cici sulla porta. Mi guardò scuotendo la testa. «Non posso credere che tu non abbia insistito per farti riaccompagnare da lui», mi disse. «Che cos’hai in quella testa? Dovesse chiederti di rivedervi, deve venirti a prendere e riportarti a casa».
Di lì a qualche giorno. Jack chiamò per invitarmi fuori. «Sì», risposi, «ma devi venirmi a prendere tu, e poi riportarmi a casa». E lui: «Sì, va bene. Che ne dici di sabato?». «D’accordo. Però devi venire a prendermi». Poco dopo mi richiamò: era dispiaciuto, ma doveva cancellare il nostro appuntamento per via di un precedente impegno. «Il che fa di me una seconda scelta?», domandai. «Non dire così», ribattè lui. «È una risposta poco spiritosa».
Quella sera decisi di uscire con lo scenografo Jeremy Railton, un amico di Londra, e con i commediografi Kenny Solms e Gail Parent. Stavamo cenando al ristorante Old World in Sunset Boulevard, quando i miei commensali cominciarono a bisbigliare ridacchiando. Chiesi che succedeva, e Gail mi disse: «Stasera dovevi uscire con Jack, vero?». «Sì», risposi, «ma aveva un precedente impegno». Intervenne Kenny: «Be’, il suo precedente impegno è una bellissima bionda, e sono appena saliti insieme al piano di sopra».
Presi il mio bicchiere di vino e con il cuore che batteva forte mi incamminai su per le scale. Jack sedeva in un séparé con una splendida ragazza bionda che riconobbi istantaneamente – li avevo visti fotografati insieme sulle riviste – come la sua ex fidanzata Michelle Phillips, cantante del gruppo The Mamas & the Papas. Mentre mi avvicinavo al tavolo, un’ombra transitò rapida sul viso di Jack, come una nuvola che per un attimo oscura il sole. Alzando il bicchiere con disinvoltura, dissi: «Ero al piano di sotto, e ho pensato divenire a salutare». Lui, senza battere ciglio, mi presentò Michelle. Lei fu incantevole. Credo che a quel punto la loro relazione fosse agli sgoccioli. Una mattina di qualche settimana dopo, Michelle arrivò in macchina a casa di Jack per recuperare qualcosa di suo che era rimasto lì. Scoprendo che c’ero anch’io, salì in camera da letto portando due bicchieri di succo d’arancia. Da quel momento, diventammo amiche.
All’inizio della nostra relazione, i segnali di Jack erano contrastanti. Un giorno mi chiedeva di stare con lui, quello dopo non mi chiamava pur avendo promesso di farlo. A un certo punto disse che dovevamo rallentare, dopodiché mi telefonò per invitarmi a pranzo.
Dici Jack Nicholson e la gente pensa alla sua ironia. Per Jack il divertimento è tutto. E gli riesce benissimo, ma in lui c’è molto altro. È un uomo emotivo. La vita lo tocca in profondità, lo commuove e lo turba. È una persona profonda e seria. Ferirlo è più facile di quanto si possa immaginare, o di quanto lui tenga a far sapere. Al tempo stesso, probabilmente anche per via delle esperienze avute da piccolo, con una famiglia che a lungo gli mentì sulle circostanze della sua nascita – la donna che pensava essere sua sorella era in realtà sua madre, e la «madre» era in realtà sua nonna –, il fatto che sia piuttosto cinico non può sorprendere.
Jack adorava la sua casa in collina dalle pareti ricoperte di quadri. Di arte si intendeva molto, e aveva approfondito le sue conoscenze accumulando una collezione ricca ed eclettica, costruita in buona parte basandosi sull’istinto. Avendo una particolare passione per i maiali, possedeva un’eccellente raccolta di manufatti a tema, fotografie e porcellane di cui i ripiani delle sue librerie traboccavano.
Sulla stessa collina, un po’ più in alto, viveva Marlon Brando, con il quale Jack condivideva il viale d’accesso. Marlon adorava fare scherzi, e di solito coinvolgeva Helena Kallaniotes, capo del personale di Jack e depositarla delle sue confidenze e della sua fiducia, nella preparazione dei pesci d’aprile. Una volta Marlon le chiese di riferire a Jack che aveva deciso di vendere casa sua a Sylvester Stallone, spiegando che, con tutti i soldi che gli aveva offerto, non aveva potuto dire di no. In quel periodo. Stallone viaggiava con un piccolo esercito di guardie del corpo e conduceva una vita particolarmente sfarzosa. Jack andava assai fiero del proprio talento per la privacy, che all’occorrenza gli permetteva di passare inosservato. Il pensiero di tutti i fan di Stallone che avrebbero cominciato a stazionare davanti al cancello gli provocò angosce infinite. E Marlon trovò la cosa esilarante.
Trascorrevo le giornate a casa di Jack, innamoratissima ma nel pieno di un’impasse professionale. Nei quattro anni che avevo trascorso a New York, ero diventata una modella di primissimo piano e avevo lavorato per i più grandi fotografi e stilisti del mondo. Mi ero abituata a sentirmi definire esotica e sofisticata, caratteristiche che non deponevano esattamente a mio favore nel Sud della California, dove a trionfare erano le bionde abbronzate dal sorriso smagliante, e decisi che non mi sarei esposta a rifiuti e delusioni. Pur essendo ancora scottata dalla stroncatura unanime ricevuta per il film di mio padre Di pari passo con l’amore e la morte, ero convinta che prima o poi sarei riuscita a prendere in mano la situazione e a diventare l’attrice che avevo sempre desiderato essere.
Nel giro di qualche tempo cominciai a studiare con Peggy Feury al Loft Studio. Con i miei trent’anni, ero l’allieva più anziana del primo anno. Da quel momento e per due anni, ogni giorno, cinque giorni alla settimana, prendevo la macchina e da casa mia raggiungevo la sua scuola in La Brea Avenue. Il primo esercizio che Peggy mi diede consisteva nell’ottenere un oggetto da un altro attore, per la precisione elemosinare una moneta. Affrontai la scena con il massimo impegno. Alla fine, Peggy mi disse: «Anjelica, tu sei una donna alta e imponente, con una presenza forte. Quando chiedi qualcosa, non devi tendere la mano. La nostra attenzione ce l’hai già». Fu una rivelazione, il momento in cui compresi l’illusione della sicurezza in se stessi. Fino ad allora non me n’ero mai resa conto, ma stavo implorando cose che avrei semplicemente potuto chiedere.
Nel marzo 1983, il produttore John Foreman mi consegnò il libro di Richard Condon L’onore dei Prizzi. «Leggilo», mi disse, «e fammi sapere che cosa ne pensi». Lo divorai in una notte. Era un romanzo meraviglioso, una storia di mafia piena di spirito e di umorismo nero. L’indomani andai da John e gli dissi: «È fantastico».
«Che ne diresti di interpretare Maerose Prizzi?», mi chiese lui.
«Che splendida idea», risposi. «Fantastico!».
E lui: «Sì, ma come vedresti Jack nei panni di Charley Partanna, il sicario, e tuo padre alla regia?».
E io pensai: «Cacchio!». Sapevo che sarei finita schiacciata in mezzo a quei due pesi massimi.
Il mio personaggio, Maerose, aveva tutte le carte in regola per restare impresso nella mente del pubblico. Era la figlia ripudiata della famiglia Prizzi, disposta letteralmente a tutto pur di riconquistare il cuore di Partanna, uomo di fiducia del clan. La sua rivale sarebbe stata Kathleen Turner. Maerose era una donna complessa e sfaccettata, un cane sciolto che sapeva esattamente ciò che voleva e come ottenerlo.
Il secondo giorno di lavorazione, mentre in compagnia di un gruppo di comparse attendevo di entrare nell’atrio per girare la mia prima scena con Jack, per un attimo intravidi mio padre perfettamente incorniciato da uno degli ovali, e Jack nell’altro, come una coppia di cammei simmetrici. Fu uno di quei momenti in cui vita e arte si fondono.
Inizialmente non conoscevo la reputazione di Jack. All’idea che per certi aspetti fosse davvero tremendo credo di essere arrivata col tempo. Anche se uno dei suoi migliori amici era Warren Beatty, all’epoca io in Jack non riuscivo a scorgere il donnaiolo impenitente, e questo perché – pur essendo a quanto pare molto attivo, come mi avrebbero poi riferito – lo faceva con grande discrezione.
Ogni tanto mi capitava di trovare qualche indumento femminile – una volta vidi spuntare una mia giacca indosso a una ragazza per strada – oppure della crema per le mani, un ciondolo abbandonato nel portasapone. A volte prendevo quei gioielli e li indossavo, per vedere se qualcuno sarebbe venuto a reclamarli, ma non è mai successo.
Quando infine mi resi conto che Jack non era un uomo fedele, non seppi che fare. E in effetti non è che si possa fare molto. Se non che, a un certo punto, cominci anche tu a trovare attraenti altre persone.
Era un dilemma del quale avrei tanto voluto poter parlare con mia madre, ma era morta prima che ne avessi la possibilità. Non sapevo se le sue relazioni extraconiugali avessero avuto come scopo ferire mio padre o consolare se stessa. Con me non aveva mai parlato delle avventure di mio padre, né espresso apertamente il proprio dolore. Aveva tenuto tutto dentro di sé, e io stavo seguendo il suo esempio.
Durante la relazione con Jack, l’argomento «matrimonio» affiorò in vari momenti, ma sembrava che non provassimo mai quell’esigenza contemporaneamente. Più volte, nel corso degli anni, il manager e l’avvocato di Jack cercarono di convincerci a sposarci, forse perché ritenevano che così facendo Jack avrebbe risparmiato un sacco di soldi in tasse. Trovavo l’idea molto poco romantica. E poi ero una figlia degli anni Sessanta, che considerava il matrimonio come una forma di prigionia. A tratti l’idea mi allettava, ma il più delle volte ne ero impaurita.
Un pomeriggio, nella primavera del 1986, uscii con alcune amiche. Andammo al El Cholo, un ristorante sulla Western Avenue, e dopo diversi Margarita mi convinsero che era arrivato il momento: dopo pranzo dovevamo tornare a casa, e lì avrei detto a Jack che volevo sposarlo. Si svolse tutto secondo i piani, fino a quando Jack scese al pianterreno e io gli dissi ciò che gli dovevo dire. Mi rispose: «Stai parlando sul serio?». Scoppiai a piangere, girai i tacchi e me ne andai. Era umiliante sia per me che per Jack. Scesi dalla collina e tornai a casa mia, a Beverly Glen.
Il mattino dopo stavo piangendo in cucina quando squillò il telefono. Era mio padre. Chiamava da Malibu, dov’era rintanato a casa di Burgess «Buzz» Meredith. Negli ultimi dieci anni della sua vita, non faceva che entrare e uscire dall’ospedale per via del suo enfisema cronico. Quando lo dimettevano, ogni tanto si stabiliva a casa di Buzz. Gli spiegai il mio stato d’animo.
«Vieni a trovarmi, tesoro», mi disse. «Esci e vieni qui immediatamente!».
Andai a Malibu, nella camera da letto affacciata sul mare, dove lo trovai adagiato tra i cuscini e piuttosto irritato. Mi misi a piangere. «Jack mi tradisce. È una cosa che mi fa stare davvero male. Non posso sopportarla». Papà mi lanciò uno sguardo esasperato, come se avesse a che fare con una bambina capricciosa che si rifiutava di darsi per vinta. «E smettila di piangere!», mi disse, scuotendo la testa incredulo. «Che assurdità. Non significa niente, tesoro. Gli uomini lo fanno, sono cose irrilevanti. Perché tè la prendi tanto?».
Di colpo inferocita, me la presi con lui. «Papà, quant’è irrilevante sentirsi disprezzati? Perché è cosi che si sente nel profondo una donna quando viene tradita».
Io e Jack avevamo cominciato a vederci di meno. Da anni presenziavamo insieme agli eventi pubblici, e per qualche ragione rimanevamo aggrappati a quell’abitudine, ma non c’era dubbio che ci stessimo allontanando.
Nel 1989, durante le prove di Rischiose abitudini, ricevetti una sua telefonata. «Tootie, verresti a cena con me questa sera?». L’insolita formalità della sua richiesta aveva un che di tenero, così accettai. Sentivo che c’era sotto qualcosa. Fu una cena deliziosa, preparata dallo chef di Jack, e per la prima volta dopo molto tempo riuscimmo persino a ridere.
«Ho una notizia da darti», mi annunciò, arrivati al dolce. Le parole gli uscirono di bocca con facilità e determinazione. «Qualcuno sta per avere un bambino».
Nel suo tono di voce c’era una chiara nota d’orgoglio, e provai una curiosa sensazione di déjà-vu. Mi tornò alla mente il giorno in cui mio padre aveva rivelato a me e a Tony l’esistenza di nostro fratello minore Danny, allora bambino. Noi due, già adolescenti, eravamo stati convocati a Roma per conoscerlo.
«È di Rebecca Broussard?», chiesi. Quando pronunciai il suo nome. Jack sembrò sorpreso.
Era una ragazza – bionda, sexy, con le labbra carnose e lo sguardo sognante – che avevo visto lavorare in un nightclub di Silver Lake. Jack lo bazzicava dopo le sue partite di basket. Si era presentata ad Aspen l’inverno precedente come amica di Jennifer, la figlia di Jack. Quando qualche giorno prima ero andata a vedere un primo montaggio del Grande inganno alla Paramount, l’avevo vista spuntare in una scena, nei panni della segretaria di lui. Jack non mi aveva detto che sarebbe apparsa nel film, e in quel momento io avevo avvertito una lieve ondata di panico, un piccolo presentimento che diceva: «Non va tutto bene».
Chiesi a Jack che cosa pensava di fare.
«In che senso?», rispose lui.
«Il bambino lo tiene?», chiesi.
«Sì, il bambino lo tiene. Ma non voglio che questo cambi nulla».
Gli chiesi se intendesse stare accanto a Rebecca, e lui mi disse:
«Sì. Sono il padre di quel bambino».
«Qui c’è spazio per una sola di noi due, e io mi tiro indietro», dissi allora. O qualcosa di simile. Poi ci abbracciammo, e io sentii il pavimento sprofondarmi sotto i piedi, e dentro di me un vago moto di perdono, e infine l’assoluta irrecuperabilità di una relazione ormai chiusa. Il giorno dopo comunicai la notizia a una delle mie amiche più chiacchierone, con l’obiettivo che entro l’ora di pranzo lo sapessero tutti.
Non molto tempo dopo, ricevetti una telefonata dalla mia amica Susan Forristal. «Devo darti una brutta notizia», esordì, per poi raccontarmi di un articolo di Playboy in cui una ragazza sosteneva che Jack l’avesse giocosamente sculacciata con una racchetta da ping-pong durante un incontro particolarmente romantico. Chiamai Annie Marshall e le dissi: «È davvero troppo! Come osa fare anche questo, dopo la bomba che mi ha sganciato addosso non più tardi di qualche giorno fa?». Nella tarda mattinata dello stesso giorno, mi trovavo in un camerino della Western Costume per una prova costumi quando Annie mi richiamò.
«Ti passo Jack», mi annunciò.
«Toots», disse lui prendendo la linea, «quell’articolo di Playboy è un’assurdità! Hanno ristampato un pezzo uscito in Inghilterra l’anno scorso!».
«Dove sei?», gli chiesi.
«A casa, ma sto andando alla Paramount per lavoro».
«La Western non è lontana», dissi io.
«Ci vediamo lì».
Quando arrivai al suo bungalow, un’assistente seduta dietro una scrivania mi chiese se poteva annunciarmi. Le dissi che non era necessario, e andai dritto nell’ufficio di Jack. Lo aggredii che stava uscendo dal bagno. Non credo di averlo preso a calci, ma lo picchiai selvaggiamente sulla testa e sulle spalle. Lui tentava di scansarsi, si chinava, mentre io mi scatenavo come un pugile, tempestandolo di pugni ben assestati. A un certo punto, mi ritrovai sfinita. Ci mettemmo a sedere, e io piansi. Poi, con rinnovato sforzo, lo aggredii di nuovo. In tutto questo, dentro di me avvertivo uno strano sottofondo di gratitudine per come Jack mi stava permettendo di massacrarlo di botte. Nei giorni successivi, lo sentii al telefono. Mi disse: «Accidenti se me le hai date, Toots. Ho lividi dappertutto». Gli risposi: «Non c’è di che, Jack. Te lo sei meritato». E scoppiammo a ridere. In realtà era terribile.
L’inverno successivo, durante le feste mi arrivò un pacco da Mulholland Drive. Attesi che Natale fosse passato, prima di aprirlo da sola nella mia stanza. Conteneva uno straordinario braccialetto di perle e diamanti che un tempo Frank Sinatra aveva regalato ad Ava Gardner. Il biglietto diceva che sperava non lo trovassi arrogante. «Perle dal tuo porco. Con i migliori auguri di buone feste. Stai bene. Tuo, Jack».
(traduzione di Matteo Colombo)