Luigi Cruciani e David Gallerano, Pagina99 13/12/2014, 13 dicembre 2014
IL MESTIERE – [ECCO COME LA CRISI STA CAMBIANDO IL MERCATO DEL SESSO]
«La prima cosa da sapere è che non si guadagna tanto. Sicuramente non abbastanza da poter smettere di fare questo mestiere». Regina è arrivata in Italia da Rio de Janeiro come ragazzo e adesso è compiutamente transessuale; ha battuto la strada, in Toscana, quando sulla sua testa pendeva un debito da 13 mila euro, e ora è una sex worker di successo in un quartiere della movida romana; è stata clandestina, poi si è maritata a uno spagnolo – ma «era più che altro un’amicizia» – e ha preso il passaporto comunitario. A 35 anni. Regina ha già attraversato tutte le diverse dicotomie del mondo della prostituzione.
Lo dicono in coro operatrici del settore, studiosi, mediatori culturali: è scorretto parlare di «mercato della prostituzione». Così, senza nessuna specifica. Esiste un mercato su strada e uno al chiuso, uno delle donne e uno degli uomini (e uno delle trans), uno dei clandestini e uno dei comunitari, uno dei maggiorenni e uno dei minorenni (all’interno del mercato della pedofilia). Il confine tra libera scelta e sfruttamento si ripropone in ognuna di queste coppie, non sempre in modo chiaro. L’unica costante – secondo Federica Gaspari della cooperativa Parsec – è il cliente, che «può scegliere secondo le sue esigenze grazie a un’offerta enorme e diversificata», calcolata recentemente dal Codacons in 90 mila operatori per 3 milioni di fruitori. Un giro d’affari di 3,6 miliardi di euro annui, cresciuto del 25,8% rispetto al 2007.
L’associazione dei consumatori si è ispirata al calcolo ufficiale compiuto quest’anno dall’Istat per adeguarsi alle direttive Eurostat del 1995 sulla rivalutazione del Pil. È una stima che l’ufficio nazionale di statistica riconosce «soggetta a un notevole margine d’incertezza», e che gli ha tuttavia fruttato un Ignobel per l’economia, il riconoscimento assegnato dall’università di Harvard alle ricerche «che fanno ridere, ma poi riflettere».
Fa sicuramente riflettere che dall’inizio della crisi a oggi il fatturato della prostituzione sia aumentato, e così tanto. Ma il dato non sorprende gli esperti del campo: c’è infatti un sostanziale accordo sul fatto che la domanda sia aumentata in modo costante, e che soprattutto l’offerta si sia impennata. Donne e uomini (ma soprattutto donne) schiacciati dalla crisi, che ricorrono al mestiere per compensare altre fonti di guadagno andate perdute.
«20 per un rapporto orale, 40 anale». Questo il prezzario di un gruppo di travestiti romeni e bulgari in procinto di iniziare il turno di notte sui marciapiedi di Viale Europa, nel quartiere Eur di Roma. Dimostrano più di trent’anni e saranno fortunati, dicono, se riusciranno a offrire più di una prestazione nel corso della notte. Poche centinaia di metri a nord, separata dalle sue connazionali più giovani che evitano, scappando, l’attenzione dei giornalisti, c’è Dalida. Dà l’idea di avere appena iniziato: non parla l’italiano, non veste come le altre. Il suo viso non più attraente è spaventato e dopo pochi minuti è già bagnato dalle lacrime, cinto dalle braccia di Matilde Spadaro, la coordinatrice – «a titolo gratuito» – del progetto di zoning promosso dal presidente del IX municipio Andrea Santoro. Spadaro vuole circoscrivere la compravendita del sesso a due o tre aree di tolleranza, per «allontanare gli effetti perversi della prostituzione stradale dai centri abitati e per portare finalmente alla luce un mondo pericolosamente sommerso». Per quello che si sa, non molto, quasi tutte le prostitute stradali sono vittime di sfruttamento. Sono allora «prostituite, più che prostitute», precisa Mirta Da Pra del Gruppo Abele. Rispetto a pochi anni fa si è registrato un «asciugamento delle nazionalità coinvolte: oggi prevalentemente lavorano le nigeriane e le rumene» – afferma Gaspari.
Isoke Aikpitanyi è arrivata in Italia dalla Nigeria nel 2000. Dopo tre anni sulla strada, si è liberata dall’organizzazione criminale che la sfruttava e insieme a suo marito, un ex cliente, ha fondato l’associazione Vittime della Tratta. «Fino a un paio di anni fa era pacifico sostenere che la metà delle vittime di tratta fossero nigeriane» – dice. «Oggi la proporzione è diminuita, ma soltanto perché sono aumentate le ragazze provenienti da altri Paesi». Le ragazze nigeriane, “benedette” da un rito voodoo, si sentono legate all’impegno sin dal momento della partenza. Secondo Isoke, sulla strada lavorano in 15 mila, ma sono almeno 100 mila quelle sfruttate negli ultimi 20 anni. «Dove sono finite?» si chiede. «Probabilmente non si sono liberate dalla tratta, sono diventate maman o loro collaboratrici. Oppure sono sparite, sono morte. Pochissime hanno trovato una via di uscita».
Racconta l’avvocato Gioia Padoan, collaboratrice dell’unità di strada della Parrocchia di San Frumenzio a Roma, che pochi giorni fa una prostituta rumena è riuscita a sfuggire al suo protettore. «Un evento raro. Ma non potete intervistarla perché è nel programma di protezione del comune». Secondo Federica Gaspari, lo «spartitraffico all’interno del complesso universo del sesso a pagamento non è il lavorare all’aperto o al chiuso, ma possedere o meno un permesso di soggiorno». Effettivamente le italiane, uno stabile 10% dell’offerta, lavorano per necessità ma non per coercizione. Le ragazze romene non sono di norma vittime di tratta, però sono vincolate comunque da un rapporto di dipendenza con uno sfruttatore che è al contempo protettore e fidanzato. In continuo aumento, rappresentano un buon 30% del mercato su strada (dati 2008).
E occupano in massa anche l’ambito della prostituzione indoor, affiancate da bulgare, cinesi e trans brasiliane. L’ondata di ordinanze comunali anti adescamento ha prodotto un boom della prostituzione al chiuso, variabile negli anni dal 30% all’80% nelle diverse Regioni italiane (più al nord che al sud). Operare lontano dalla strada non garantisce l’emancipazione dallo sfruttamento. «Anziché incidere sul fenomeno in sé, lo ha spostato e in certi casi radicalizzato» – secondo Da Pra. II caso più significativo è quello delle prostitute cinesi, ombre di cui si sa poco o nulla, se non che nella maggior parte dei casi sono vittime di tratta. Ma anche chi lavora da libero professionista non riesce a liberarsi da forme più o meno incalzanti di intermediazione.
Regina deve «far fronte a spese enormi». Lavorare in proprio costringe le prostitute ad autopromuoversi. «Sempre meglio di quando dieci parole sul Messaggero ti costavano 120 euro, ma comunque con internet 800 al mese di annunci vanno via». Il più caro di tutti è il quasi monopolista Piccole Trasgressioni, un sito intorno al quale orbitano altri 250 satelliti dedicati. Poi Punto Trans, Bakeca incontri... E tutti hanno bisogno di foto professionali, anche quelle molto costose». Quindi l’affitto dell’appartamento, ubicato preferibilmente «in un luogo dove transiti gente benestante. E altri 1.300 euro se ne vanno...». Le prostitute extracomunitarie non è il caso di Regina sono costrette a ingaggiare degli esosi prestanome. E poi gli affittuari si fanno pagare caro il rischio di incorrere nel reato di favoreggiamento della prostituzione. I guadagni, alla fine, «non sono più quelli di una volta», dei tempi (metà anni ’90) in cui Regina vedeva aggirarsi per Rio ex colleghe di ritorno dall’Europa con «due, tre macchine e un paio di belle case». Il suo collega e connazionale Everaldo racconta che al suo arrivo, nel 2010, faceva «1.200 a settimana. Oggi se faccio la stessa cifra in un mese è grasso che cola». Colpa, concordano i due, della concorrenza sleale esercitata nei confronti di Everaldo «dai rumeni della stazione che si fanno scopare per 30 euro» e per Regina «dai gay travestiti che lavorano per meno di 50 a prestazione». Con la crisi, lei ha accettato di «venire incontro al cliente in fase di trattativa. Ma sotto gli 80 non si può scendere».
Dalla schiavitù all’imprenditoria giocata sul proprio corpo, a mancare sono sempre le tutele. E a operare nel campo sono quasi solamente le associazioni umanitarie private. Le prime a chiamare in causa una politica che latita. Soprattutto a partire da una base legislativa comunque considerata valida, dalla legge Merlin all’art. 18 della legge n. 40 sull’immigrazione.
Secondo Mirta da Pra, «le leggi che abbiamo sono già buone. Ma non sono applicate, e vengono applicate male. Bisognerebbe fornire percorsi di uscita fattibili, innanzitutto offrendo alternative occupazionali e lavorando sul tema della domanda per fare prevenzione».
Per Gaspari «il problema vero è umanitario. Il focus è quello della tratta, fenomeno che nasce a inizio anni ’90, quando un numero abnorme di migranti ha fatto riesplodere la domanda di sesso a pagamento. È necessario affrontare la questione delle politiche migratorie. Gli interventi statali sulla tratta sono diminuiti, e la politica si è limitata a proporre misure igieniche e repressive di nessuna utilità».
«Mando via via parte dei miei guadagni in Brasile». Regina giudica pericoloso tenere ferme nel suo conto italiano cifre troppo alte. A una sua collega è arrivata una cartella esattoriale di Equitalia da centinaia di migliaia di euro. «Se lo Stato vuole regolare ben venga. Mi darebbe gioia contribuire al benessere della società italiana. Mi piacerebbe che la vecchina che va a ritirare la pensione potesse dire; “parte di questi soldi me li ha pagati una mignotta”». Purché lo Stato prenda in considerazione il fatto che «siamo già oberati di costi indiretti». Tuttavia la soluzione non può essere la riapertura delle case chiuse – che Regina – ha già frequentato (in Spagna) dove chi «amministra il bordello impone alle prostitute i prezzi e la natura delle prestazioni». E che comunque in Italia in qualche modo già esistono, sotto forma di night club. Per Everaldo sarebbe sufficiente «assistenza sanitaria» e un intervento diretto contro l’immigrazione clandestina, che crea concorrenza sleale. Sul ciglio della strada, alle 22 di un venerdì sera invernale, Dalida è ancora tra le braccia di Matilde Spadaro. Non parla italiano. Mormora soltanto: «Lavoro, Romania».