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 2014  dicembre 13 Sabato calendario

TUTTI ALL’ATTACCO TRANNE I CALCIATORI


Se negli spogliatoi dell’Ittihad chiedi chi è, ti rispondono solo: «È un ottantacinque». Oppure: un’ala destra. Come se l’anno di nascita e il ruolo fossero le cose importanti nella storia di Walid Mhadeb El Khatroushi detto Tofaha, in arabo “mela”, per via della crapa tonda. «Tofaha giocava qui tre anni fa», se lo ricorda bene Akram Hemmali, 39 anni, l’accompagnatore della squadra di Tripoli. «Poi è salito in montagna e quand’è tornato era un altro. Ha fatto un campionato, è stato anche in nazionale, un gol. Però con la testa non c’era più. Alla fine ha detto stop...». Il suo armadietto ha ancora il nome. «Lo consideriamo pur sempre un nostro tesserato, anche se chissà dov’è: l’ultima volta stava in Tunisia, boh...». Una verità appena sussurrata: le ripartenze di Tofaha sono sempre verso la montagna, sulle alture di Nefusa e altrove. Dove si combatte. Bomber d’altro tipo: nel 2011 contro Gheddafi e ora, quando serve, arruolato nelle milizie volontarie dei fratelli musulmani di Alba libica che si contendono la Tripolitania. In tackle con la sua coscienza: non ha mai lasciato del tutto il calcio, non ha mai abbracciato del tutto la causa. Nessuno dice che Tofaha sia una mela marcia, tutt’altro. È divorato dal baco dell’impegno e della fede, ecco: «Un giorno gli abbiamo chiesto perché lo faceva», dice Akram. «Ha risposto: “Ho paura a mollare il pallone e ad andare a morire a quest’età, ma se domattina vogliamo svegliarci liberi, dobbiamo fare qualcosa”».

Cambio di gioco. Sono in diciassette. Famosi in patria come Khatroushi. O come il portiere Juma Gtat. O il mister Abdel Bin Issa ex allenatore dell’Ahly, la Nazione, l’altro grande club tripolino. Misconosciuti come un terzino del Misurata, un preparatore del Kikia o un cireneo morto in battaglia di cui nessuno ricorda più il nome. Fino a tre anni fa, stare con la primavera significava solo militare in una giovanile: con le primavere arabe, loro sono saliti tutti sulla montagna. Cannonieri da trincea. Inghiottiti in tre anni di rivoluzione e di guerra civile. Dimenticati. «Fra noi non se ne parla mai», spiega Akra. «Non ce n’è bisogno, la situazione la conosciamo tutti...». Perché la situazione è questa Libia sbranata da tante milizie quante sono le sue tribù, con due governi e due parlamenti che si scannano, infestata di jihadisti che neanche in Siria o in Iraq.

In un’oasi di silenzio alle porte di Tripoli s’allena l’Ittihad, l’Unione, la squadra che vinceva tanto finché ci giocava Saadi Gheddafi prima di venire al Perugia, all’Udinese e alla Samp. L’unico segno delle battaglie è il pullman rosso della società sotto le gradinate coi vetri frantumati («Macché guerra, sono stati i tifosi!...») e qualche guardia armata. Ci si prepara a partite che nessuno gioca. Si taglia un’erba che nessuno calpesta. Il calcio e la Libia intera sono fermi. Dal 2011 al 2013 due anni senza campionato, qualche partitella a porte chiuse e, dall’estate scorsa, nemmeno più quella per le formazioni della Libyan Premier League (la loro “serie A”), i centodieci club, i novemila tesserati, i duemilacinquecento arbitri. Chiuso Sport Channel che trasmetteva le dirette. Introvabile il giornale Shebab Riada, Gioventù Sportiva, la rosea libica. Gli stadi più grandi di Tripoli e di Bengasi, 80 mila spettatori, sono sbarrati o fanno da depositi d’armi: sugli sterrati intorno, gli ultrà si prendono a pallonate aspettando il fischio d’inizio, scappando quando fischiano i proiettili. Complicato anche raggiungerli, i campi: nel dedalo di viuzze che circonda il polisportivo 11 Giugno a noi succede di sbagliare strada e di finire dietro gli spogliatoi, in un budello cieco, dove miliziani armati e sospettosi interrompono il rancio, ci puntano le armi, controllano documenti e intenzioni.
Ad agosto, s’è comunicato alla Fifa che per la seconda volta consecutiva la Libia rinuncerà a organizzare la Coppa d’Africa: quella del 2017 doveva essere la manifestazione della rinascita («Sarà per noi quel che nel 1995 è stato il Mondiale di rugby per il Sud Africa», aveva annunciato l’ex vicepremier El Barasi), ma il jihad non è l’apartheid e qui un Mandela proprio non si vede. Le squadre della Cirenaica sono esiliate in Giordania e in Egitto. La nazionale che ha per stella una rondinella della nostra B, Ahmad Benali, il centrocampista del Brescia, all’inizio dell’anno è riuscita a vincere il Campionato delle Nazioni africane, ma ormai può giocare solo amichevoli senza pubblico. Benali rifiuta le convocazioni, troppi rischi, e comunque per prudenza si va tutti in ritiro in Tunisia: decisione del commissario tecnico Javier Clemente. L’anno scorso è bastata una partita col Togo a scatenare una serie di vendette fra tifosi miliziani, a fare 31 morti allo stadio Martiri di Febbraio di Bengasi e a convincere molti della nazionale ospite a disertare: «Tripoli o Bengasi, non m’importa dove ci portino a giocare», si ribellò il togolese Alaixys Romao, centrocampista del Marsiglia, peraltro abituato alle guerriglie e scampato a un massacro durante una trasferta in Angola. «Tutta la Libia è diventata un posto troppo pericoloso per le partite. Ci accompagnino i funzionari della Fifa, se hanno il coraggio!...». Ci fu un’epoca da calcio champagne, gli anni ricchi delle dorate panchine offerte agli Scoglio e ai Dossena e ai Cuccureddu: ora è champagne molotov. Poco da brindare, anche perché è vietato, molto da blindarsi: «Qui hanno tutti paura, non ci viene più nessuno», racconta Hazedin Misrati, un ex che ai tempi del rais era allenato da Eugenio Bersellini e ora s’arrangia a fare da interprete: per quest’anno i dirigenti dell’Ahly avevano ingaggiato in panchina Ruud Krol, apostolo del calcio totale Anni 70 e gloria del Napoli primi Anni 80, 600 mila dollari a stagione, «ma in luglio è scoppiata la guerra civile, lui è venuto e ha scoperto che l’ambasciata olandese aveva chiuso, ha visto il suo residence con le auto carbonizzate sulla strada davanti: adesso non vuole più starci». Poche illusioni: «I dirigenti s’aspettano che alla fine Krol romperà il contratto e accetterà di pagare la penale, pur d’andarsene. Stanno già ripiegando su un tecnico algerino: costa meno e probabilmente è più abituato a queste situazioni di tensione».

Si dice sempre che dopo una rivoluzione c’è la corsa a cambiare casacca. Quella della nazionale libica cambiò assieme alla bandiera: basta col total green islamico della Jamahiriya di Gheddafi, tutti a indossare la maglia rossa, i pantaloncini neri e i calzettoni verdi che riassumessero in una sola divisa i colori (e le divisioni) di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Dimenticare il passato non è stato difficile: a Bengasi, dove osavano odiarlo quand’era ancora potente, gli ultra hanno un asino mascotte che chiamano Gheddafi. Il regime aveva messo il portafogli nella Juventus, ma il cuore restava con l’Ittihad: quando i rivali dell’Ahly vincevano, c’era sempre una scusa buona per contestare il risultato, far ripetere la partita, proibire una trasferta... «Saadi Gheddafi era davvero il peggio», ricorda Issami Al Choukri, 40 anni, giornalista che ha seguito per una vita l’Ittihad ed è poi emigrato a Dubai per fare l’ombra di Maradona. «Hai presente il bambino che interrompe la partita e se ne va via col pallone perché è suo? Saadi era così. Capriccioso. Arrogante. Tifava per l’Ahly. Siccome lo tenevano sempre in panchina, papà gli comprò l’Ittihad. E il potere assoluto sul calcio libico». Un po’ come accadde a uno dei figli di Saddam in Iraq, che infliggeva pene corporali ai calciatori: «Se Saadi giocava, doveva vincere. Se veniva da voi in Italia, doveva giocare. Se si selezionava la nazionale, lui era della rosa...». «Si presentava alle sedute di preparazione con la scorta», dice Samir Aboud, ex portiere della squadra. «L’auto blindata e il corteo posteggiavano a bordo campo. Tutt’intorno si mettevano le guardie armate. Era scarsissimo, ma guai a dirglielo. Chi gli mancava di rispetto, magari uno sfottò sotto la doccia, la pagava. In allenamento, io dovevo far finta di prendere qualche gol». «Il più grande era Bersellini», ride Hemmali. «Quando Saadi cominciava a provare i calci piazzati con le sagome, una cosa inguardabile, l’allenatore italiano sbirciava l’orologio, fingeva un impegno e se ne andava...». Il Sergente di Ferro era l’unico a convivere senza troppi problemi col Colonnello. Da soldato a soldato, si faceva rispettare. Perché l’aveva capito subito che in Libia il calcio e la guerra s’incrociano. E l’importante è salvarsi.